Passate le elezioni, la Sardegna ripiomba nella sua solita condizione deficitaria, senza che alle viste ci sia una svolta politica adeguata alla situazione.
Non c’è da attendersi nulla dalla nuova giunta PD-5stelle (e soci minoritari). La sua composizione, i centri di interesse a cui risponde e la qualità dei suoi membri fanno intravvedere la solita navigazione a vista, senza sussulti, magari con qualche annuncio roboante senza alcun seguito concreto, o qualche intervento simbolico. Ci sarà un po’ di spoils system, con compromessi e contrappesi che non intacchino gli equilibri consolidati e non scatenino faide difficilmente ricomponibili. Nessuna svolta strategica, nessun intervento radicale.
Nemmeno dall’opposizione consiliare c’è da attendersi qualcosa di buono. D’altronde, sono grosso modo sempre quelli che c’erano prima, e sappiamo come sono andate le cose.
Che serva una politica meno cialtrona e decisamente più al passo con le necessità stringenti di questi tempi è un’evidenza empirica, non certo una presa di posizione ideologica. È paradossale che questa politica di cui c’è bisogno la si debba cercare fuori dalle istituzioni.
Qui c’è uno dei nodi più evidenti da sciogliere, che non sarà sciolto, sua sponte, nemmeno dal neo-eletto consiglio regionale né dalla giunta Todde: la legge elettorale. La già malandata democrazia rappresentativa, in Sardegna, come si sa, è ridotta a una sorta di fiction neanche tanto appassionante. Non solo per la scarsa qualità degli interpreti (quasi sempre maschi, a dispetto della retorica sulla “prima presidente donna della RAS”), ma anche, se non soprattutto, per i meccanismi di selezione e di elezione dei rappresentanti del popolo.
Escludere più di metà dell’elettorato – tra astenuti e voti validi privati di esito nei seggi – da qualsiasi rappresentanza in quello che dovrebbe essere il massimo consesso democratico sardo è un vulnus innegabile e scandaloso. Di cui a Palazzo ci si dimenticherà immediatamente.
Poi c’è la necessaria riforma della Regione e dell’intero ambito amministrativo sardo. L’inefficienza e la pessima qualità delle amministrazioni pubbliche isolane è un costo pesantissimo che si aggiunge agli altri.
Fuori dai confini delle carenze istituzionali e amministrative, restano sul tappeto, intonsi, tutti i problemi strutturali che ci accompagnano da decenni, in qualche caso potremmo dire da secoli. Di questione sarda, e pressoché nei medesimi termini odierni, si parla dalla fine dell’Ottocento. Mi piacerebbe che si tenesse più conto di questo dato agghiacciante.
Uno degli elementi decisivi della questione sarda, che piaccia o non piaccia, è il rapporto asimmetrico con lo Stato italiano. La condizione subalterna e dipendente della Sardegna non ha fatto che produrre guasti e disastri, anche laddove ci sono stati tentativi di intervenire strategicamente (pensiamo al Piano di Rinascita).
Di questo la politica sarda ha sempre fatto fatica ad occuparsi con la dovuta solerzia. Troppo rischioso mettere in discussione la dipendenza dell’isola dall’Italia, che implica anche questioni geo-strategiche e equilibri politici sovralocali non da poco. La nostra classe dirigente (chiamiamola così, per comodità), dalla Rivoluzione Sarda in poi, ha sempre preferito un ruolo di intermediazione e di salvaguardia dei propri vantaggi di parte, a quello di reale ceto dirigente radicato nel territorio e rappresentativo degli interessi generali dell’isola. È un tratto ancora ben visibile nella politica e persino in larga parte del mondo intellettuale e accademico.
Fuori di lì, tuttavia, qualcosa si muove. Non è più nemmeno tanto il movimento indipendentista a spingere per una soluzione strategica alla situazione attuale, troppo preso dalla difesa della propria identità e della propria metafisica. Paradossalmente, alcune proposte avanzate arrivano da gruppi e ambiti sociali che sono ancora ostili all’idea della separazione dall’Italia, ma di fatto sono ormai disposti a mettere in discussione subalternità e dipendenza, affrontandone le cause.
