Anniversario librario, parresia, storia: tre post al prezzo di uno

Post multiplo, uno e trino come molte divinità (mica solo quella cristiana). Tre temi diversi ma connessi. Oggi è così.

1)

In questi giorni, dieci anni fa, presentavo il mio primo libro al Salone del Libro di Torino. Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso era appena uscito e non avevo idea di cosa ne sarebbe venuto fuori. A Torino mi scortò autorevolmente (oltre che amichevolmente, ma questi sono fatti nostri) Michela Murgia, che aveva anche scritto la presentazione del volume.

Il libro di suo era un esperimento un po’ folle, ma non per questo improvvisato. C’era della lucidità, nella follia, pur con la consapevolezza che essere all’altezza del compito non era affatto facile, tanto meno scontato. Era il primo tentativo, che io sapessi (e che io sappia), di saggistica, o forse meglio pamphlettistica, post- o de-coloniale in Sardegna.

Un’ispirazione molteplice ed eterogenea – dai dizionari filosofici illuministi, passando per Gramsci e arrivando a Furio Jesi – mi aveva suggerito la forma e la chiave della trattazione. Alla fine la ricetta si era rivelata giusta. L’esito non posso valutarlo io, bensì chi lo ha letto (io – confesso – non l’ho mai fatto, dopo che è uscito).

Il libro non si trova più. Scaduti i dieci anni contrattuali dalla pubblicazione e mancando una proposta di nuova edizione da parte della prima casa editrice (Arkadia), a cui pure l’avevo prospettata, sarebbe possibile ripubblicarlo altrove, magari in un’edizione riveduta e aumentata. Ci ho pensato, ma non sono arrivato a una conclusione definitiva. Vedremo.

Posso giusto dire che questi dieci anni sono trascorsi maledettamente in fretta e che questo libro ha avuto per me, soggettivamente, un’importanza decisiva. Credo che abbia anche lasciato un segno, per quanto piccolo. Ma più che altro temo che non abbia perso la sua attualità. Non è l’aspetto più positivo della faccenda.

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2)

Vito Biolchini sul suo blog ha fatto un esercizio di parresia, stigmatizzando la pavidità del dibattito pubblico in Sardegna, con mass media e intellettualità in testa alla classifica. Potrei dire semplicemente: benvenuto nel club. Non conto più le volte che ne ho scritto qui e altrove. Ho dedicato un libro a rivelare i meccanismi della politica sarda, da testimone diretto (e a suo modo interessato, certamente). Ma il suo è un discorso corretto e opportuno, quindi è giusto condividerlo e rilanciarlo.

È un problema storico, non solo di oggi, incardinato nella posizione subalterna della Sardegna nello scenario politico contemporaneo. Scenario a cui i nostri ceti dirigenti – politici, economici, intellettuali – si sono sempre adattati, cercando di ritagliarsi il proprio spazio di comfort, assumendosi il ruolo di intermediazione tra i centri di potere e di interesse dominanti e il territorio sardo.

La borghesia parassitaria sarda e la classe politica da essa espressa da due secoli a questa parte seguono un copione abbastanza ripetitivo: arricchirsi e sistemare le proprie famiglie all’ombra e sotto la protezione dell’apparato di potere vigente, sia pure a discapito degli interessi generali e collettivi dell’isola. E, per conseguire tale obiettivo, imporre, alimentare e perpetuare il nostro mito identitario “colonizzato” (precisamente il bersaglio di Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, guarda un po’).

In una condizione del genere, si sono sviluppati e sono diventati cifra costitutiva della politica e della cultura sarda comportamenti e istinti deleteri come conformismo, pavidità, ipocrisia. L’opera indefessa di imposizione egemonica, associata a mediocrità e cialtronaggine politica diffuse, hanno colonizzato il senso comune e contribuiscono alla rassegnazione generalizzata.

Per questo è apprezzabile che ogni tanto si levi una voce fuori dal coro e squarci il velo di omissioni e silenzi dietro il quale prosperano i vari boss dei pacchetti di voti, i vari distributori di finanziamenti e di prebende, i vari padroni delle spartizioni clientelari. Che poi sono sempre quelli, mica parliamo di centinaia di persone non identificate.

Il problema è che in Sardegna manca un ambito culturale autonomo, libero, profondamente democratico. È uno degli aspetti della nostra cronica deficienza politica. Deficienza nel senso letterale del termine. È un aspetto decisivo del mancato compimento storico di una vera democrazia nell’isola. In questo senso, tradita molto più dalla stagione repubblicana e autonomista di questi ultimi settantacinque anni – le cui premesse e le cui promesse sembravano diverse – che dai faticosi periodi precedenti (fascismo, Regno d’Italia, Regno di Sardegna sabaudo).

