Giganti, conflitti di competenze, cattiva politica e occasioni mancate

Non so se ci sia un altro luogo nel mondo in cui l’archeologia e le testimonianze di un lontano passato abbiano tanto peso politico e mediatico come in Sardegna.

È una mera constatazione. Non credo nemmeno che sia un bene. Però è così. Esiste un rapporto irrisolto, scisso, tra noi e la nostra storia e questo si manifesta in modo molto forte laddove questa storia ha lasciato tracce visibili e tangibili di sé. Su molte epoche ha gioco facile l’ignoranza dei più (quasi sempre incolpevole) e le mistificazioni che hanno costruito il nostro mito identitario, tramite elementi pseudo- o para-storici di comodo. Circa la preistoria e la protostoria dell’isola, la grandiosità monumentale dei lasciti dei nostri lontani antenati indebolisce l’egemonia delle narrazioni sminuenti e subalterne.

Va detto che in realtà gli studi e le acquisizioni più recenti tendono a offrire un quadro della preistoria e della protostoria sarda molto più articolato e plausibile di quello imposto dalle prime tesi ricostruttive contemporanee, diciamo da Spano e Taramelli fino a Lilliu e ai suoi diretti allievi. Lo stesso Giovanni Lilliu ha più volte aggiornato il suo punto di vista, tenendo conto degli sviluppi ulteriori dell’archeologia e delle discipline ausiliarie da cui ormai è affiancata (biologia molecolare, paleobotanica, ecc.).

Tuttavia, in questi ultimi quindici anni, il dibattito sulla nostra storia più antica e sui lunghi secoli della nostra preistoria si è allargato e si è polarizzato, anche grazie all’avvento dei social media. La stessa polarizzazione, benché forse inevitabile, è un problema che meriterebbe qualche analisi. Ma, dato che ne ho già scritto in questa sede, preferirei fermarmi su aspetti più strettamente politici.

Qualche giorno fa è stata resa nota l’ultima sentenza relativa alla querelle “Tuvixeddu”. Una sentenza che ha dato ragione alle posizioni di chi voleva e vorrebbe ripristinare la piena titolarità pubblica su quell’area anche a discapito dei corposi interessi materiali (edilizi) che vi insistono, complice una buona parte della politica locale e regionale.

La vicenda era ed è particolarmente significativa, sia per la rilevanza dell’area interessata, sia perché ha coinvolto i vertici della Regione, l’amministrazione di Cagliari, la Soprintendenza competente (la figlia dell’allora soprintendente Vincenzo Santoni era stata assunta dall’impresa che doveva edificare nell’area di Tuvixeddu) e molti altri soggetti, in una guerra tra fazioni abbastanza discutibile, per toni e contenuti (ricordiamo, tra gli altri episodi, la pubblicazione da parte dell’Unione delle intercettazioni telefoniche di Paolo Maninchedda, allora favorevole all’impresa Cualbu contro Renato Soru).

Nemmeno in quella circostanza era emerso a tutti gli effetti e in modo chiaro il vero nodo del problema. Che non è tanto la rapacità proverbiale della borghesia compradora sarda, né i suoi rapporti organici con la politica, specie quella più cinica, trasformista e votata al potere per il potere: tutti elementi nient’affatto nuovi o sorprendenti; quanto piuttosto l’inquadramento come bene comune indisponibile delle vestigia del nostro passato e la titolarità giuridica e politica che ne discende.

Lo stesso nodo è emerso in questi giorni, sia pure su un altro piano, a proposito dei Giganti di Monte Prama, ormai divenuti emblema più noto della questione. Il trasferimento a Cagliari, a scopo di restauro, di quattro delle statue ritrovate nella località vicino a Cabras, disposto dalla Soprintendenza competente, ha scatenato le ire dell’amministrazione locale e un feroce dibattito pubblico, specie su Facebook.

La decisione della Soprintendenza è sembrata una brutale sottrazione di un bene decisivo per le sorti della comunità cabrarese, per altro senza alcuna garanzia formale sulla restituzione dei manufatti, dopo il restauro.

