Il pezzo qui dedicato a NurNet ha suscitato diverse reazioni. Naturalmente è sacrosanto che si discuta e ci si confronti ed anzi questo dovrebbe essere il senso di ogni intervento nella sfera del discorso pubblico. Noto tuttavia che in pochissimi casi e solo marginalmente si è entrati nel merito dei problemi sollevati. Sarà bene, dunque, tornare su alcuni punti dirimenti, per chiarirne il senso, onde liberare il campo dai possibili equivoci.
Prima di tutto è doverosa – anche se sgradevole e irrituale – una precisazione di natura personale. Questo blog non ha a che fare con la mia militanza politica passata, presente ed eventualmente futura. Non è una sede di comunicazione di partito o di propaganda politica, di nessun genere e a nessun titolo. È uno strumento di lavoro, di riflessione e di partecipazione al dibattito pubblico. Non ha altri vincoli da rispettare se non quelli generali della correttezza e della legalità e quelli specifici della mia coscienza civica e del mio senso di responsabilità. Meglio essere chiari, su questo punto, anche per evitare strumentalizzazioni o interpretazioi capziose.
D’altra parte – e qui veniamo a uno dei punti fondamentali che vorrei affrontare – è perfettamente inutile nascondere il legame inevitabile tra questioni storiche e, in senso più ampio, culturali con la sfera politica. Intanto perché tutto ciò che riguarda la “polis”, la sfera pubblica, è politica. Inoltre perché in particolare la storia ha in sé non solo degli aspetti scientifici, metodologici, tecnici, ma anche narrativi, emotivi, relazionali.
Quando si maneggiano questioni storiche bisogna muoversi con estrema cautela, senza rinunciare al proprio punto di vista, o a un inquadramento ideale, teorico e anche politico (in senso ampio) delle questioni, ma dichiarandoli, rendendoli espliciti e tenendo sempre presente la distinzione tra ricostruzione onesta, metodologicamente corretta, delle cose e interpretazione politica delle medesime. Non è facile, ma è un fattore determinante. Altrimenti si cade nella pura propaganda (volontaria o involontaria, cambia poco).
Porre dei fatti storici lontani a fondamento di prospettive politiche attuali non è una faccenda neutra, senza connotazioni e conseguenze. Di solito è una scelta di tipo nazionalista, a volte esplicitamente reazionaria, se non discriminatoria, e può alimentare persino derive violente, come la storia ci insegna. Privilegiare l’appartenenza a una nazione, a un popolo, stabilendo un “noi” e un “gli altri” come unico criterio generale di autorappresentazione di sè e dei propri interessi, non è la stessa cosa che fondare l’appartenenza sull’idea di una società complessa, dinamica, aperta, che prescinda dal discorso etnico, del sangue e della discendenza. Solo perché siamo tutti sardi non significa che abbiamo tutti gli stessi interessi e gli stessi bisogni, perciò privilegiare la “sardità” su altre categorie teoriche, fondandola arbitrariamente su alcuni elementi essenziali, ha un notevole peso politico. Sottolinearlo non significa certo negare rilevanza alle specifiche condizioni storiche, geografiche e culturali della Sardegna nel dibattito politico attuale. Nell’insieme, però, coniugare elementi storici appositamente selezionati, identità e obiettivi politici è un gioco pericoloso, se lo si fa in buona fede, e molto minaccioso se lo si fa deliberatamente. Questo deve essere chiaro a tutti. È una questione che non si può eludere.
Per calare il discorso ancor più nel concreto, proviamo a fare degli esempi. Fondare una pretesa identità sarda su elementi storici lontani, scelti alla bisogna (la civiltà nuragica, i Giganti di Monte Prama, Ampsicora, ecc.), è uno sport molto amato in ambito sardista e in ambito indipendentista. Pensiamo alla costante resistenziale e al modo in cui aveva rinverdito i fasti del nostro mito para-nazionalista otto-novecentesco (quello dei Sardi barbarici ma orgogliosi, criminali ma eroici, pittoreschi ma autentici).
Scegliere alcuni elementi storici come punti di riferimento politici equivale a stabilire una diretta connessione tra quei fatti e noi stessi. L’appartenenza diventa una condizione data (l’identità), una rispondenza rigida a canoni stabiliti una volta per tutte. Intorno a tale canone si evoca una nostalgia, un orizzonte di significati e di valori, e si costruisce una aspettativa di tipo propriamente politico, sotto la quale naturalmente ci sono sempre degli interessi, specifici o generali, dichiarati o no che siano. Questo oggi sta avvenendo – o rischia di avvenire – per i Giganti. In un intervento di Roberto Carta sul suo blog, in cui si cita, senza entrare nel merito, proprio il pezzo postato qui a proposito di NurNet, si afferma esplicitamente: sos Gigantes semus nois, i Giganti siamo noi.
