Eredità ignorate: Manifesto politico di Sardegna possibile 2014

banner di un evento della campagna elettorale di SP2014

Uno dei motivi per cui in Sardegna è così difficile far nascere e crescere un percorso politico democratico realmente alternativo al pantano maleodorante della politica coloniale è la pessima o nulla memoria del passato recente.

Memoria sui fatti politici, memoria sulle dinamiche sociali e memoria specifica sulle esperienze del movimento per l’indipendenza, nelle sue varie incarnazioni. Ne consegue che ogni generazione politica di volta in volta deve ricostruire tutto da capo.

Il prossimo luglio cadranno i cinquant’anni dalla morte di Antoni Simon Mossa. In questi cinquant’anni il movimento per l’autodeterminazione della Sardegna ha prodotto una mole di teorizzazioni, forme di relazione, dibattiti interni, esperienze organizzative, partecipazioni elettorali che non si è mai sedimentata in un patrimonio condiviso, in una base teorica e pragmatica da cui partire, magari dialetticamente, per un aggiornamento dei percorsi e delle proposte.

È uno spreco assurdo. Quale che sia il giudizio sulle passate esperienze politiche in ambito indipendentista (anche inteso in senso ampio), non si può negare che sia un peccato non trarne lezioni, esempi, modelli, Liquidare tutto come un cumulo di errori fa torto alle tante acquisizioni conseguite così come alla nostra capacità di far tesoro di quelle esperienze. Se pure fosse davvero solo un cumulo di errori, sarebbe comunque il caso di conoscerne i dettagli e trarne qualche insegnamento.

In attesa di un necessario lavoro di ricerca e documentazione, possibilmente con la costituzione nel tempo di un vero archivio (compito a cui potrebbe dedicarsi l’Assemblea Natzionale Sarda), vorrei cominciare a offrire un contributo, sia pure parziale e per il poco che mi consentono le mie forze. Sto redigendo un memoriale sull’esperienza politico-elettorale di Sardegna Possibile 2014, a titolo di testimonianza e di riflessione su quel particolare momento della vita politica sarda. Non so cosa ne verrà fuori. Se sarà qualcosa di dignitoso, è possibile che a suo tempo lo pubblichi, in un modo o nell’altro.

Intanto, come antipasto e come elemento di ragionamento, anche per far uscire le discussioni sul tema dalle secche dei ricordi personali e delle infruttuose polemiche social, ripropongo il testo del Manifesto di Sardegna Possibile, così come era stato originariamente redatto.

Sardegna Possibile 2014 era una coalizione imperniata sul partito ProgReS, per chi non lo ricordasse. ProgReS, dopo una discussione e una votazione interna (primavera 2013), aveva accolto la proposta di candidatura alla presidenza della RAS di Michela Murgia. Tale candidatura, dopo un’ulteriore fase di sondaggio e di verifica, era stata ufficializzata nell’agosto di quello stesso anno.

Il Manifesto di SP2014 è un documento pochissimo considerato, persino quando si discute di quell’esperienza. Vi si possono rinvenire analisi, temi, obiettivi e indicazioni di metodo che possono essere serenamente presi in considerazione ancora oggi e per le prossime sfide politiche.

È inevitabile che non tutt* si riconosceranno in questo testo e nei suoi contenuti. Io stesso, che pure nel complesso continuo a trovarlo un documento valido, in qualche passaggio farei dei distinguo più sottili o correggerei alcuni termini. Tuttavia, in generale, sarebbe bello e utile cominciare finalmente a discutere di contenuti, appunto, e non restare imprigionati nei ricordi soggettivi, nei conflitti personali, nelle antipatie caratteriali, nelle inimicizie di clan. Imparare a condurre un sano dibattito politico, anche e soprattutto tra divers*, è una delle cose indispensabili da conseguire il più in fretta possibile.

Di seguito, il testo del Manifesto. Naturalmente è possibile fare osservazioni e discuterne già qui, nei commenti in calce al post, tenendo conto delle regole di comportamento che vigono in questo spazio. Buona lettura.

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Manifesto politico di Sardegna Possibile

Quadro della situazione e definizione del progetto

Sardegna Possibile è una aggregazione politica plurale, democratica e inclusiva che si pone l’obiettivo di proporre e rendere operativo un nuovo modello di governo per la Sardegna, nell’ottica di un profondo rinnovamento culturale, sociale, economico e amministrativo.

Prendendo atto del fallimento della politica di dipendenza e di subalternità che ha caratterizzato la nostra parabola storica in epoca contemporanea, compresa la recente stagione autonomista, riteniamo necessario innescare una inversione di tendenza nei processi in corso. Processi che altrimenti ci condurranno, nel giro di pochi decenni, a una situazione di sostanziale e difficilmente reversibile impoverimento demografico, economico e culturale.