La vicenda ha assunto presto i contorni dell’incidente diplomatico, o meglio del conflitto di attribuzione. La Soprintendenza è un ente territoriale del MiBACT, dunque è un ente governativo. Il patrimonio archeologico, come tutti i beni culturali, appartiene allo Stato. Dunque niente di strano che un ente governativo ne disponga. Tuttavia, sugli stessi beni culturali e sulla loro gestione e valorizzazione intervengono anche competenze ulteriori, fino al livello comunale, oltre all’interesse e alle aspettative di tanti, così le modalità impositive adottate dalla Soprintendenza hanno provocato la reazione del Comune e dell’opinione pubblica.

Il MiBACT ha sorprendentemente deciso di rispondere, in modo alquanto irrituale, con una nota della sua Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, in cui rivendica allo Stato la potestà primaria sui beni archeologici, compresi i Giganti, e rinfaccia sostanzialmente al Comune di Cabras di non aver ancora dato compimento a un accordo intercorso proprio tra Ministero e Comune relativamente alla tutela e alla gestione dei reperti. Implicitamente, dunque, dal Ministero si fa sapere che se il Comune non adempirà alla sua parte dell’accordo, i Giganti non torneranno a Cabras. Sul punto è in corso un ennesimo capitolo della controversia.

A questo aspetto della vicenda si è aggiunto presto un ulteriore ambito di discussione, relativo alla dialettica tra centri minori e città e in particolare tra Cagliari e resto dell’isola. Invero, non sembra che questo problema sia emerso direttamente dalla disputa istituzionale, che invece investe da un lato la Soprintendenza e il Ministero e dall’altra il Comune di Cabras. In questa disputa il ruolo di Cagliari è meramente strumentale e accessorio, essendo solo la sede scelta dalla Soprintendenza per il restauro. Tuttavia, nelle discussioni social, questo aspetto è diventato rilevante.

Onestamente, mi sembra un problema esageratamente enfatizzato. Sia perché non è il nucleo decisivo della questione, sia perché la stessa dialettica tra città e paesi e tra Cagliari e resto della Sardegna da tempo ha mutato tono e dimensioni. In realtà, non esiste una vera contrapposizione, né le persone che abitano l’isola – a parte le pose campanilistiche e l’umorismo che le riguarda – percepiscono più questa separatezza come assoluta e ineliminabile.

Non c’è persona sarda che non sia al contempo, in dosi variabili, sia paesana sia cittadina. Tanto le storie familiari quanto le vicende demografiche e sociali di portata più ampia dimostrano un flusso costante di scambio e di migrazioni interne che impedisce di stabilire qualsiasi distinzione essenzialista e radicale, di natura antropologica o sociologica, tra chi abita in città e chi abita in paese. Lo stesso vale per l’altra distinzione diffusa nel senso comune, e purtroppo anche presso la narrazione dominante propalata dall’intellettualità sarda, quella tra Coste/Pianure/Città e Zone Interne. Si tratta di cornici interpretative destituite di fondamento e ormai buone solo come strumenti politici, allo scopo di generare divisioni fittizie e impedire invece una dialettica più vitale e propositiva.

Il vero nodo di tutta la questione, sia riguardo ai Giganti di Monte Prama sia riguardo a Tuvixeddu, così come di tutto il resto dell’immenso patrimonio storico-archeologico sardo, è il conflitto di competenze e di interessi strategici tra lo stato italiano e la Sardegna.

Tale conflitto non può essere sbrigativamente risolto appellandosi alla costituzione italiana e alla legge, né, sull’altro versante, pretendendo irrealisticamente di prescinderne. Non basta affrontare la questione sul piano giuridico, per chiuderla, ma non è produttivo (né legittimo) ignorare tale ambito.

Bisogna restare dunque dal piano politico, con tutte le sue implicazioni e connotazioni.