Traggo questa sensazione dopo la campagna elettorale e dopo aver ascoltato le relazioni di un convegno organizzato il 18 aprile a Cagliari dalla Scuola di cultura politica Francesco Cocco (in rete potete recuperare l’intera registrazione video; mi ritrovo in diversi interventi, soprattutto in quello di Danilo Lampis).
In tale circostanza, esponenti del mondo accademico, della politica e delle professioni si sono alternati per delineare non solo un quadro della situazione – che del resto è sotto gli occhi di tutte e di tutti – ma anche alcune possibili linee di intervento per cominciare a invertire la rotta. Agendo, intanto, sul piano istituzionale, legislativo e appunto politico.
A dispetto delle differenze e di antiche diffidenze, va detto che la convergenza e la consonanza sono risultate sorprendenti. Partendo da punti di vista diversi e utilizzando chiavi interpretative iniziali non facilmente sovrapponibili, le necessità su cui agire e anche gli strumenti da impiegare hanno coinciso in larghissima misura.
Allo stesso modo, consuona con tutto questo e fa anche un po’ da sintesi l’intervento a proposito di riforme istituzionali e statutarie di Tonino Dessì, che recupero da Facebook (senza linkarlo, abbiate pazienza):
Addendum. Per una nuova specialità della Sardegna. Uno Statuto federalista e dei diritti dei Sardi.
Il tema storico ed eminentemente politico che si pone oggi per la specialità della Sardegna non è meramente rivendicativo. Si tratta di stabilire all’interno della comunità sarda se e in quale misura essa intende e ritiene possibile e sostenibile, dal punto di vista delle risorse occorrenti, non solo finanziarie, assumere per le istituzioni dell’autogoverno (Regione e sistema delle autonomie) il massimo possibile dei poteri pubblici, compresa un’ulteriore parte di quelli statuali.
La riformulazione del nuovo Statuto sardo si dovrebbe fondare su questi presupposti:-la permanenza delle ragioni della specialità sarda intesa anzitutto come dato originario, ossia come ineliminabile esigenza di un ordinamento che esprima la soggettività di una comunità storica (definita sia pure incidentalmente nello Statuto vigente come “popolo sardo”), i cui tratti identitari si sono rafforzati nei sessant’anni di autonomia regionale;
-la permanenza della necessità dell’ordinamento speciale quale strumento per assicurare, in una realtà così differente dalle altre, la tutela dei diritti fondamentali e il conseguimento dell’uguaglianza sostanziale tra cittadini, comunità, popoli, persone appartenenti alla Repubblica;
-l’adeguamento a tale realtà differenziata del principio costituzionale di pari dignità tra le componenti costituzionali della Repubblica elencate dall’articolo 114 Cost.
Lo sfondo è costituito dalla prospettiva che nel territorio della Sardegna la Repubblica agisca in via generale attraverso i poteri regionali e locali, mentre l’altro soggetto della Repubblica, lo Stato, vi agirebbe sempre più residualmente, o, per meglio dire, sussidiariamente, non solo nell’esercizio della funzione legislativa, ma anche nell’esercizio di funzioni organizzative e amministrative.
La Sardegna dovrebbe quindi essere dotata di più poteri e, per esercitarli al meglio, dovrebbe poter contare su maggiori quote delle risorse prodotte nel rispettivo territorio, posto che la Regione è comunque subentrata allo Stato non solo nei servizi (istruzione, formazione professionale, sanità), ma anche nel sostegno alle attività produttive, comprese quelle superstiti dopo la privatizzazione delle Partecipazioni statali e nel far fronte alle conseguenze sociali della ristrutturazione (e del ridimensionamento) della grande industria.
Ma vi sono ancora altri ambiti cui è necessario rivolgere un interesse non inferiore rispetto a quello tradizionalmente concentrato sull’ampliamento delle potestà legislative o dell’autonomia finanziaria.
Vi è un interesse attuale e concreto alla pari dignità istituzionale nei rapporti bilaterali con lo Stato (insieme al quale, ma distintamente da esso, tutte le Regioni sono articolazioni della Repubblica).