Consideriamo chiusa la stagione della dipendenza e della passività politica, dell’affidamento a decisioni e scelte strategiche prese all’esterno e poi calate dall’alto, spesso in nome di interessi opachi e particolari, in spregio degli interessi strategici e diffusi dei sardi così come della nostra storia e della nostra cultura.

Il problema storico della Sardegna è che la sua classe dominante in epoca contemporanea non si è mai trasformata in una vera classe dirigente. Nei momenti decisivi (il periodo rivoluzionario sardo, conclusosi nel 1812; il primo dopoguerra col movimento dei reduci largamente maggioritario sull’isola; il secondo dopoguerra) le élite sarde hanno sempre scelto di farsi intermediarie tra la Sardegna e un centro di potere esterno, votandosi al controllo e alla gestione dello status quo, piuttosto che a governare l’isola in nome e per conto dei sardi e dei loro interessi strategici. Questo vale anche per la stagione autonomista. L’autonomia “regionale” ottenuta come concessione dallo stato italiano è stata semplicemente un antidoto contro ogni pulsione emancipativa scaturita dal corpo sociale sardo, più che uno strumento di progressiva acquisizione di autodeterminazione. In questo i partiti di ispirazione sardista e autonomista e ancor di più i partiti italiani in Sardegna sono andati di comune accordo, ben al di là delle loro reciproche differenze politiche (per lo più dichiarate, ma concretamente labili).

La Sardegna è una terra centrale nella storia e nella geografia di questa parte di pianeta. È da sempre inserita nei flussi della civilizzazione europea e mediterranea e vi ha a più riprese contribuito in termini originali. Ha accumulato una profonda stratificazione storico-culturale e in base a questa ha sempre filtrato e reinterpretato tutti gli apporti esterni, com’è normale in una terra dalla popolazione stabile per molti millenni e dai confini geografici da sempre chiaramente definiti. La Sardegna non è mai stata una terra “fuori dalla Storia” o priva di Storia, tutt’altro. Questa però è una ricchezza che mai è stata riconosciuta e adeguatamente valorizzata dalla politica proconsolare che ci ha governato fin qui, con le conseguenze di indebolimento culturale, sociale ed anche economico che sono sotto gli occhi di tutti.

La Sardegna è una terra ricca di risorse materiali e immateriali. Ciò è stato a lungo negato, preferendo dipingerla come una terra povera e sempre arretrata, bisognosa al più di sostegno e tutela. Questo storicamente è falso ed anche attualmente è contraddetto dalla varietà di talenti creativi che l’isola produce continuamente, in ogni settore, nonché dalla facilità con cui, in tutta l’epoca contemporanea, agenti economici esterni si sono arricchiti con le nostre risorse, grazie alla complicità della nostra classe politica e della nostra classe intellettuale (con poche eccezioni).

Ciò ha prodotto una assuefazione alla dipendenza, sia individuale sia collettiva. Ha fatto prevalere come regola la richiesta di favori laddove c’era da pretendere diritti (sia individuali, sia collettivi). Ha inculcato una mitologia identitaria subalterna e deresponsabilizzante al posto del senso di appartenenza e della coesione sociale e culturale. Ha consentito l’impoverimento artificioso della popolazione, la svendita e il saccheggio delle nostre risorse naturali, l’asservimento a forme di speculazione e di servitù in ogni settore, tanto mortificanti moralmente, quanto devastanti dal punto di vista economico e ambientale.

La Sardegna ha bisogno di buona politica, di buona amministrazione e di buone pratiche economiche, sociali e culturali diffuse. Ha bisogno di crescere in istruzione e in disponibilità di competenze e strumenti critici. Ha bisogno di creare un sistema economico efficiente, a partire dai settori strategici (agricoltura e settore agroalimentare, trasformazione delle nostre stesse materie prime, terziario avanzato, turismo, rapporti commerciali con tutte le sponde del Mediterraneo, produzione energetica da fonti rinnovabili). Ha bisogno di innescare processi di interrelazione virtuosa con l’esterno.

Riteniamo che la Sardegna abbia tutte le risorse e le forze sociali e culturali necessarie per consentire a tutti i suoi abitanti e a chiunque voglia farne la propria casa di accedere a un livello di vita decoroso e dignitoso, inserito in un sistema di relazioni interno ed esterno proficuo e dinamico.

Le possibilità di riuscire a produrre questo cambiamento esistono. Serve un progetto politico che non sia calato dall’alto ma che nasca dal territorio e dalla prima delle risorse di cui disponiamo: noi sardi. Sardegna Possibile vuole incarnare questa necessità storica.