È vero che la Sardegna fa parte dello stato italiano, e pertanto anche il suo patrimonio storico-archeologico appartiene al medesimo stato italiano, con tutto ciò che ne consegue. Tuttavia non basta contestare sic et simpliciter, retoricamente, questo fatto senza inquadrarlo nei suoi risvolti extra-giuridici e senza nemmeno avere in mente una prospettiva alternativa, per di più avendo dimostrato quasi sempre, a livello regionale e comunale, inettitudine e incuria nella gestione del patrimonio storico-archeologico.

Lo stesso Comune di Cabras, pure detentore di un patrimonio storico-archeologico locale, ma anche paesaggistico e ambientale, con pochi uguali in Europa, non può certo vantare una coscienza immacolata né una lunga storia di buone pratiche e di adeguata valorizzazione.

Sono pochi i comuni sardi che possono a buon diritto rivendicare il proprio buon operato in questo senso. Villanovaforru è un esempio eclatante proprio perché resta ancora un’eccezione.

Certo, l’obiezione più facile è quella che riguarda le scarse disponibilità di risorse e di personale dei comuni, ma si tratta di un’obiezione che, a ben guardare, non regge. In tanti anni si sarebbe potuto e dovuto pianificare un recupero e una gestione del patrimonio storico-archeologico locale di gran lunga più virtuosi e più proficui anche dal punto di vista sociale e persino economico. Se non lo si è fatto dipende in larga misura dall’incompetenza e dal disinteresse della classe politica sarda, a tutti i livelli.

Incompetenza e disinteresse che poi, davanti alle pretese delle Soprintendenze e dello Stato centrale, diventano elementi di debolezza politica decisivi. In Sardegna non è mai esistita una vera politica culturale, in nessun ambito. La cultura è sempre stata una variabile dipendente, per la politica sarda, non meritevole di investimenti strategici, ma solo di interventi occasionali, in termini meramente opportunistici, clientelari, al più propagandistici.

La scarsa considerazione di cui godono in Italia la storia e il patrimonio storico-archeologico della Sardegna, con la sequela di inesattezze e stereotipi periodicamente diffusi in merito dai mass media, se discendono dal rapporto subalterno e dipendente dell’isola rispetto allo Stato centrale, hanno però sempre trovato sponda nella politica e nell’intellighenzia isolane, compresa quella accademica.

Condurre oggi una battaglia di principio sullo spostamento di quattro statue da Cabras a Cagliari sarebbe stato molto più efficace e utile se inserito in un contesto di rivendicazioni a più ampio raggio, sostenute da anni di battaglia culturale e politica ben argomentata e portata avanti a vario livello, in una combinazione virtuosa tra azione istituzionale, strumentazione giuridica adeguata, partecipazione massiva del mondo della cultura e consapevolezza diffusa nella cittadinanza.

Ma queste precondizioni non esistono. E non esistono perché si è fatto in modo che non esistano. Le Soprintendenze – che fanno il loro lavoro, con i tratti colonialisti e autoritari che spesso le contraddistinguono, ma coerentemente con la propria natura e il proprio mandato – hanno gioco facilissimo, in Sardegna. Quante volte abbiamo letto o sentito esponenti del mondo culturale sardo invocarle e invocare genericamente lo Stato centrale per difendere paesaggio e beni culturali sardi dai sardi stessi? Esponenti del mondo della cultura che poi, politicamente, sono sempre stati organici alle consorterie politiche che dominano la scena isolana da decenni, con i risultati che ben vediamo, quasi sempre ostili a qualsiasi reale prospettiva di mutamento politico, culturale e sociale.

Occorre costruire un vasto movimento democratico che contempli, tra le sue priorità, la riappropriazione di tutti gli elementi che concorrono al patrimonio culturale dell’isola. Non come rivendicazione di proprietà, ma come piena titolarità di disporne per condividerlo con il mondo. Perché è questo uno degli elementi cardine del discorso: la storia e la cultura prodotte dalla Sardegna nei millenni sono sì una ricchezza dell’isola e di chi la abita ma sono anche una ricchezza dell’umanità intera. Non nei termini propagandistici e commerciali con cui si intende questo tema presso alcune conventicole nostrane, le stesse che lanciano battaglie per il riconoscimento dell’insularità nella costituzione italiana e al contempo campagne per fare della pre- e proto-storia sarde un patrimonio dell’UNESCO; bensì in termini democratici ed emancipativi, a vantaggio dell’intera cittadinanza e del progresso sociale e culturale dell’isola.

