Da circa un anno opera in Sardegna un’entità chiamata NurNet. Nata come operazione di raccolta e diffusione di immagini archeologiche sui social media, diventata una sorta di polo di attrazione per contestatori delle verità storico-archeologiche ufficiali, ha assunto nel corso dei mesi una dimensione tale da pretendere di avere voce in capitolo non solo su internet e nei mass media, ma anche nella sfera politica, presentandosi come interlocutore delle amministrazioni locali e dei partiti.
È interessante capire chi anima questa iniziativa e chi ne gestisce la comunicazione. Si tratta di un gruppo ristretto che fa capo ad Antonello Gregorini, persona piuttosto nota a Cagliari e hinterland, animatore politico, sostenitore della candidatura di Massimo Fantola alle ultime elezioni cagliaritane, in passato vicino ai Riformatori sardi. L’area politica di riferimento, insomma, è quella della borghesia di destra, liberale e liberista (o sedicente tale). Niente di illegittimo, naturalmente. Ma è giusto saperlo.
L’operazione NurNet, come detto, ha rapidamente travalicato i confini della mobilitazione di appassionati di archeologia e misteri, che pure ammontano a molte centinaia di persone in Sardegna, e ha assunto i connotati di una iniziativa sia economica sia politica. Nominalmente, da quel che risulta oggi, si tratta di una “fondazione di partecipazione“. I suoi scopi non sono ancora del tutto espliciti. Per ora si occupa del nostro patrimonio archeologico, con una attenzione insistente sul periodo preistorico e protostorico, ma nei suoi documenti e nei suoi comunicati c’è anche indubbiamente dell’altro.
Per capire qualcosa di più proverei ad analizzare il Manifesto del 6 gennaio, pubblicato da NurNet proprio ieri, a proposito del presidio del sito di Monte Prama. Il fatto è relativamente noto. NurNet accusa le autorità accademiche e civiche di aver sostanzialmente abbandonato il presidio del sito archeologico dei Giganti e ha mobilitato dei volontari per sorvegliarlo in questo periodo festivo. Un’iniziativa di per sé poco dannosa e anzi per certi versi meritoria. Se non che anch’essa si inserisce in un quadro ideologico implicito che invece meriterebbe di essere messo in luce.
Per questo il Manifesto in questione può tornare utile. Vi si leggono naturalmente le accuse di cui sopra rivolte alle autorità competenti, non solo a proposito dell’asserito abbandono del sito dei Giganti in questi giorni, ma in generale riguardo la condizione degli studi e della divulgazione storica in Sardegna.
Nel Manifesto si fanno anche delle denunce e si specificano le accuse:
Ma come è potuto accadere tutto ciò?
• Secondo noi è accaduto perché il sistema pubblico dei BB CC in genere e dell’archeologia non è conforme e funzionale, almeno in Sardegna, alla trasparente divulgazione, mirata alla valorizzazione, della nostra storia.
• Lo dimostra anche la recente cronaca di questo scavo. Sono avvenuti dei fatti inspiegabili che ancora appaiono non chiariti. UN PROTOCOLLO D’INTESA A TRE, eufemisticamente inusuale, a cui segue uno scavo dichiaratamente non protocollare. Il battage mediatico, le polemiche, le reazioni, la propaganda, e poi il silenzio, per arrivare infine all’abbandono natalizio: Costruire la pentola, senza il coperchio.
• A Natale il più importante sito archeologico del momento è stato lasciato privo di sorveglianza per mancanza di fondi.
Appare corretto tutto ciò? A noi è parso che no e, quindi, eccoci qui, con Voi, a presidiare volontariamente ciò che altri, pagati per questo, non intendono fare.
Ma non è solo una questione di scavi archeologici. Vi è un argomento più importante che noi vogliamo porre come sovra ordinante:LA SARDEGNA HA DIRITTO AD AVERE E VEDERE RICONOSCIUTA , TUTELATA E INSEGNATA LA PROPRIA STORIA.
