Alessandro Barbero, la storia sarda e la ricerca di legittimazione esterna

Ha suscitato un certo clamore, in Sardegna, l’intervento di Alessandro Barbero dedicato alla storia medievale sarda in occasione del Salone del Libro di Torino. Si presentavano gli ultimi due volumi della collana Ilisso dedicata alla storia e all’archeologia della Sardegna: Il tempo dei Vandali e dei Bizantini e Il tempo dei giudicati. Un’occasione per far uscire la storia sarda dal cono d’ombra a cui è destinata nell’organizzazione del sapere italiana. Erano presenti alcunə tra autori e autrici, in rappresentanza dell’ambito di studi archeologici e storici isolani, col compito di illustrate contenuti e obiettivi dei due volumi e della collana nel suo insieme.

Prima ancora di entrare nel dettaglio, la domanda da farci è: perché Alessandro Barbero? Con tutto il rispetto per il professore piemontese, la sua presenza in questo caso somiglia molto a un’operazione di marketing, dovuta esclusivamente alla sua notorietà, data la sua scarsa conoscenza – per sua stessa ammissione – della storia sarda.

Lo stesso fatto che in Sardegna, nei mass media, questa circostanza, di suo abbastanza banale, abbia avuto tanto spazio merita una riflessione. Altri interrogativi sono poi suscitati dai resoconti, dalle interviste e ora dal video integrale della conferenza (disponibile su YouTube; non ve lo linko, ma si trova facilmente).

Intanto la premessa. Barbero sembra voler proporre delle argomentazioni a smentita di “stereotipi” che secondo lui caratterizzano la storia sarda. Non è chiarissimo chi diffonda questi stereotipi (la storiografia sarda? quella italiana? i manuali scolastici? la “grande narrazione pubblica” della storia? il senso comune diffuso in Sardegna? o in Italia?) e non sono nemmeno tanto chiari gli stereotipi stessi. Ma soprattutto, nell’insieme, questa premessa suona come una fallacia retorica: l’argomento “del fantoccio”. Per corroborare la mia tesi, la presento come obiezione a una tesi contraria, esposta però in modo caricaturale, comunque artefatta, perché sia più facilmente attaccabile. È un trucco retorico vecchissimo. Barbero vorrebbe smontare la tesi della Sardegna isolata, ma la confonde e sovrappone con la tesi che vuole la Sardegna come territorio dotato di una propria storia peculiare. Sono due cose piuttosto diverse. Per altro, non si capisce davvero chi le difenda, una e l’altra, né perché.

In interviste rilasciate a corredo della conferenza, Barbero ha precisato che a suo modo di vedere la Sardegna, dall’antichità, ha sempre fatto parte di “un sistema”: prima quello romano, poi quello vandalico, poi quello bizantino, poi quello comunale italiano, poi quello spagnolo. Cosa vorrebbe dire? Che effetti ha avuto questa appartenenza a “sistemi” esterni o più generali? E, in fin dei conti, quale territorio europeo e mediterraneo non ha fatto parte di un qualche sistema politico, o di scambi, o culturale, nel corso dei secoli? Potremmo definirla un’ovvietà, che qui suona un po’ come un eufemismo, per riconfermare la vecchia impostazione della storia sarda secondo la sequenza delle continue “dominazioni” straniere. Come dire: una terra che non ha mai avuto una sua soggettività storica, ma è sempre stata tributaria verso insiemi politici più ampi o soggetta a sistemi politici altri. Ma questa è da sempre l’impostazione dominante. Ed è, questo sì, uno stereotipo. Barbero a chi intende rispondere, riproponendolo?