Limitarsi a una polemica episodica, alimentata dai social, su un evento tutto sommato minore, per giunta con la coscienza non proprio immacolata, non è il modo migliore per affrontare questo tema strategico. È giusto discuterne e far emergere tutti i risvolti della vicenda, sicuramente, ma poi è necessario assumersi tutte le responsabilità del caso, ciascuno per la propria sfera di competenza e di azione, senza troppi orpelli retorici né rivendicazioni pasticciate, inopportune, fuori tempo.

Piantiamola con le bassezze localistiche e i cedimenti alla logica della competizione narcisistica da social media e facciamone una grande battaglia civile. Dotiamoci di tutti gli strumenti cognitivi, giuridici, storici, politici che ci servono per vincerla e inseriamola in una più generale prospettiva strategica di autodeterminazione democratica. Solo così queste rivendicazioni avranno senso e potranno aspirare ad avere successo.

3 Comments

  1. Molto ben focalizzato, riporti bene i termini del problema alla vera essenza del conflitto in atto. E giustamente estendi il ragionamento anche al tema del paesaggio: su questo da anni si fronteggiano da una parte i fautori del cemento (dico per semplificare) e dall’altra chi, in virtù di una visione “urbana” dell’intoccabilità dello spazio – che non è semplicemente cagliaricentrica – costruiscono alleanze innaturali autolesioniste e comunque improprie con gli organi dello Stato (cito non solo il caso Marganai ma anche per es. la vicenda del monte Amiata dove la Sovrintendenza ha acriticamente sposato una lettera di Italia Nostra per imporre un tipo di taglio nel castagneto che storicamente non è mai esistito invocandone però la “storicità” – inutile dire che l’Ufficio Statale si è dovuto letteralmente rimangiare il pronunciamento). Tornando in Sardegna, sarebbe tempo che, soprattutto in ambito di cultura e idee di autodeterminazione, si lavori ad uno scenario di modelli realmente sostenibili (tra i due citati estremi insostenibili) per l’uso delle risorse coerente con la conservazione. E si sappia soprattutto che in Sardegna esistono progettualità, professionalità e visioni che lo consentono, anche quando le si pone a confronto con una penosa gestione delle politiche regionali. E ciò che si dovrebbe fare, per iniziare – come già sta facendo la Regione Toscana senza entrare in tematiche di autogoverno spinto – è obbligare lo Stato a sedersi a parlare e sottoscrivere accordi paritetici evitando di tornare a gerarchie antistoriche e prevaricatrici o, se vogliamo, ad atteggiamenti colonialisti tout court.