Valori e temi di riferimento

Democrazia Il concetto di democrazia, in epoca contemporanea, nel mondo occidentale, è stato largamente svuotato di contenuto, sulla base di teorizzazioni pseudoscientifiche di comodo (il liberismo economico assoluto, la ”fine della Storia”). In realtà la democrazia rimane un metodo e una logica dalla quale è estremamente rischioso prescindere. Sardegna Possibile si propone di riempire di contenuto una formula che in Sardegna è stata quasi sempre del tutto priva di significato concreto, restituendo alla nostra collettività la possibilità di partecipare liberamente alle decisioni che la riguardano, non solo eleggendo i propri rappresentanti e i propri governanti, a ogni livello, ma anche controllandone e chiedendo conto dell’operato, accedendo tempestivamente a ogni tipo di informazione di interesse pubblico, usufruendo di ogni possibile strumento di comunicazione e di relazione. Una democrazia praticata e diffusa, insomma, non una semplice formula retorica buona per nascondere pratiche di stampo feudale, dipendenze inconfessabili e bieco affarismo clientelare.

Eguaglianza In una società fortemente polarizzata dove la grande ricchezza prodotta appartiene a una fascia ristretta della popolazione è essenziale ribaltare tale processo e riportare al centro della scena la questione dell’eguaglianza, non solo in senso formale, ma anche sostanziale. Ogni cittadino deve essere messo in grado di accedere a un livello di esistenza dignitoso, con pari opportunità rispetto a chiunque altro, a prescindere da estrazione sociale, genere, qualità personali, provenienza, ecc. È ampiamente dimostrato che l’equità e la mobilità sociale sono una garanzia di maggiore capacità di reazione alle crisi. Tutto ciò che in tale ambito può essere realizzato dentro l’ordinamento giuridico vigente (autonomia regionale) deve essere attuato, in ogni ambito di intervento e con tutti gli strumenti disponibili.

Diritti civili In Sardegna si è assistito troppo a lungo a una mortificante limitazione di diritti che tendiamo a dare per acquisiti. Diritto all’istruzione fino ai gradi più alti, diritto alla mobilità, diritto al libero esercizio della propria professione, diritto di accesso ai beni comuni, ecc. Forme pervasive di servitù (militari, industriali, turistiche) e pratiche clientelari e nepotistiche (col loro strascico di inefficienza, sprechi e mancata valorizzazione dei talenti) frustrano da tempo le possibilità concrete di uno sviluppo equilibrato e fecondo delle nostre potenzialità. Tale discorso deve riguardare non solo le scelte legislative e i rapporti tra istituzioni e cittadini, ma anche le agenzie formative, i mass media e tutte le formazioni sociali. Devono essere attuate misure di incentivazione ad una apertura maggiore della nostra collettività in termini culturali e sociali, senza alcuna esclusione discriminatoria. La garanzia dei diritti civili è anche un potente motore economico. Dentro tale ambito ha un grande rilievo la questione linguistica sarda e il diritto, fin qui cancellato o estremamente limitato, di usare in ogni contesto e in ogni sede le lingue storiche di Sardegna, a cominciare dalla lingua sarda, almeno con lo stesso grado di ufficialità e la stessa dignità dell’italiano già dentro l’ordinamento vigente.

Beni comuni In un mondo che conosce una crisi epocale è fondamentale ripartire da un nuovo approccio con i beni comuni, quei beni che per la loro natura e rilevanza generalizzata non si prestano ad essere sottoposti alla logica del capitale e del profitto privato. Acqua, aria, suolo fertile, paesaggio, energia, patrimonio storico-archeologico-artistico, patrimonio culturale e linguistico, istruzione, infrastrutture, salute, diritto alla mobilità, libertà di comunicazione, ecc. sono ambiti in cui l’accesso e l’utilizzo deve essere garantito a prescindere da ragioni meramente contabili o finanziarie. Il che non esclude il ruolo dell’impresa privata (beni comuni non equivale a “beni pubblici”, ossia di proprietà e/o gestione di enti pubblici), ma la sottopone a un regime di interessi e di obiettivi più ampio e rivolto a soddisfare necessità basilari e/o strategiche dell’intera comunità di riferimento.

