La persistenza dei miti tossici segnala il permanere delle ragioni che li rendono necessari. A volte però può trattarsi di semplice inerzia. Così, a proposito dell’ennesima riproposizione del mito della Brigata Sassari, il sospetto è che si tratti di un riflesso condizionato, di una reiterazione per abitudine, più che di una scelta deliberata.
Piero Mannironi, sulla Nuova online, presenta la testimonianza de relato di Lelle Lostia Falchi, di Orotelli, figlio di un sassarino a sua volta protagonista insieme ad altre reclute sarde di un episodio di ribellione contro le prepotenze di alcuni commilitoni italiani, di stanza a Genova nel 1914. I giovani soldati sardi avrebbero messo in piedi una sorta di vendetta collettiva contro i loro persecutori, guadagnandosi così qualche giorno in guardina e soprattutto il rispetto degli altri arruolati, tanto da spingere i vertici militari italiani a considerare l’opportunità di usare tanta capacità di combattimento in termini bellici. A tale vicenda si attribuisce dunque nientedimeno che la stessa creazione della Brigata Sassari.
Sappiamo che le cose non andarono proprio così. La stessa definizione di Dimonios, menzionata nell’articolo, è decisamente più tardiva, derivando dal soprannome che nei bollettini austriaci veniva dato ai sassarini: “diavoli rossi”. Ma il mito della Brigata Sassari è un elemento narrativo di sicuro effetto. Può servire a guadagnare qualche lettore in più, che in questi tempi di magra non fa mai schifo. In altri momenti avrei sospettato un tentativo di indorare la pillola, in vista di qualche porcheria ai danni della Sardegna, ma dubito che in questa fase basti così poco per distrarre o ottundere l’attenzione dell’opinione pubblica (qualsiasi cosa essa sia).
Nondimeno vale la pena interrogarsi proprio sulla persistenza di questo mito e anche provare, ancora una volta, a guardarci un po’ dentro. Non che non sia già stato fatto, ma, come si dice, repetita juvant.
La vicenda rievocata (un episodio minimo di vita da caserma, alla vigilia del primo conflitto mondiale) di suo è ben poco significativa. Che esistesse allora un diffuso razzismo verso i Sardi è un fatto assodato. Basti pensare ai fatti di Itri, di pochi anni prima. La “razza sarda” in Italia era considerata alla stregua delle popolazioni colonizzate, né più né meno. E dovremmo sapere quanto poco gli italiani si siano rivelati “brava gente” nelle loro avventure coloniali (quelle interne come quelle esterne). La scelta di creare i due reggimenti della Brigata Sassari aveva in sé molto di tale pregiudizio. Attribuirla all’ammirazione di qualche alto ufficiale italiano per la balentia dimostrata da quattro ragazzotti sardi in una rissa suona davvero naif.
Più interessante è il presunto timore dei comandi italiani sul possibile significato politico dell’episodio. Secondo l’articolo “le autorità militari pensarono subito a una rivolta contro lo Stato, sospettando infiltrazioni angioine repubblicane tra i sardi”. Qui c’è una questione che meriterebbe di essere approfondita, perché che esistessero dei timori di questo genere sarebbe di per sé una notizia. A naso, suona come una imprecisione anacronistica (i comandi italiani non ne sapevano nulla di Angioy e così la stragrande maggioranza dei Sardi). Vero è che, negli anni precedenti, la Sardegna era in ebollizione e le proteste generalizzate, specie relative al caro vita, avevano assunto tinte forti, arrivando ad esplicite colorazioni indipendentiste. Molti esponenti dell’intellettualità e della politica sarda, ancora in quello stesso 1914, si erano riuniti a Roma per provare a costituire una piattaforma di richieste e rivendicazioni destinate al governo. Il malcontento e i suoi potenziali esiti politici esistevano, erano sul tappeto. Macano però studi approfonditi su tutta la faccenda. Una lacuna piuttosto grave, nella storiografia sarda.
Del resto, tutta la vicenda dei Sardi in guerra è sostanzialmente ignota. Esistono numerose pubblicazioni agiografiche e nostalgiche sulle gesta della Brigata Sassari, questo sì. Ma sono narrazioni celebrative, ricavate dai bollettini ufficiali e da testimonianze selezionate, inservibili dal punto di vista conoscitivo. C’è anche qualche elemento di memoria collettiva ancora vivo. Poca roba. Come è noto a chi si occupa di queste cose, tanto le ricostruzioni ufficiali, quanto le testimonianze dei diretti interessati sono prevalentemente tendenziose o del tutto menzognere. Lo storico deve prenderle col beneficio del dubbio e lavorarci su in termini ciritici, incrociando informazioni e riscontri con molta prudenza. Lavoro che purtroppo non è stato ancora fatto in modo sistematico.
Manca anche una storia sociale e culturale della Sardegna del periodo precedente la Grande Guerra, che ci fornisca una ricostruzione accettabile delle condizioni storiche in cui i Sardi la subirono (sia quelli che vi presero parte, sia quelli che rimasero a casa: su questi ultimi il silenzio è pressoché tombale). Eppure si tratta di un periodo estremamente interessante della nostra storia contemporanea, ricco di fermenti creativi, politici e sociali. La maturazione di una forte consapevolezza politica tra i fanti della Brigata Sassari, nelle trincee della guerra, non fu un caso inspiegabile, aveva al contrario radici profonde.
Parlare di questo frangente storico, così significativo, sempre e solo nei termini dell’esaltazione militaresca e dell’orgoglio etnico è ormai mortificante. Qui entra in gioco anche l’aspetto lessicale dell’articolo in questione. Nel testo si parla infatti di “identità regionale”. Il che evidentemente è sembrato incongruo e troppo debole anche al cronista. Che infatti corregge subito il tiro ed estrae dal cilindro una inedita “identità nazionalregionale”. Potere dell’autocensura! Aggiungere l’aggettivo “nazionale”, sia pure giustapposto a “regionale”, suona come un atto di coraggio, una sorta di straordinario sbilanciamento politico, appena attenuato dalla connotazione ironica che si intuisce sullo sfondo. Questo è un esempio didascalico di come ci si possa incartare in definizioni senza senso, pur di non abbandonare il comodo conformismo degli stereotipi egemonici.
Maneggiare materiali mitologici è difficile e pericoloso. Anche in buona fede. Provare a inserirli dentro una cornice realistica o cronachistica senza forti anticorpi critici può indurre il miglior narratore in svarioni a volte grossolani. L’effetto complessivo è l’incomprensibilità delle vicende rievocate, del loro senso umano, storico.
Liberarci dalle incrostazioni del nostro mito identitario è indispensabile, per riuscire a riappropriarci della nostra storia in modo sano, fecondo, non totalmente piegato ad esigenze ideologiche. Non è facile, specie in casi come quello della Brigata Sassari, ma nondimeno è necessario.