Vi è un interesse attuale e concreto a essere rappresentata distintamente nelle sedi di decisione e di concertazione nazionali (ancor più dal momento in cui non si è realizzato l’obiettivo di istituire un Senato federale).
Vi è un interesse ormai impellente a una propria rappresentanza nelle sedi europee di concertazione e di decisione.
Ovviamente permane l’interesse a che siano garantiti non tanto prerogative o privilegi non giustificati nè giustificabili, bensì quella quota di diritti che caratterizzano la specificità della condizione geografica, linguistica, culturale, ambientale e paesaggistica sarda.
Nella dimensione così delineata il nuovo Statuto speciale potrebbe contenere importanti elementi di novità.
Ragionevolmente quel che sovviene, a questo proposito, è l’idea che il nuovo Statuto speciale dovrebbe contenere alcune specificazioni in tema di diritti fondamentali aggiuntive, esplicative, integrative dei contenuti della Costituzione, senza perciò esorbitare dalla naturale sfera di competenza di uno statuto regionale.
Si pensi ai diritti speciali dei sardi in quanto:
a) appartenenti a una comunità distinta e unitariamente intesa, cioè a un popolo;
b) titolari di un peculiare patrimonio storico, culturale e linguistico;
c) abitanti di un’isola.
Diritti che la Repubblica nel suo insieme (Stato e Regione in concorso tra loro) si impegnerebbe a garantire:
-per gli aspetti sub a) riconoscendo i corrispettivi poteri di autogoverno;
-per quelli sub b) attribuendo ai sardi il potere di coltivare e di promuovere, in condizioni di parità con la cultura italiana e con quelle europee, il proprio patrimonio identitario;
-per le esigenze sub c) impegnandosi ad assicurare agli isolani sia la possibilità di esplicare prioritariamente nell’Isola il proprio lavoro, sia, specularmente, il godimento di pari opportunità di comunicazione e di mobilità col resto del continente europeo.
Ma non vi sono ragioni per cui una Regione speciale mediterranea e insulare non possa affermare nel proprio Statuto anche principi che esaltino la sua storica attitudine a essere terra d’asilo e di ospitalità, alla luce degli ancor più vasti processi contemporanei di mobilità e quindi a esercitare una propria autonoma competenza nel campo della cooperazione internazionale e persino in quello dell’accoglienza dei migranti e dei profughi.
D’altra parte lo Statuto potrebbe contenere statuizioni in ordine alle caratteristiche dello sviluppo economico-sociale dell’Isola (si pensi al principio di coesione interna e alla perequazione tra i suoi territori, o al principio dello sviluppo sostenibile e quindi della tutela dell’ambiente e del paesaggio intesi come beni da preservare per l’intera specie umana e per le future generazioni).
Norme di rango costituzionale tali da dar luogo per un verso a competenze, per altro verso a prescrizioni o a limiti nell’esercizio delle stesse, insomma, cioè, a una specifica categoria di diritti-doveri non derogabili né da parte dello Stato, né da parte della stessa Regione.
Infine la collocazione nell’ambito europeo investe un ulteriore problema.
Si dovrebbero infatti rivisitare in chiave più attuale i temi connessi alla rinascita contemplati dall’attuale articolo 13 dello Statuto, anche alla luce del principio di insularità recentemente introdotto nell’articolo 119 della Costituzione. Lo Statuto sardo, nella sua sezione economico-finanziaria, dovrebbe sviluppare questa dimensione, con disposizioni che impegnino la Repubblica a sostenere la Sardegna al fine di ottenere regimi fiscali, doganali, di aiuto all’economia differenziati, utili all’abbattimento del costo-insularità.Uno Statuto che assumesse questo respiro dovrebbe essere concepito, prima ancora che come strumento regolatore delle competenze di enti e dei rapporti tra soggetti pubblici, come Statuto di diritti in generale.
Tra questi diritti dovrebbero essere precisati anche i diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione: diritti di partecipazione e di interdizione, diritti procedimentali, diritti prestazionali.
