Una delle prima cose che ho pensato, alla notizia dell’ammucchiata a sostegno del tecnocrate Draghi, è la faccia di bronzo dei politici sardi “di sinistra” (virgolette d’obbligo). Tutta la retorica del “battere le destre” e del “voto utile” sempre riversata a secchiate su qualsiasi discorso politico appena appena complesso, specie in campagna elettorale, e sempre in funzione anti-indipendentista, anti-alternativa, che fine farà? Oggi come la vedono?
Domanda retorica. Diciamo subito che non dovremmo stupirci. In tanti lo sappiamo da molti anni che quella è mera rappresentazione scenica, che in fondo si tratta di ritagliarsi una parte in commedia per poter partecipare alla spartizione. Guardatevi le nomine nei vari enti regionali o para-regionali, nei consorzi, tra i dirigenti degli assessorati, nella sanità e vi farete un’idea di cosa sia la rete del potere in Sardegna.
Un groviglio di interessi tutt’altro che in conflitto tra loro, ma anzi ben assemblati in un ingranaggio puramente parassitario il cui primo comandamento è: fare in modo che nulla cambi, con ogni mezzo.
Da qui la legge elettorale del 2013, ancora in vigore, da qui i trasformismi e il costante riciclaggio di personaggi come minimo discutibili, ma ben dotati di “pacchetti di voti” da mettere all’asta; da qui la somma mediocrità di assessori, portavoce, leader di corrente e di fazione, del tutto impermeabili a qualsiasi prospettiva strategica, di ampio respiro.
Dipendenza e subalternità come fattori necessari di un’ingiustificata condizione di privilegio, se possibile da trasmettere agli eredi, a discapito di qualsiasi possibilità di reale progresso e di riscatto storico dell’isola.
Il giochetto di ruolo tra centrodestra e centrosinistra, con la partita truccata delle elezioni a prova di alternativa reale e con l’assorbimento indolore dei finti disturbatori grillini, ha funzionato bene, fin qui, nonostante sia sempre meno legittimato. Ora, con l’avvento tanto atteso (e a lungo preparato, non prendiamoci in giro) del governissimo Draghi, l’ipocrisia e le menzogne più sfacciate diventano difficili da spacciare per verità.
L’opposizione in Consiglio regionale ne esce totalmente delegittimata, quand’anche qualcuno avesse davvero creduto al suo ruolo di contraltare politico ai sardo-leghisti. Questi ultimi ne escono come i più furbi e spregiudicati di tutti, facendosi beffe anche dei residuati renziani, in Sardegna pochi e insignificanti, che pure millantano di essere i veri vincitori della partita (come? dove?).
Resta il fatto che tante persone, specie (sedicenti) di sinistra, che hanno a lungo disprezzato qualsiasi possibilità di uscire da tale giochetto di ruolo, votando e facendo votare robaccia destrorsa e/o mediocre, oggi sono chiamate a riconoscere di aver sbagliato su tutta la linea o ad ammettere di essere parte interessata di quello stesso giochetto.
Da anni il mondo dell’indipendentismo e dell’autodeterminazionismo, persino quello più vago, ma esistente e decisivo, del cosiddetto non-dipendentismo, hanno capito che è necessario essere alternativi a tutto questo, per poter costruire una prospettiva di reale democrazia nell’isola. Ci sono – è vero – spezzoni dell’indipendentismo che invece persistono nel leggere la realtà solo dentro le solite cornici tatticiste ed “entriste”, sperando di diventare appetibili per le coalizioni più forti. Non so se sia più un’illusione in buona fede o un calcolo cinico, ma tant’è: andrebbero recuperate o tenute a distanza.
Per la Sardegna si prospettano anni duri, se non si mette insieme una proposta politica e sociale radicalmente oppositiva alla palude stantia e infetta alla quale si è ridotta la politica di Palazzo. Ma non basta ragionare sempre e solo in termini elettoralisti. Anzi, questo è un grave errore.