    1. Io non so chi è il signore che ha scritto: «Esiste un rapporto irrisolto, scisso, tra noi e la nostra storia e questo si manifesta in modo molto forte laddove questa storia ha lasciato tracce visibili e tangibili di sé. Su molte epoche ha gioco facile l’ignoranza dei più (quasi sempre incolpevole) e le mistificazioni che hanno costruito il nostro mito identitario, tramite elementi pseudo- o para-storici di comodo. Circa la preistoria e la protostoria dell’isola, la grandiosità monumentale dei lasciti dei nostri lontani antenati indebolisce l’egemonia delle narrazioni sminuenti e subalterne.»,
      e poi fa seguire un lungo capitolo di motivazioni, cause, situazioni e ragioni che sembrano coprire l’atteggiamento dello Stato, ne accettano le decisioni e in definitiva lo giustificano, pur attribuendogli di sfuggita e forse diplomaticamente un comportamento colonialista. Nella vicenda delle quattro statue dei Giganti da restaurare, Cabras, in persona del suo Sindaco, si oppone ad un comportamento colonialista dello Stato tramite la Sovrintendenza di Cagliari. Dite che Cabras è inadempiente? E’ Cabras l’inadempiente? Siamo sempre noi Sardi inadempienti? Spiacente, signore, chiunque sia stato a scrivere quelle righe, non ci stiamo più. Non accettiamo più che il più forte sia sempre nel giusto e chi non può affermarsi con la forza sia sempre nel torto. E non vogliamo nemmeno essere sempre quelli ‘non all’altezza’ dei compiti e delle competenze, giacché lei stesso, signore, riconosce che “l’ignoranza dei più” – che siamo noi Sardi, – é “quasi sempre incolpevole”. Quell’ignoranza, signore, non è stata una nostra libera scelta, e lei sa molto bene chi ci ha voluto e ci vuole “ignoranti”.
      Mi sarei aspettato una difesa ed un appoggio e perfino un suggerimento opportuno al sindaco di Cabras, da un signore, Sardo mi pare di capire, che cerca e trova le cause delle molte carenze dei Sardi, a partire dai nanopolitici e/o nano accaparratori regionali e perfino dei sottocittadini Sardi, e poi assolve i comportamenti “colonialistici” dello Stato centrale nei confronti della Sardegna in generale, e di un singolo Comune col suo Sindaco nello specifico, che non accetta passivamente una sua ‘imposizione’. Tutti i beni culturali del territorio dello Stato appartengono allo Stato, è vero, per la Costituzione. Il Comune col suo Sindaco, con i suoi cittadini – specie se in Sardegna, – dunque, nella sua visione non sono lo Stato?

      1. Commento approvato giusto come esempio di modo sbagliato di interloquire.

        Aldo Cesare Cauli, neanche io so chi tu sia, ma riesco a collegare il tuo commento al nome che lo accompagna. Avrò forse qualche superpotere? Non che io sappia e comunque non credo.

        Non ti sei accorto che stavi scrivendo un commento in un sito non anonimo, bensì intestato chiaramente a una persona con nome e cognome? Strana svista. In ogni caso, approccio sbagliato.

        Nel merito, che dire, forse mi sono spiegato male. Magari è colpa della lunghezza del testo o dell’intima complessità della faccenda. Chissà. In ogni caso, non c’è ragione al mondo per cui io sia tenuto a sostenere una decisione di un sindaco solo in quanto sardo (sardo sia io sia il sindaco, in questo caso). Questo richiamo di stampo etnicista, chiaramente sgangherato e fuori focus, si commenta da sé.

        Per altro, quello che penso delle Soprintendenze è piuttosto chiaro e si evince anche da questo post. Così come è chiara e nota la mia opinione sui rapporti di natura coloniale tra Stato italiano e Sardegna. A cosa serve osservare che i Comuni, così come la Regione Sardegna, sono essi stessi articolazioni dello stato? Bisognerebbe dedurne che si tratta solo di un conflitto di competenze tra enti statali? Non mi sembra che la vicenda sia inquadrabile in questo modo, ma, se lo fosse, risulterebbe in contraddizione con la pretesa di contrapporre la Sardegna e l’Italia, in termini nazionalisti. Come vedi, Aldo Cesare, impantanarsi in discorsi confusi e poco pertinenti è un attimo, in queste faccende.

        Posso solo invitarti, se hai voglia, a rileggere con maggiore attenzione e senza preconcetti la mia disamina. È possibile che ci trovi qualcosa che ti era sfuggito, nella foga della polemica. Ci sono circostanze in cui in una disputa nessuna delle due parti abbia pienamente ragione. Capita. E capita anche che, discutendo di una questione complessa, vengano fuori e siano commentati aspetti accessori e marginali, perdendo così di vista il nucleo principale. Facciamo che ci ragioniamo su tutt* quant* con più pazienza e maggiori informazioni, prima di emettere giudizi definitivi e semplicistici? Magari così ci si ritrova su un terreno di confronto più costruttivo, anche se non necessariamente tutt* d’accordo. È un invito che faccio a te ma che vale anche per me e per chiunque altro.

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