Vorrei sottolineare lo scarto che esiste tra questo tipo di ricerca dei fondamenti dell’appartenenza (e dunque dell’azione politica che da essa si fa discendere), e l’ambito disciplinare delle ricerca storica. Non stiamo parlando della stessa cosa. Chi fa ricerca storica o archeologica non può violare le regole di metodo proprie della disciplina, né può far influenzare le risultanze dei propri studi dalla propria militanza politica. Bisogna essere in grado di distinguere i due piani, sia per non inficiare il lavoro storico propriamente detto, sia per non indebolire il senso della militanza politica stessa.
Benché in Sardegna esista una continuità storica abbastanza peculiare, dato che la comunità umana che abita l’isola è la medesima da diverse migliaia di anni, non bisogna cadere in fraintendimenti anacronistici. Oppure, se lo si fa, deve essere messa in chiaro la natura strettamente politica dell’operazione. Noi non siamo i costruttori di nuraghi (come, con un vezzo ironico tipico suo, Giovanni Lilliu una volta fece intendere a una illustre comitiva in visita a Barumini), né gli artefici dei Giganti, né i seguaci di Ampsicora e nemmeno i combattenti sotto le insegne di Mariano IV o Guglielmo di Narbona. Se è per quello, siamo molto di più e molto più strettamente figli della Sarda Rivoluzione e dei suoi esiti, ma non per questo siamo certo tutti dei novelli angioyani. Quei periodi e quegli snodi bisogna conoscerli, non (fingere o desiderare di) riviverli. Altrimenti si innescano quelle che mi piace chiamare (con Wu Ming) “narrazioni tossiche”.
La prospettiva della nostra autodeterminazione, laddove sia contemplata, deve essere fondata su una necessità storica attuale, su fattori materiali, relazionali e culturali contemporanei, non sulla nostalgia di fatti o epoche del passato. Si fa un torto alla nostra storia riducendola a mero strumento di lotta politica. La nostra storia noi ce la portiamo appresso, ci circonda ovunque, in Sardegna, fa parte delle nostre vite. Quasi sempre senza che i Sardi lo sappiano. Per questo è indispensabile riappropriarcene, conoscerla, usarla per illuminare il nostro presente. Ma questo è un lavoro che spetta prima di tutto agli storici, agli archeologi e con loro agli economisti, ai linguisti, agli antropologi, ai sociologi, ecc. A tutto il sapere organizzato. Che va migliorato e innervato di buona coscienza e buone prassi, di indipendenza dalla politica dominante, di nuove forze e nuove intelligenze, non certo condannato in quanto tale e eliminato dalla scena. In un mondo culturalmente debole, i furbi e i malintenzionati hanno molte più possibilità di raggiungere i propri scopi manipolando e sfruttando il prossimo.
Il dovere della politica, di una politica emancipativa e democratica, dovrebbe essere dunque di sollecitare più studio, più ricerca, più divulgazione qualificati e al contempo, quando si hanno responsabilità istituzionali, creare le condizioni perché questo avvenga. Non certo chiedere agli archeologi di farsi da parte o pretendere di sostituire il lavoro professionale, basato sulla formazione e sulle competenze acquisite e certificate, con il volontariato (per appassionato e ben intenzionato che possa essere). Su questo versante c’è già l’opera devastatrice portata avanti da Roma, a livello governativo e legislativo, a minacciare i nostri beni culturali (che purtroppo sono ancora patrimonio dello stato italiano, non dimentichiamolo). Opera devastatrice promossa proprio attraverso la “dilettantizzazione” del lavoro archeologico, della custodia dei siti e della complessiva gestione dei beni culturali (musei, archivi e biblioteche compresi). Non mi sembra il caso di offrire sponda locale a tale allarmante disegno.
La passione e l’interesse che il nostro passato suscita in tanti Sardi e ormai anche in molti osservatori forestieri sono fenomeni belli e importanti, vanno alimentati e soddisfatti con risposte di qualità, non con mitopoiesi messe insieme a tavolino, “tecnicizzate”, magari apparentemente consolatorie, ma nel concreto pericolose. La necessità della nostra emancipazione storica, collettiva, esisterebbe anche se non ci fossero i Giganti e se non ci fosse stata Eleonora d’Arborea. E discende dalla nostra condizione storica deficitaria, subalterna e deprivata, situazione di cui – è bene ribadirlo – alcuni Sardi si giovano per il proprio tornaconto individuale, di clan o di classe. Questo deve essere compreso bene, a meno che non si voglia aderire al disegno normalizzatore ormai apertamente in campo.