Non basta nemmeno ragionare in termini teorici e astratti. Vanno fatti i conti con la realtà concreta dei nostri problemi socio-economici, delle nostre magagne infrastrutturali, delle nostre debolezze culturali; ma anche con le nostre risorse, con la reti reali di relazioni, con le forme organizzative già in campo.
Dalla politica oggi rappresentata nelle istituzioni non possiamo né dobbiamo aspettarci nulla di positivo. Confido che sia chiaro a tutt*. L’azione del Governo Draghi, date le condizioni in cui si è formato e le forze che lo sostengono, non troverà in Sardegna alcuna opposizione. L’opposizione dovrà formarsi ed agire fuori dalle istituzioni, ma possibilmente non in forme spontaneiste e occasionali. L’impellenza, più volte segnalata, di un coordinamento e di un’azione congiunta che nasca dalle forze sociali reali e dalle lotte sul campo (e non sui social) diventa ancora più evidente.
In Catalogna non sono bastati anni di repressione e disinformazione, non è bastata nemmeno la pandemia, per indebolire il processo di autodeterminazione democratica. E laggiù non si perde certo tempo a cianciare di “unico partito degli indipendentisti” o altre amenità del genere. Ci sono contraddizioni, frizioni, compromessi, com’è inevitabile che sia in una realtà umana complessa. Ma esiste una forza di base, un’abitudine a mettere insieme le forze quando ci sono obiettivi comuni, ed esiste una rete di associazioni, comitati, forme di mobilitazione della cittadinanza e una robustezza culturale, che in Sardegna esistono solo in parte o solo in embrione.
Però esistono. Non siamo nella stessa situazione della Catalogna, certo, e le ragioni sono storicamente chiare. La Sardegna soffre di una condizione coloniale più marcata e di una subalternità culturale ancora forte. Le periodiche ondate di mobilitazione popolare, spesso di vera rivolta (quante se ne contano dal periodo rivoluzionario a oggi?), raramente hanno trovato una connessione efficace col piano propriamente politico, con un’intellighenzia organica a tali rivendicazioni emancipative, con qualche porzione meno gretta e parassitaria delle borghesia e dei ceti dirigenti.
Ma non si può negare che tali momenti ci siano stati, né che anche nell’isola esista la capacità di mettersi insieme, di agire collettivamente, di radunare le forze. Non si può nemmeno negare che sia esistita una riflessione teorica e storica sulla nostra condizione subalterna e qualche tentativo di darle uno sbocco politico. Magari soffriamo di scarsa memoria, questo sì. Tuttavia, non siamo all’anno zero.
Assumiamo dunque il dato politico che arriva dall’Italia senza stupore e senza fare drammi. Era chiaro da un pezzo che l’opposizione “tecnocrazia padronale vs. populismi reazionari” era solo una contrapposizione tra due destre, pronte all’occorrenza a mettersi d’accordo. Insieme alle fazioni liberali e/o socialdemocratiche di risulta, sempre comunque organiche alla deriva autoritaria e oligarchica.
Quel che rimane fuori dal quadro sono larghissime fette della popolazione, interi territori, porzioni di società senza rappresentanza e sempre più deprivate di diritti e possibilità di vita. Rimane fuori una strategia radicalmente diversa da quella dominante del consumo, dell’appropriazione rapace, della mercificazione di tutto, della repressione del dissenso. Rimane fuori la prospettiva politica basata sui beni comuni, sul contrasto del degrado ecologico, così come delle diseguaglianze sociali.
Tutto questo in sé ha una forza enorme da sprigionare. In Sardegna dobbiamo trovare una declinazione locale di questi processi, in connessione con ciò che succede altrove, con collegamenti e scambi di informazioni, con solidarietà e spirito realmente internazionalista, onde poter opporre una nostra forza collettiva ai tentativi di perpetuare e aggravare definitivamente la nostra condizione storica deficitaria.