Per altro, Barbero nei suoi interventi insiste a descrivere la Sardegna come una terra italiana, “naturalmente” italiana. Il termine di paragone sono “le altre regioni italiane” (sic!). Praticamente, a mezzo passo dal riproporre la vecchia mitologia sulla ”italianizzazione primaria dell’isola”. Una tesi cara al fascismo, per capirci (e che ho provato a discutere qui). Arriva ad accennare a presunte invasioni straniere, anche qui istituendo un parallelo con la penisola italiana. Invasioni mai accadute in Sardegna o accadute su una scala minima, precaria e non paragonabile alle coeve vicende italiche (pensiamo solo al trasferimento di massa dei Longobardi nella penisola, tanto che ben presto, e per secoli, “lombardi” fu sinonimo di “italiani”, e Barbero lo sa perfettamente).

Sul fatto che l’inserimento della Sardegna nel regno vandalo, tra V e VI secolo, non abbia lasciato tracce si potrebbe discutere. Diciamo che ne sono state trovate poche, ma restano in piedi interrogativi e zone d’ombra, su quegli ottant’anni circa. La curiosità aumenta, tenendo conto della singolare vicenda del governatore Goda, nominalmente a capo dei domini vandali nell’isola per conto del re Gelimero, intorno al 530, ma ad un certo punto ribelle al suo re e – secondo le fonti, con l’appoggio dei sardi – auto-proclamato primo rex Sardiniae della storia. Un regno effimero, presto sopraffatto sia dalla reazione vandala sia dalla riconquista costantinopolitana ad opera delle truppe del generale Belisario. Sarebbe stato interessante farne cenno.

Tutto il discorso riguardo ai giudicati è parziale e a tratti capzioso. Finisce per risultare auto-contraddittorio, benché eviti di chiamare in causa elementi pure decisivi, quando si parla di medioevo sardo. Per esempio la natura non feudale degli ordinamenti giudicali, pure riconosciuta e sottolineata dallo stesso Marc Bloch nella sua La Società feudale: perché non menzionarlo?

Barbero fa sì emergere alcune caratteristiche di questi ordinamenti giuridici originali, ma le attribuisce a un retaggio “romano”. In parte – solo in parte – è vero, ma si tratterebbe comunque di una “romanità” tarda, con tratti orientali, poco legata a quella italica. Quindi, lontana dalla “romanità” classica posta a base del mito nazionalista italiano.

Corretta l’identificazione del passaggio storico decisivo nella conquista araba della Sicilia (IX secolo), ma anche qui abbiamo troppo poche informazioni sulla formazione dei regni giudicali, per poter tracciare una ricostruzione esaustiva. Sappiamo, come giustamente puntualizza Alessandro Soddu nel suo intervento, che arrivati al secolo XI l’organizzazione giudicale e la stessa quadripartizione dell’isola ci appaiono come dati di fatto consolidati.

In ogni caso, l’influenza araba sulla Sardegna andrebbe indagata di più, dato che ci fu senz’altro, e le fonti arabe non mancano. Andrebbero studiate di più e meglio e inserite nel “canone” degli studi storici e archeologici sardi su quest’epoca.

Nessun cenno al fatto che in ambito giudicale compaia precocemente la lingua sarda come lingua ufficiale delle cancellerie e della comunicazione pubblica. Non un particolare da poco, se si vuole discutere la peculiarità storica della Sardegna medievale. Non se ne è parlato nemmeno quando si è ricordato l’uso del greco nei documenti del regno di Calari. Si è parlato di uso della “lingua greca”, fornendo un’informazione fuorviante. Era usata la *grafia* greca, per motivi di prestigio, dato il retaggio “bizantino” di certi usi istituzionali giudicali. Ma la lingua era – appunto – sarda.