Lo Statuto dovrebbe contenere perciò anche norme direttive vincolanti il legislatore regionale, nell’esercizio della potestà ad esso attribuita di definire, con propria legge “statutaria” rinforzata, la forma di governo e l’organizzazione interna della Regione, al fine di permeare l’ordinamento di quel tasso di democraticità che decenni di burocratismo hanno soffocato.
Come si vede, ce n’è più che abbastanza per confezionare un vero programma politico e costruirci intorno una forma di aggregazione che possa esercitare intanto, fin da subito, una certa pressione dall’esterno sulle istituzioni; ma che possa anche farsi a sua volta schieramento da sottoporre al voto, alla prima occasione.
I giochi elettorali basati sullo schema – artificioso e vuoto di senso politico – del duo-polio consociativo e oligarchico di matrice italiana sono un lusso che non possiamo più permetterci. D’altra parte, è difficile scardinarne il dominio, data la legge elettorale vigente e data la disarticolazione sociale e politica di cui soffre l’isola.
Ma se le forze ancora vitali e sane, che pure esistono e sono attive, così come le residuali forze indipendentiste, il mondo della cultura e delle università non organico ai centri di potere dominanti, i gruppi sociali non assoggettati, trovassero il modo di costituire una sorta di blocco storico democratico intorno a un tale programma, non è detto che non si potrebbe mutare l’inerzia mortifera in corso.
Servirebbe uno sforzo di generosità e di pragmatismo, senza rinunciare alle proprie anime. Nessuno vieta alle forze indipendentiste di avere come obiettivo strategico la costituzione di uno stato sovrano sardo, né ai federalisti di immaginare un esito storico che risponda alla loro visione. Non c’è nemmeno bisogno di essere anti-italiani e/o nazionalisti sardi. Si tratta di provare a realizzare qualcosa di realizzabile, date le condizioni storiche attuali. Una tappa strategica necessaria, su cui poi eventualmente allestire un ulteriore confronto democratico.
Che dobbiamo cominciare a ragionare su un altro livello, che non siano solo slogan e rivendicazioni, ma anche risposte ai quesiti che ci pone il nostro tempo, mi pare un imperativo che non possiamo eludere.
Mi ci ha fatto pensare anche il convegno organizzato da Assemblea Natzionale Sarda la mattina del 28 aprile (Sa Die), a Cagliari. Gli interventi dei diversi ospiti internazionali hanno evidenziato quanto sia fondamentale cominciare a pensarsi come comunità sovrana, prima ancora di poter esercitare i poteri sovrani. Ci sono questioni aperte a cui non possiamo sottrarci fin da ora: la natura, la composizione e il ruolo dell’Unione Europea; le relazioni internazionali tra le due sponde del Mediterraneo e con l’est euro-asiatico; le dinamiche economiche e sociali globali; i mutamenti climatici e il degrado dell’ecosistema; la natura e la funzione dello stato e delle istituzioni internazionali.
Mi rivolgo soprattutto al mondo indipendentista, attualmente impegnato in un meritorio tentativo di ricomposizione: non basta riunire le forze se poi le si rivolge a battaglie di retroguardia o a semplici rivendicazioni identitarie. E non basta l’avanguardismo retorico. Occorre liberarsi dei paraocchi dogmatici, da setta, o da clan. La diffidenza verso i non indipendentisti, la passione per il proprio mondo fatto di parole, preferito a quello reale fatto di contraddizioni, attriti, problemi complessi, sono tutti difetti fuori tempo massimo.
Mi pare che le nuove generazioni ne soffrano di meno. Confido che non soffochiamo queste labili, ma esistenti, nuove energie.
Non si può aspettare che finisca la legislatura regionale appena iniziata per provare poi a acconciare l’ennesimo accrocchio elettorale. Le battaglie vanno condotte fin da subito e con le alleanze che il terreno e le circostanze ci offrono. Dal livello locale a quello generale. Quelle che sembravano cupe nubi all’orizzonte della sorte della Sardegna si stanno addensando in una cellula ciclonica che minaccia devastazioni non rimediabili. Siamo chiamati all’ennesima assunzione di responsabilità collettiva.