Noi CHIEDIAMO che ai bambini Sardi venga insegnata la storia antica della terra che li ospita, di modo che non facciano gli errori dei loro padri che hanno arato le pietre antiche per far pascolo o le hanno macinate per far ghiaia.
Alla denuncia si aggiunge dunque una richiesta – sia pure generica – di tutela e insegnamento della storia sarda nelle scuole. Della storia sarda “antica”, è specificato. Ma fin qui niente di clamoroso. Il Manifesto di NurNet però prosegue in questi termini:
La comunicazione dell’archeologia, infatti, non può essere considerata giurisdizione esclusiva degli archeologi; questi hanno un ruolo importantissimo nel nostro piano di sviluppo della Sardegna, ma l’archeologia sarda colpisce il cuore di tutti coloro che amano la Sardegna e appartiene a tutti i comunicatori liberi del mondo ed è sfera cognitiva ben più ampia di quella meramente accademica.
Domani riprenderanno gli scavi ma noi continueremo a presidiare questo territorio fisicamente e idealmente, attraverso i social network e gli strumenti digitali, e così faremo anche per gli altri siti in cui siano presenti testimonianze archeologiche.
Un’epoca è terminata, e pretendiamo che inizi il periodo del ri-conoscimento.
La comunicazione e la divulgazione archeologica apparterrebbero dunque non solo e non tanto agli archeologi ma “a tutti i comunicatori liberi”. Chi siano questi ultimi non è dato sapere. Qui c’è un primo problema piuttosto serio. I limiti e le debolezze della nostra archeologia sono evidenti. Sappiamo quanto paghiamo la dipendenza dall’organizzazione del sapere italocentrica e le conseguenze di questa condizione sono state più volte segnalate, anche in questo spazio. Nondimeno, la risposta a tale problema strutturale non può essere il dilettantismo al potere. Alle lacune e all’inerzia degli studi archeologici bisogna sopperire con più studi, più fondi, maggiore scienza e conoscenza, maggiore divulgazione di qualità, non col volontaristico impegno di non meglio definiti appassionati. Essere appassionati, avendo magari letto molti libri in materia e coltivando la curiosità in un certo ambito disciplinare, non equivale neanche lontanamente ad aver acquisito una formazione strutturata e competenze professionali adeguate. Altrimenti io sarei un astrofisico. Qui c’è un rischio gravissimo per tutto il nostro patrimonio storico e per l’organizzazione del sapere in Sardegna, nonché per le sue conseguenze culturali e politiche. Non a caso nel passo sopra citato si accenna a un “nostro piano di sviluppo per la Sardegna”. Ossia, oltre alla passione archeologica c’è dell’altro.
Poco più avanti infatti si legge:
SIA FINALMENTE INSEGNATA LA STORIA, LA LINGUA, I FONDAMENTI DEL NOSTRO ESSERE SARDI NELLE SCUOLE DELLA SARDEGNA
L’apprendimento della lingua e della storia devono costituire un elemento basilare del percorso scolastico, perché non si disperdano i fondamenti del nostro essere Sardi.
Per questo chiediamo che tutte le forze politiche facciano quanto in loro potere per dare attuazione a questo diritto che invece ci appartiene, sempre negato, pur essendo riconosciuto dalla costituzione italiana e dalla carta dei Diritti dei Popoli.
Desideriamo che le comunità sarde, così come avviene per i luoghi e i personaggi di altri periodi storici, rammentino nella toponomastica, nei nomi delle vie, delle piazze, con monumenti, l’Antica Civiltà Sarda […].
Cosa sono “i fondamenti del nostro essere Sardi”? Possono esistere dei fondamenti definibili con certezza di una appartenenza collettiva? E in cosa consisterebbero?