Barbero intende poi negare che sia esistita una “resistenza” nazionale sarda alla conquista catalano-aragonese, e se ne può discutere (a patto di tenere in considerazione le fonti), salvo poco dopo accennare proprio alla lunghissima guerra condotta dal giudicato di Arborea. Una vicenda che occupa un secolo, con diverse fasi e diversi protagonisti, e arriva fino al 1420, quando l’ultimo giudicato sardo scompare di fatto e di diritto dalle mappe e il Regno di Sardegna è infine una realtà storica compiuta. Meritava qualche spiegazione il fatto che si trattasse di un regno a tutti gli effetti, inserito nella corona prima aragonese poi spagnola per tre secoli. Un lasso di tempo notevole, che ha un suo peso decisivo nella storia dell’isola e non consente di etichettarla a cuor leggero come una terra da sempre italiana (posto che voglia dire qualcosa).

Barbero accenna al mistero della grande crisi che colpì la Sardegna tra Trecento e Quattrocento, crisi che viene presentata, direi correttamente, come decisiva e mai del tutto superata. Si presenta il dato peculiare della scomparsa di centinaia di centri abitati, uno degli aspetti più notevoli di questo tormentato periodo. Ed è vero. Dal Quattrocento in poi i centri abitati dell’isola sono rimasti sostanzialmente sempre quelli, intorno ai 370. Oggi abbiamo in Sardegna 377 comuni. Il modello abitativo, produttivo, di gestione del territorio e anche demografico subì allora un trauma profondo. Che però Barbero affida alla categoria del mistero storico irrisolto. Come se i disastri climatici, la lunga guerra, la peste nera e l’imposizione tardiva del feudalesimo non bastassero a fornire cause e contorni del fenomeno.

Debole l’argomento secondo il quale i contatti con l’esterno abbiano prodotto innovazione e sviluppo – di cui evidentemente le popolazioni sarde da sole non erano capaci – e non solo sfruttamento. Le cose non sono così schematiche. È vero che la Sardegna, immersa nei flussi culturali e commerciali mediterranei, ha sempre tratto anche qualcosa di utile dall’esterno. Sarebbe strano il contrario. Ma di che natura erano questi contatti, nelle varie epoche? E siamo sicuri che, per dire, non ci fossero città ed empori e relazioni economiche a prescindere da interventi esterni? Che il regno di Arborea, nel corso del Trecento, fosse considerato uno stato ricco era un effetto dovuto all’apporto esterno, o non invece alle capacità produttive e all’abilità politica e amministrativa espresse dal territorio? Insomma, anche su questo andrebbero fatte delle puntualizzazioni. Come quelle proposte a suo tempo da Marco Tangheroni (tra gli altri), in contrasto con le tesi di John Day sulla “Sardegna coloniale”.

La presunta modernità degli ordinamenti giudicali, che Barbero mette in ridicolo, è invece un falso problema. Nessuno storico serio commetterebbe un simile anacronismo. È vero tuttavia che, proprio in virtù della loro natura non feudale, gli ordinamenti giudicali avevano caratteristiche che riemergeranno poi in epoca moderna e contemporanea (per esempio la non patrimonialità della potestà regia, ossia il territorio del regno non era una proprietà personale del sovrano; e anche la natura pattizia e semi-elettiva della stessa carica di judex sive rex). Il che non significa fare dei giudicati sardi, per altro durati alcuni secoli, con tutte le inevitabili evoluzioni, degli esempi precoci di stati-nazione contemporanei. A meno che non si faccia un uso politico della storia, come del resto si fa dappertutto, in Italia non meno che altrove. Ma chiaramente in questo caso non stiamo parlando di disciplina storica.

Altro aspetto problematico è la pretesa di esaurire la storia sarda tra V e XV secolo esclusivamente sul piano evenemenziale. Quando invece la cosa più significativa dovrebbe essere la ricostruzione di come vivevano, producevano, consumavano, si riproducevano, parlavano, creavano, interagivano con l’esterno le popolazioni sarde di quella lunghissima epoca. Temi per altro ormai entrati a pieno titolo nella storiografia sarda.

