La mitopoiesi come arma di distrazione di massa e come strumento di egemonia culturale

Sembra che intorno ai Giganti di Monte Prama si stia scatenando una sorta di psicosi collettiva. Notevole, se pensiamo a quanto poco peso abbiano di solito i temi culturali e quelli storici nel senso comune della gente.

Non è solo questione di sensazionalismo alimentato dai mass media. I mass media fiutano l’interesse dei lettori e dei telespettatori. La curiosità esiste ed è tanta e diffusa. È come se un argine si fosse rotto.

Questo fenomeno morboso, perfettamente spiegabile in una popolazione da sempre deprivata di una conoscenza storica decente, ha a sua volta risvolti molteplici. Così da un lato di consolidano teorie del complotto che vogliono la storia sarda ostaggio di una sorta di casta sacerdotale votata alla sua negazione (l’Accademia, gli archeobuoni, e via etichettando), da un altro alcuni bei tomi, strenui difensori dello status quo, si buttano nella mischia con azioni squadristiche, delegittimando o attaccando personalmente singoli portatori di tesi alternative o semplicemente non allineati col pensiero ufficiale (o quello che questi poveri cristi anonimi ritengono tale).

Invidie e capziose vendette intellettuali, a volte per interposta persona, condiscono la scena. Naturalmente il frutto di questo scontro di pratiche oppositive è uno scadimento generalizzato del dibattito pubblico in tema storico e archeologico. I social media sono la piattaforma ideale per dare la stura alle pratiche peggiori di cui siamo capaci.

Prendere le distanze dagli opposti estremismi è importante ma non è sufficiente. Ci sono degli elementi inquietanti che rimangono sottotraccia e che invece è necessario rilevare.

La costruzione di mitologie è una faccenda delicata. Quello che i Sardi ritengono di sapere su se stessi, come detto e argomentato altrove, anche in questo blog, è un mito. Un mito tossico fatto di stereotipi paralizzanti.

Secondo tale mito, le cose stanno come stanno e non c’è modo di cambiarle, perché soffriamo di tare genetiche insuperabili; l’unica cosa che potremmo fare è “resistere” e pretendere il riconoscimento della nostra specialità.

Una serie di costrutti mal assemblati e di feticci  resi solidi dall’uso reiterato, ma storicamente e teoricamente molto fragili. Eppure, egemonici.

Reagire a questa narrazione è necessario, ma bisogna stare attenti a come lo si fa, ed anche al “dove” e al “quando”. In certi casi anche al “chi”.

Oggi, per esempio, ci si indigna perché gli scavi a Monti Prama saranno presto condotti da una ditta emiliana, regolare vincitrice di un appalto. Ditta che prenderà il posto delle università sarde.

L’indignazione potrebbe essere ragionevole, ma solo se partisse da presupposti diversi da quelli emersi fin qui. La lamentela è alimentata dal senso di espropriazione che tale situazione induce negli osservatori.

L’avvicendamento negli scavi suona come una esautorazione dei Sardi da parte dello stato italiano e scatena sentimenti di astio etnico, di rivendicazioni generali di tipo politico.

Invece le polemiche in questo caso sono mal indirizzate e fondate su un equivoco. Forse non è chiaro, ma il nostro patrimonio culturale, e in particolare quello archeologico, appartiene allo stato italiano, non alla Regione sarda.

In questo come in altri casi non esiste alcun “popolo sardo” portatore di una sua propria soggettività e dunque di una propria legittima volontà, di propri diritti e di proprie responsabilità. E le stesse università sarde sono università statali, non certo l’avanguardia culturale di un popolo che rivendica competenze e responsabilità sulla propria storia.

Bisognerebbe aprire un dibattito serio su questi aspetti, prima di lanciare campagne rivendicative senza capo né coda.

Si approfitta dunque di questa evenienza (per altro risaputa da molte settimane) per irrobustire se possibile una nuova mitologia. La quale parte dal presupposto che la nostra preistoria e protostoria siano le uniche vere matrici della “sardità”.

Si assume insomma quel periodo lontano come quello più qualificante per la nostra stessa identificazione, anzi a tal proposito si utilizza diffusamente e con forza il termine “identità”.

Mi pare che questo discorso sia molto debole dal punto di vista del metodo e degli stessi contenuti.

Ipotizzare che esista davvero una identità collettiva fissa e che questa sia fondata su fatti e elementi culturali di tremila anni fa è una forzatura evidente.

I Sardi di oggi saranno anche discendenti dei nuragici o dei committenti delle statue di Monti Prama, ma sono anche discendenti dei Sardi delle epoche successive.

La nostra storia non si è fermata all’Età del ferro, né all’epoca di Amsicora, né a quella di Opsitone e non si è fermata nemmeno nel 1409 o nel 1796.

Noi contemporanei siamo figli di tutta la nostra storia e della storia della parte del mondo in cui la Sardegna è situata. E la nostra identità è dinamica, mutevole, aperta. È sempre stata così.

Voler fissare un canone identitario di riferimento è un’operazione ideologica e va riconosciuta come tale.

Stiamo già pagando le conseguenze del nostro mito identitario dominante. Una sua riverniciatura in funzione conservatrice, con tanto di riesumazione della “costante resistenziale”, o cose del genere, non serve di certo a migliorare la nostra condizione storica attuale.

Perché è questo che alla fin fine si intravvede in tutte le polemiche e le recriminazioni identitarie a proposito dei Giganti e dell’epoca nuragica: operazioni politiche.

Bisognerebbe chiedersi a che pro. La sfida sembra essere tra chi vorrebbe costruire un nuovo mito dal sapore anche vagamente esoterico intorno alla civiltà nuragica e chi vorrebbe invece mantenere la conoscenza storica appannaggio di una ristretta elite, possibilmente senza scardinare carriere consolidate nel cursus honorum accademico italiano.

Ma niente ci obbliga a morire schiacciati tra queste due forme di conservazione. Non c’è niente di edificante, in tutto questo, e nemmeno di lontanamente emancipativo.

Il nostro passato deve essere conosciuto e divulgato, deve far parte del nostro bagaglio di conoscenze, deve servirci come termine di paragone e anche come fonte di comprensione per il nostro presente. Non se ne può fare una bandiera politica di parte né la fonte di legittimazione di ambizioni personali o di interessi costituiti.

Bisogna diffidare di ricostruzioni mitologiche che sembrano fatte apposta per nascondere progetti  interessati circa il nostro presente e il nostro futuro.

I miti tecnicizzati questo fanno: mascherano ideologicamente interessi, rapporti di forza, ricerca del potere. Sono dispositivi estremamente pericolosi e vanno smascherati e denunciati, perché, per affascinanti che possano sembrare, non ne viene mai niente di buono.