La risposta a questi quesiti può essere positiva solo se si assume come valida la definizione dell’appartenenza come qualcosa di certificabile. Non dunque una libera scelta, ma una condizione personale. Questo è il fondamento di ogni essenzialismo. Materiale ideologico ottocentesco e del primo Novecento che fa suonare un insistente campanello d’allarme. In base a questo approccio ideologico non solo dunque esisterebbero dei “fondamenti” dell’appartenenza sarda, ma essi sarebbero rintracciabili precisamente nella nostra storia più antica e in pochi, rigidi elementi decisivi.
Da qui il discorso diventa estremamente pericoloso. Una simile visione generale di matrice etnocentrica, romantica e storicista ha delle conseguenze sul piano politico, sul piano dei valori, sul piano della concezione delle relazioni e dei rapporti di forza dentro la società sarda.
Tutta l’operazione NurNet, insomma, rivela un disegno che oltrepassa la polemica internettiana sulla mala gestione del nostro patrimonio storico-archeologico. Il fatto che il suo contraltare siano le scorribande squadristiche (fortunatamente solo virtuali) di anonimi difensori dello status quo ci suggerisce solo che rischiamo di trovarci presi nella morsa di due poli oscurantisti contrapposti ma ugualmente minacciosi. Niente di democratico, libero, fecondo, inclusivo. Nulla che abbia realmente a che fare – a dispetto della retorica para-nazionalista usata in questo caso – con la nostra emancipazione storica e la nostra autodeterminazione.
Agli addetti ai lavori questa operazione suscita fastidio e ostilità, quasi sempre di natura corporativa. Alcuni di loro confondono volentieri l’operazione NurNet e i suoi seguaci con gli ambiti politici indipendentisti. Il guaio è che alcuni indipendentisti si sentono attratti dalle sirene di NurNet e alimentano questo equivoco. Tuttavia non c’è alcuna possibile sovrapposizione meccanica tra la prospettiva politica indipendentista, almeno nel suo versante democratico, laico e progressista, e ciò che NurNet incarna e rappresenta. Ma naturalmente il problema è più generale ancora.
La necessità di riappropriarci della nostra storia (di tutta la nostra storia e soprattutto di quella moderna e contemporanea, non solo e non tanto di quella più antica) è una necessità strategica. Le modalità con cui tale riappropriazione deve avvenire non sono però neutre. È concreto il pericolo (qui già segnalato) che una mitopoiesi di stampo nostalgico e in fondo ostile al sapere rigoroso, disciplinato e verificabile nasconda posizioni politiche populiste e reazionarie. Tale pericolo si manifesta in un momento assai delicato della nostra storia, quando alcune strutture portanti del sistema socio-economico e politico che hanno dominato la Sardegna negli ultimi duecento anni sono in una condizione di grande debolezza. Sostituire ad esse nuove strutture è lo scopo di una fetta della classe dominante sarda, di gruppi più o meno collegati tra loro e più o meno formalizzati, che intendono sostituirsi in tutto o in parte all’attuale classe politica e ai suoi addentellati negli enti, nelle amministrazioni, nelle aziende sanitarie e negli istituti di credito. Un’operazione di potere ideologicamente orientata a una visione sostanzialmente antidemocratica.
Si tratta in altre parole del rischio, variamente incarnato e ripetutamente segnalato, di ritrovarci nel bel mezzo di una rivoluzione passiva. NurNet, forse persino a dispetto di alcuni suoi sostenitori, sembra appartenere al novero delle iniziative votate alla normalizzazione della situazione politica e sociale sarda, non alla sua maturazione culturale e civile. Coltivare un forte senso critico in questi frangenti è doveroso. Senza condannare nessuno preventivamente, ma tenendo le antenne ben dritte. Non certo a tutela degli apparati baronali che infestano le nostre università, o della cappa censoria che la dipendenza politica getta inevitabilmente sulla nostra storia, ma prima di tutto a beneficio di valori di eguaglianza, democrazia, inclusione sociale e culturale, libertà di accesso ai beni comuni, che rappresentano i soli fondamenti emancipativi del nostro auspicato riscatto politico.
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