Anche sul Regno di Sardegna la ricostruzione offerta da Barbero è lacunosa. Corretta, anche se un po’ troppo semplificata, la spiegazione di come mai i Savoia si siano ritrovati ad un certo punto re di Sardegna, da duchi che erano (con tanti saluti al fantomatico Regno di Sardegna e Piemonte o addirittura di Piemonte, così caro alla divulgazione storica italiana). Un po’ meno chiara, come detto, l’origine di questo regno sardo e le modalità della sua effettiva realizzazione, nel contesto delle vicende iberiche e mediterranee.

Se l’intento di Barbero era di smontare la tesi sulla diversità sarda, sembra fallito. La diversità sarda è relativa ma, rispetto alla coeva storia della penisola italiana, innegabile ed è dovuta a fattori oggettivi, come la posizione geografica, che ha trasformato la distanza fisica in tempo: maggiore distanza = più tempo a disposizione per accogliere e metabolizzare gli apporti esterni.

In Sardegna è evidentissimo, nei secoli, il costante processo di sardizzazione di qualsiasi elemento acquisito dall’esterno: usi materiali, produzioni, lingua, ecc. Le stratificazioni storiche sarde sono molte, ma sovrapposte e saldate fino a diventare irriconoscibili, al contrario di altri territori in cui gli apporti esterni sono squadernati in modo più evidente, più giustapposti uno all’altro, che mescolati e ibridati. Ma naturalmente è un discorso complesso, che non si può liquidare in poche battute.

In definitiva, Barbero in questo caso è apparso meno solido e puntuale del consueto. La sua è una visuale molto “italiana” della storia sarda. È inevitabile e non ci sarebbe nemmeno da contestarla, se non fosse per la pretesa che essa sia l’unica visuale legittima. Il “pericolo di un’unica storia”, come spiegato brillantemente da Chimamanda Ngozi Adichie in un suo noto pamphlet che porta questo titolo, qui è evidentissimo. E va denunciato.

La cosa stupefacente, però, è che le persone sarde presenti, tutte esperte, non abbiano corretto, se non parzialmente e direi preterintenzionalmente, il suo discorso. Per esempio, nel primo intervento di Alessandro Soddu si intravvede alla fine una radicale contraddizione di alcune affermazioni di Barbero, finendo per creare uno strano cortocircuito. Sono mancate invece le necessarie puntualizzazioni. Singolare che in nessuno degli interventi, come detto, sia emersa la questione linguistica, pure così rilevante e per altro ben presente nelle fonti dell’epoca. Che l’abbia trascurata Barbero è grave, ma comprensibile; che le altre persone presenti non se ne siano date alcun pensiero è decisamente più significativo. Del resto, l’intellighenzia progressista italiana, che è un modello egemonico dentro le università sarde, ha sempre detestato queste tematiche, non meno della destra nazionalista.

Direi che, in definitiva, non si sia reso un gran servizio alla storiografia sarda, come invece era negli intenti dichiarati. A dispetto dei progressi pure registrati dagli studi storici nostrani, soprattutto riguardo all’epoca medievale. L’impressione è che si sia cercato di ricondurre la storiografia sarda a un livello pari a quello della storiografia italiana (ambizione modesta), in modo da potervela integrare. Obiettivo già caro all’intellettualità sarda ottocentesca e già allora fonte di contraddizioni e non sequitur. Siamo rimasti a quel punto? Non è un’evidente manifestazione di subalternità e di provincialismo?

Il problema non è la pretesa di raccontare la storia dell’isola da una visuale e con una voce sarde. Come se davvero fosse un rischio da scongiurare, mentre non lo sarebbe l’accettazione di cornici interpretative e di ricostruzioni esogene. Caso mai il problema che dovremmo porci è la qualità della storiografia sarda. La preoccupazione di chi si occupa di storia in Sardegna dovrebbe essere di fare un buon lavoro e di meritare le attenzioni esterne non per cooptazione, ma per meriti acquisiti cimentandosi nel confronto internazionale (e non solo italiano).

