Non è colpa di Dante: la Sardegna e la leggenda dell’italianizzazione primaria

The Traitorous Pair - Ugolino and Ruggieri - Figures of ...

Nel 2021, ossia l’anno prossimo, cadrà il settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta. Si preparano manifestazioni, celebrazioni, convegni.

Una delle operazioni, ideata da Poste Italiane e dal Ministero del Beni Culturali (MIBACT), vuole coinvolgere nelle celebrazioni anche i piccoli comuni, oltre che le città più grandi. Il criterio di selezione sarà basato sugli elementi di connessione tra i vari centri e la vita e le opere di Dante.

Fin qui, niente di che. In Italia è sempre forte il processo di nation building, di costruzione dello stato-nazione. Ovviamente, ciò significa che non è mai riuscito del tutto. Qualsiasi elemento è buono per imporre una narrazione istituzionale che giustifichi ed esalti la finzione storica – o la mitologia, se si preferisce – dell’italianità. Dante non può sfuggire a questo meccanismo.

Quel che mi preme evidenziare qui, tuttavia, è un’altra faccenda. Non nuova nemmeno questa. Dentro la faticosa opera di “invenzione” degli italiani è ricompresa la sua declinazione sarda: l’invenzione dell’italianità dei sardi. Per un certo verso, si tratta di un dispositivo inevitabile, date le circostanze.

Una volta infilata la Sardegna – un po’ per caso, o in modo preterintenzionale – nel nuovo contesto italiano, l’establishment politico, culturale e affaristico isolano fece buon viso a cattivo gioco e si adattò a trarre da questa situazione qualche vantaggio.

Giustificare e rendere indiscutibile l’appartenenza italiana della Sardegna serviva e continua a servire tanto all’Italia quanto alla classe dominante sarda. L’ossessione per la ricerca di segni di appartenenza italiana della Sardegna non è un fatto solo ascrivibile ai mass media, di per sé non autonomi né controparti bensì organici all’apparato di potere e di interessi dominanti.

È anche una costante negli studi storici, sociali, linguistici, nonché nel discorso intellettuale pubblico. Come impianto ideologico di fondo, come premessa (a volte implicita, a volte esplicita) e come cornice generale. Ma anche come esiti e contenuti.

Pensiamo alla tesi dell'”italianizzazione primaria”, così forte nel periodo fascista (a compensare il fallimento e l’onta delle Carte di Arborea), ma ancora oggi piuttosto in voga. Ne ho già discusso, in questo spazio (per esempio qui). Le pubblicazioni accademiche che assumono questa sorta di mito come un dato di fatto storico, senza prendersi la briga di dimostrarlo fino in fondo, sono diverse (penso in particolare agli studi di Ines Loi Corvetto). Cosa c’entra Dante in tutto questo?

C’entra, perché Dante è al contempo uno dei padri dell’italianità (non solo linguistica) ed è appunto anche oggetto di appropriazione da parte di qualche comune della Sardegna in cerca di finanziamenti o di visibilità, approfittando della ricorrenza che lo riguarda. Eppure i legami tra Dante e l’isola non sono ignoti. Anzi, sono ben conosciuti, studiati e per altro documentati nelle sue stesse opere.

Fa persino tenerezza che un comune sardo – in questo caso Santa Maria Coghinas – debba argomentare la propria rilevanza dantesca evocando l’appartenenza medievale di quelle contrade a un personaggio (Brancaleone Doria) che il Sommo Poeta sistemò poco confortevolmente all’Inferno.

Tanto vale giocarci la carta Bonifacio VIII, anch’egli destinato all’Inferno da Dante (e in anticipo sulla morte, addirittura), dopo aver fatto in tempo ad infeudare l’isola al re d’Aragona. O – perché no – ricorrere alle imprese sarde del Conte Ugolino. Ma avrebbe senso?

Questo accreditamento indebito di credenziali dantesche suona come il tentativo di imbucarsi a una festa senza essere stati invitati. Un po’ come i romani che si spacciavano per portoghesi pur di entrare gratis allo spettacolo offerto dall’ambasciatore del Portogallo. Non ci viene da vergognarci almeno un po’?

Dante qualche idea sulla Sardegna l’aveva. Aveva avuto modo di conoscere direttamente o indirettamente personaggi e vicende dell’isola, naturalmente interpretando il tutto a modo suo, secondo i suoi schemi mentali e il suo armamentario culturale. Su una cosa però non sembrava avere dubbi: sul fatto che la Sardegna non fosse una terra propriamente italiana.