Parlare di questo problema è fondamentale. Far emergere la realtà che viene sistematicamente omessa o camuffata nelle cronache e nel discorso pubblico è un dovere di onestà intellettuale a cui più persone dovrebbero sentirsi chiamate.

Tra qualche mese la Sardegna dovrà rinnovare le proprie istituzioni regionali e sia prima sia dopo ci saranno una serie di importanti elezioni amministrative. Far crescere il dibattito politico e dare ad esso una forma e dei contenuti degni di una vera democrazia è essenziale. A meno che non ci vada bene l’andazzo conosciuto fin qui.

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3)

La storia in Sardegna è non solo una disciplina “politica” di suo, ma è anche un campo di conflitto intellettuale e, appunto, politico sempre vivace, benché non troppo in primo piano. I modi e i termini di questo conflitto sono poco enfatizzati, o meglio, non colti nella loro giusta dimensione e problematicità.

Chi dovrebbe occuparsi di storia “per statuto”, ossia l’ambiente storiografico e in generale intellettuale sardo, è perlopiù ossessionato da un’idea paranoica: la minaccia della fantarcheologia e quella della deriva “indipendentista” (a volte qualcuno scrive “sardista”) nell’uso pubblico della storia.

Si tratta, come dicevo, di un’idea paranoica, data la ridotta dimensione dei fenomeni e data la loro effettiva portata culturale e politica. Molto spesso si intravvedono tali minacce dove non ci sono. È un sintomo di debolezza e anche di una certa coda di paglia. Il problema dell’ambito storiografico sardo è lo stesso denunciato più in generale da Biolchini: la pavidità. Si dissimula questa mancanza di coraggio intellettuale e politico dietro discorsi di correttezza metodologica e contenutistica.

Che si tratti di un camuffamento di comodo lo evidenziano gli innumerevoli casi in cui, col medesimo metro di giudizio, si dovrebbe intervenire a stigmatizzare altri usi propagandistici della storia o anche le magagne contenutistiche e metodologiche di tema storico in altri ambiti pubblici, e invece non lo si fa.

Penso alla totale mancanza di vigilanza sul contenuto dei libri di testo scolastici. L’assenza della storia sarda nei programmi di studio e nei manuali si alterna a una presenza lacunosa e mistificatoria. Informazioni approssimative se non del tutto false a proposito della Sardegna e del suo passato (ma anche del suo presente) sono facilmente reperibili nella maggior parte dei testi adottati nelle scuole dell’isola. Su questo, mai niente da dire, a quanto pare.

Così come non ho mai avuto notizia di un intervento correttivo a proposito delle sciocchezze propalate in molta divulgazione storica televisiva. E non parliamo delle baggianate sputate fuori da giornalisti e commentatori vari sui mass media principali, da personaggi politici o persino dalle medesime istituzioni sarde (pensiamo agli accostamenti arbitrari e mistificanti a proposito di Sa Die de sa Sardigna, o all’indottrinamento militarista nelle scuole e nelle università corroborato col feticcio ideologico e pseudo-storico della Brigata Sassari).

Niente da dire nemmeno sulle costose baracconate messe su da prestigiosi comitati trasversali, ma di solito capitanati da quei geni del male che sono i Riformatori sardi, come la campagna a favore dell’insularità in costituzione (su cui non mi risulta alcun intervento decostruttivo e/o critico di qualche storico o storica impegnat* nell’isola), o quella, tutt’ora in corso, dell’associazione La Sardegna verso l’UNESCO. (Sarei lieto di sbagliarmi.)

Operazioni costose (e ben finanziate) non solo discutibili sul piano politico e metodologico, ma spesso anche diseducative, in quanto rivolte alle giovani generazioni.

Per inciso, è del tutto possibile fare opera di divulgazione storica e didattica della storia, anche e soprattutto presso le giovani generazioni, senza giovarsi di cospicui finanziamenti pubblici e di tanta copertura mediatica. Non lo dico per dire, ma per esperienza diretta.

Una divulgazione storica ben fatta, onesta, aperta, popolare, con tutta probabilità toglierebbe spazio proprio ai tanto temuti contenuti fantastorici o fantarcheologici. E non farebbe male nemmeno una maggiore disponibilità verso il dibattito pubblico, sia su temi storici sia su temi di attualità, anche a costo di pestare qualche piede importante e/o contrastare l’apparato di potere dominante.

La Sardegna non è una terra per persone coraggiose e con la schiena dritta, sembrerebbe, a dispetto delle vagonate di retorica sul presunto “orgoglio sardo”. Generazioni di intellettuali di corte o di regime, o comunque vincolati a padrini politici e gruppi di potere, hanno lasciato un’eredità di grandi debiti culturali. Che paghiamo noi. Decenni di subalternità culturale e colonizzazione televisiva indisturbate (o quasi) lasciano sul campo un bel disastro. Speriamo non sia troppo tardi per porre rimedio.

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