Emerge dunque l’ulteriore elemento critico dell’evento: la rimozione del conflitto culturale, della relazione asimmetrica tra organizzazione del sapere italiana e cultura sarda (intesa in senso ampio). Come se non esistesse e non avesse prodotto effetti. Tra cui quello, ordinario in condizioni analoghe, di una singolare, diffusa ricerca di miti fondativi consolatori e di contro-storie più o meno credibili da opporre a quella che viene percepita come la negazione della propria storia. Fatta la tara delle esagerazioni e delle ingenuità, questo fenomeno è comprensibilissimo e di suo nient’affatto preoccupante, in un contesto culturale sano, robusto, ben alimentato da una produzione scientifica e da una divulgazione all’altezza.

Forse dunque la magagna sta da quest’altra parte. Questione a cui deve essere associata la perdurante assenza o l’insufficiente qualità della storia sarda negli studi scolastici. Di corbellerie e di stereotipi da smontare, riguardo la storia dell’isola, nei manuali scolastici in uso se ne trovano a profusione. Sarebbe stato interessante sollevare almeno il tema e sarebbe stato interessante sentire il parere di Alessandro Barbero anche su questo.

Se si è trattato dunque, per certi versi, di un’occasione persa, questo evento può se non altro essere usato come fonte di riflessione e spunto di dibattito culturale. Si tratta di temi e questioni di cui si occupa da qualche tempo Filosofia de Logu (di cui ricordo l’uscita nei giorni scorsi del secondo volume collettivo). Sarebbe bello che il dibattito si allargasse, al riparo da difese corporative e da comode rimozioni, e contribuisse alla crescita del dibattito pubblico in generale, alla consapevolezza diffusa e all’irrobustimento del tessuto democratico sardo.

1 Comment

  1. Aggiungo qui una postilla, in risposta ai vari commenti che ho intravisto in giro sui social (soprattutto su FB).

    1) Alessandro Barbero non è il mio bersaglio, non ce l’ho con lui, non sono un suo detrattore e non è nemmeno lui il centro tematico del post. Seguo Barbero da anni, ne ho letto diversi libri, lo trovo molto capace come narratore e divulgatore, a volte più efficace e preciso, altre volte – specie quando non è “sul suo” – un po’ meno. Gli appunti che gli muovo sono specifici e circostanziati: su quelli si può discutere.

    2) Che si sia trattato di un’operazione di marketing viene dato per scontato da molte persone, che hanno commentato stupite del mio stupore. Ma io non ho espresso stupore, ho solo osservato che – appunto – alla fine si è trattato di un’operazione di marketing (culturale). Fatta male, secondo me. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’evento è stato presentato dallo stesso Barbero come un’occasione di confronto accademico tra specialisti. Il nodo sta lì.

    3) In ogni caso – si sostiene – è stato importante che si parlasse di storia sarda in quel contesto e con quel testimonial (come in pubblicità, appunto), perché così è stato toccato un pubblico italiano più ampio del solito. Be’, non sono d’accordo. Il pubblico più ampio, italiano e non, lo si intercetta in molti modi, ma bisogna farlo fornendo informazioni corrette e cornici interpretative non viziate da pregiudizi, visuali discutibili (come l’italo-centrismo a tutti i costi), omissioni gravi.

    4) Siamo proprio sicuri che la storiografia e l’archeologia praticate in Sardegna escano bene da questo evento? E che i due volumi dell’Ilisso presentati nell’occasione vedranno ampliarsi magicamente il proprio bacino di lettori? Io ne dubito. Le discipline storiche sarde sono state mortificate dalla cornice provinciale e marginale in cui si sono infilate, facendosi promuovere paternalisticamente da un guru della divulgazione italiano, davanti a un pubblico che era lì per lui e che – temo – non ha nemmeno fatto caso ai due volumi presentati e non si ricorderà di certo della loro esistenza, una volta uscito da lì.

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.