Non lo era geograficamente, di sicuro, e non lo era linguisticamente (nonostante i legami con Pisa di quel periodo storico). Famoso il passo del De vulgari eloquentia in cui si chiama in causa la lingua dei Sardi:

Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes […]. (DVE I, XI)

Traduco:

Escludiamo infine i Sardi, che non sono Italici ma agli Italici possiamo accomunare, poiché appaiono gli unici a non disporre di un proprio volgare, limitandosi ad imitare la grammatica [ossia il latino, che per Dante era una lingua sostanzialmente artificiale, NdT] come le scimmie imitano gli esseri umani.

Il vecchio Dante non sembrava proprio convinto dell’italianizzazione dei sardi.

Nemmeno Fazio degli Uberti, autore verso la metà del Trecento del curioso poema “enciclopedico”, emulo della Commedia dantesca, intitolato Dittamondo, sembra persuaso dell’italianità – linguistica o di altra specie – della Sardegna.

Suoi i versi, abbastanza noti, secondo cui in Sardegna vivesse:

Una gente, che alcuno non la intende,
Né essi sanno quel ch’altri bisbiglia
(Dittamondo, III, XII)

Recentemente la teoria dell’italianizzazione primaria è stata messa in discussione, in ambito accademico, anche sulla base di documenti sardi.

Nel “Bollettino di Studi Sardi” n. 11 del 2018 (uscito nel giugno 2019) è reperibile un saggio di Paolo Maninchedda intitolato «Caldi caldi mandali alla forca». Guerra e contatto linguistico in alcune lettere di Mariano IV d’Arborea. Il saggio è dedicato ad alcune lettere di Mariano IV de Serra Bas, recuperate tra gli atti del “processo agli Arborea”. Una fonte catalana, dunque, ma che riporta testualmente (con qualche probabile e inevitabile errore di trascrizione) dei documenti sardo-giudicali.

Le lettere erano redatte in sardo e in italiano, perché indirizzate a interlocutori diversi, tra cui uno dei capitani di Mariano, tale Azzone da Modena, che – come risulta dalle lettere stesse – non comprendeva il sardo. E questo sarebbe normale. Ma non solo il buon Azzone non comprendeva il sardo; il problema era che nemmeno i sardi comprendevano lui.

Problema increscioso, nell’ambito di operazioni di guerra in cui v’era da coordinare truppe sarde e milizie mercenarie forestiere, le quali avevano inoltre a che fare con autorità e popolazioni locali. Ma è un aspetto che in questa sede possiamo tralasciare.

Che in Sardegna non vi fosse alcuna dimestichezza coi volgari italiani, nonostante a queste date (siamo sempre verso la metà del Trecento) la frequentazione con i Pisani e i Genovesi (ed altri) dovesse risalire a molte generazioni prima, è una notizia notevole. Confermata da fonti diverse e di diversa indole. Difficilmente confutabile, dunque.

La stessa dimestichezza dei regnanti arborensi, o di qualche porzione delle classi dirigenti sarde dell’epoca, con i volgari italiani, pure da dimostrare (dato che per far redigere lettere in volgare italiano bastava avere dei segretari capaci di farlo, magari traducendo), non significherebbe comunque nulla riguardo a una padronanza diffusa presso la popolazione o suoi ampi strati.

Approfondendo la questione, insomma, la teoria dell’italianizzazione primaria della Sardegna in epoca medievale sembra destinata alla falsificazione. In ogni caso, difficilmente può servire a fondare una teoria più ampia riguardante la “naturale” e/o “storica” italianità dell’isola e di chi vi abita.

Sembra che per rivendicare legami con Dante – simbolo di identità italiana, come viene autorevolmente definito – non ci resti che vantare vaghe connessioni con qualche personaggio discutibile da lui tirato in ballo nelle sue opere. Per rivendicare invece l’appartenenza storica – almeno sul piano culturale – della Sardegna all’Italia credo non ci sia proprio nulla da fare.

È un problema? Io non credo. O almeno non lo sarebbe se a questo tipo di faccende non venisse dato sempre un peso tanto grande. Qui c’è un punto decisivo.

Non potremmo semplicemente goderci la possibilità di leggere Dante e di sentirlo comunque nostro, in quanto genio universale, appartenente a tutta l’umanità?