Qui intravedo la vera linea di faglia nella Sardegna di oggi. Una linea di faglia culturale e politica che riguarda soprattutto il come si vogliono fare le cose, più che il se. Un discrimine che sta sotto o dietro le parole che si usano per raccontare e giustificare le proprie prese di posizione. Una linea di faglia che non coincide con gli schieramenti politici dichiarati (centrodestra contro centrosinistra, indipendentisti contro unionisti, sardisti e sovranisti buoni per tutte le stagioni, e così via) ma li interseca e li spariglia. La questione è strategica e attiene al campo dei diritti, dei beni comuni, dell’inclusione sociale, dell’eguaglianza sostanziale, della democrazia, del modo di riconoscerci e di convivere tra noi e con le altre popolazioni che ci circondano. Su questo è decisivo ragionare tutti, specie in questi giorni di violenza e di odio, di azioni e parole crudeli, perché è là, non a Monte Prama (per quanto affascinante e importante sia quel posto), che si gioca la nostra sorte.
Salude Omar, as resone, no apo iscritu prus de tantu subra s’arresonu tuo prus «ideale», forsis ca, pro unu tzertu bessu, s’arresonamentu chi as istèrridu m’agatat finas de acordu (màssimu in su fatu chi non cumbenit a nudda de nos imbriagare de mitos…) T’apo tzitadu ca as iscritu unu meledu fungudu subra de custa chistione, interessante e meda, e prus a totu ca as postu sos voluntàrios culturales in campu archeològicu totu in su matessi muntone. (O, nessi, gasi est chi l’apo cumpresa deo). Difatis sa parte prus longa de su post meu tratat pròpiu custu arresonu: ite podet dare su voluntàriadu a s’archeologia sarda? It’at dadu finas a como? Pro me non isceti fanta-archeologos (a giru giai bi nd’at, custu giai est beru, e a mie non praghent) ma finas bona gente e bonos fatos (apo mentovadu sos fatos chi apo pòdiu sighire deo in su minore meu. Minores ma sèrios). Sigomente su post tuo e de vitobiolchini mi sunt passitos sos prus interessantes, bos apo postu paris narende chi, pro contu meu, non si podet fàghere a mancu de contivigiare bonos tratamentos intre archeologia manna e voluntàriadu (chi est finas su chi pensat Biolchini). Sutzedet in àteros logos istitutzionales e diat pòdere sutzèdere finas in custu casu. Comente fàghere, tando, a pensamentare custos tratamentos chena acusare una casta de èssere tiranna e chena nàrrere a s’àtera chi est diletante ebbia? Carchi bonu tratamentu, torro a nàrrere in su minore meu, l’apo contadu…
Cando iscrio “Sos gigantes semus nois!”, pro me no narende su chi naras tue cando iscries: «non a Monte Prama (per quanto affascinante e importante sia quel posto), che si gioca la nostra sorte».
P.S. S’arresonu tuo prus ideale, su chi non apo tocadu, si non pro lu prèndere a sa chistione de su tratamentu “archeologia istitutzionale-volutàriadu”, meresset aterunu meledu, chena mancare, unu meledu chi at bisòngiu de mare abertu ca non podet èssere acorradu in intro de unu setore ebbia.
Comente t’apo repostu in aterue, Robe’, apo cumpresu mègius s’arresonu tuo e ti torro gràtzias. Mi fia ispantende de èssere cramadu “in causa” che a testimòngiu de cosas fatas o naradas dae àtere. So abituadu a mi leare sas responsabilidades meas, sas de àteros las lasso a chie li tocat a si las leare. 🙂
As resone cando naras chi s’arresonu “prus ideale” – est a nàrrere prus generale e polìticu – non est cosa de cumprire in pagas rigas de unu post. Est matèria de meledu fungudu pro totus e cada unu de nois podet petzi pònnere a pare sas ideas suas cun sas de àteros. M’agradat meda chi a bellu a bellu in Sardigna semus renessende a mantènnere abertu unu arresonu cumplessu e articuladu in contu de chistiones culturales, linguìsticas e istòricas, miradas dae ogros diferentes e cun medios diversos. Est una manera de interbènnere in sa dibata pùblica chi at a dare frutos, a bisu meu.
Custu non cheret nàrrere chi depimus èssere de acordu subra cada cosa. E si podet criticare calicunu o cale si siat cosa sena èssere nimigos e totu (antzis, a bias pròpiu ca sa cosa criticada nos interessat meda).
Custu contu de su voluntariadu est unu de cuddos in cue apo un’idea firma e no apo galu acatadu obietziones chi mi cumbincant de su contràriu. Est beru chi b’ant apassionados e diletantes de gabale e est beru chi sos voluntàrios non sunt totus uguales. Però inoghe b’at una chistione de printzìpiu chi est importante meda. A intendere chi sos archeòlogos depent lassare su logu a sos voluntàrios mi so ispantadu a beru. Non bi mi praghet nudda, custa cosa. E apo acraradu pro ite.
Nos torramus a lèghere.