Così come potremmo serenamente sentire nostre tutte le bellezze prodotte dalla cultura italiana nel tempo, allo stesso modo in cui è legittimo sentire nostre l’arte e la letteratura di qualsiasi altra parte del pianeta, da chiunque prodotte. Senza che questo debba comportare falsificazioni, rivendicazioni ridicole, diatribe storiche (o pseudo-storiche), rinunce. Senza, soprattutto, che entri in gioco la nostra appartenenza, di nascita o elettiva che sia. Tanto meno che da tutto ciò discendano conseguenze politiche dirette.

I complessi di inferiorità e la ricerca costante di legittimazione presso un contesto ritenuto più rilevante e centrale, magari a costo di sacrificare un intero patrimonio storico-culturale e linguistico sicuramente più nostro, sono un sintomo di subalternità piuttosto palese.

Imporre a intere popolazioni, in modo forzoso, tramite processi di acculturazione, appartenenze fittizie, infondate o comunque tutt’altro che sentite spontaneamente, è un’operazione di chiaro stampo coloniale. Non si tratta di nulla di positivo, tanto nell’uno quanto nell’altro caso. Ma non è colpa di Dante.

5 Comments

  1. A conferma degli equivoci e anche dei cortocircuiti scatenati dall’italianwashing ossessivo tanto amato dalla nostra classe dirigente (?), due esempi pratici di queste ore.

    Il primo è l’annuncio che una sfida di Coppa Davis (tennis) sarà giocata a Cagliari e che, come simbolo della medesima, è stato scelto il complesso nuragico di Barumini. I nuraghi come simbolo di identità italiana. Perfetto. https://bit.ly/38axX8I

    Il secondo è una trovata del sindaco di Cagliari Paolo Truzzu. Saputo da fonti di intelligence (immagino) che la famosa attrice Jennifer Lopez intende trasferirsi in una piccola città italiana, il sindaco Truzzu le propone Cagliari, come destinazione. https://bit.ly/38k8w4H
    Mi sembra geniale. In fondo Cagliari è proprio piccola ed è sicuramente una tipica città italiana.

  2. A proposito dei rapporti tra il sardo e l’italianità, riflettevo sul fatto che uno dei primi documenti in lingua sarda “Il privilegio Logudorese” (1080 circa, conservato nell’Archivio di Stato di Pisa) con cui il giudice Mariano I di Torres concedeva alcuni privilegi ai mercanti pisani, sia scritto solo in sardo non sia una prova del prestigio “internazionale” di cui il sardo godeva . Forse significa anche che era conosciuto anche fuori deloa Sardegna almeno a livello di comprensione ?

    1. Ne dubito molto, Maria Vittoria. Tutte le fonti di cui disponiamo segnalano la diffusa opinione dell’incomprensibilità del sardo, nel corso di tutto il Medioevo. Si aveva dunque una certa idea della lingua sarda, perché la Sardegna era tutt’altro che isolata, ma essa risultava particolarmente ostica agli stranieri.
      L’uso formale del sardo, come lingua ufficiale e giuridica, in periodo giudicale, è una caratteristica che è sempre stata sottolineata dagli studiosi come peculiare dell’isola. Di solito la si attribuisce all’arretratezza e all’ignoranza dei sardi e delle loro classi dirigenti, ma è evidentemente un luogo comune piuttosto discriminatorio. Di norma, i documenti che dovevano essere condivisi con soggetti stranieri erano redatti almeno in due lingue. Però è possibile che, nei primi tempi dei rapporti tra i regni giudicali e Pisa, non ci fosse ancora tutta questa dimestichezza linguistica. Senza scartare, naturalmente, la possibilità che, in questo caso specifico, sia rimasto fortuitamente il testo in sardo e sia andato perduto quello in volgare pisano.

  3. Non me né voglia ma credo che l’impostazione che lei da al tema sia sbagliata. Per certi versi addirittura viziata da una prospettiva (…vogliamo dire “vittimistica” ?) che non permette di vedere le cose per quelle che sono.

    1. Non gliene voglio, ma l’obiezione andrebbe argomentata. Così, è solo un’asserzione apodittica, che non consente l’articolazione di una discussione.
      Posso dirle però che il vittimismo, per come la vedo io, non c’entra affatto, da alcun punto di vista.

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