Coesione sociale Uno dei problemi fondamentali della Sardegna è la scarsa coesione interna della nostra collettività a un livello sovralocale. Alla dialettica interna fisiologica di qualsiasi comunità umana complessa, in Sardegna si è sostituito nel tempo un modello di relazione patogeno, basato sulla chiusura dell’orizzonte di riferimento e sulla diffusione del rapporto di dipendenza sia in termini collettivi sia individuali e familiari, senza alcun collegamento con una sfera più ampia in cui riconoscersi. Tale problema, come dimostrano tutti gli studi internazionali in proposito, ha gravi conseguenze a livello socio-economico e politico. Il recupero di un senso di appartenenza alla nostra collettività storica nel suo insieme (i sardi, la Sardegna), l’apertura del nostro orizzonte al di là dei confini domestici, o del vicinato o della parentela o della propria comunità locale, è un passo decisivo per fare in modo che la dialettica interna della nostra società possa dispiegarsi in modo sano e fecondo.

Responsabilità Tutti i sardi sono chiamati a una assunzione di responsabilità. Davanti a noi stessi e davanti al mondo. La fase storica che stiamo vivendo lo richiede, così come è già successo in altri momenti della nostra lunghissima vicenda collettiva. L’assunzione di responsabilità e la diffusione dell’etica della responsabilità sono il motore del cambiamento che è necessario innescare. Non più aspettative di tutela o sostegno dall’alto e dall’esterno, ma riappropriazione delle scelte e delle risorse. Non più ricerca di capri espiatori estranei o di pretesti identitari (le nostre presunte tare congenite: divisione, invidia, incapacità di collaborare o di fare impresa, ecc.) ma piena e consapevole assunzione in carico della nostra sorte collettiva. A tutti i livelli.

Relazioni Il tessuto di relazioni economiche, culturali e umane della Sardegna è stato lacerato dai maldestri o più spesso interessati tentativi di modernizzazione forzosa degli ultimi duecento anni. È invece indispensabile ricucirlo in modo che possa essere il fondamento di nuovi paradigmi economici e sociali. Il principio della rete non è affatto estraneo alla nostra storia, tutt’altro. Deve solo essere ripreso e reso sistemico, come si sta già cominciando a fare in diversi ambiti, con il supporto di una adeguata pianificazione politica.

Autodeterminazione La possibilità concreta di assumere noi direttamente le decisioni che riguardano le nostre vite e la sfera dei nostri interessi collettivi e delle nostre necessità strutturali deve essere perseguita e resa praticabile già dentro l’ordinamento vigente, a partire da una riappropriazione materiale, giuridica e simbolica della nostra storia e degli elementi portanti della nostra vita associata (istruzione e università, trasporti, beni culturali, ecc.). All’autodeterminazione attengono sia profili culturali sia profili pratici sia profili giuridici. Devono essere affrontati tutti, fino all’estremo limite consentito dall’ordinamento vigente, senza alcuna paura di entrare in conflitto con lo stato centrale, quando siano in gioco i nostri diritti e i nostri interessi vitali. Al diritto all’autodeterminazione attiene anche la possibilità di intessere relazioni con l’esterno non mediate da strutture e/o interessi estranei, così come la presenza nelle istituzioni europee, elemento decisivo per il nostro sviluppo materiale e culturale.

Metodo e obiettivi a breve, medio e lungo termine

Metodo e prassi

Il metodo di lavoro di Sardegna Possibile si basa sulla partecipazione attiva, sul confronto aperto e sulla condivisione di saperi e idee. Tutto ciò che viene prodotto per e nel progetto comune appartiene al progetto comune nel suo insieme.

In ogni settore in cui sia obiettivamente problematico progettare soluzioni condivise (per la polarizzazione delle posizioni contrapposte, per la delicatezza del tema, per la natura di “bene comune” della risorsa coinvolta o per qualsiasi altro motivo pragmatico e/o politico) saranno attivati processi partecipativi.

Uno dei fondamenti etici e pragmatici di Sardegna Possibile è l’esaltazione delle competenze disponibili e la valorizzazione dell’intelligenza collettiva, questo tanto all’interno del progetto, quanto nelle sedi istituzionali e amministrative dove eletti o esponenti di Sardegna Possibile si troveranno ad operare.

La lealtà e la disponibilità dei singoli partecipanti vanno rivolte al progetto nel suo insieme e agli obiettivi concordati, non a singole persone né a obiettivi ulteriori ed esterni.

Sardegna Possibile esclude dal suo orizzonte pragmatico e teorico e contrasterà con la propria azione politica in ogni sede: la discriminazione etnica, culturale, sociale, di genere; le pratiche clientelari e nepotistiche; l’uso della violenza come strumento di repressione o di imposizione politica.

Obiettivi generali

– Giustizia sociale (trasparenza nei rapporti lavorativi, giusta e adeguata remunerazione del lavoro, possibilità di mobilità sociale, imposizione fiscale progressiva, rimozione delle clientele, del nepotismo e dei favoritismi ad ogni livello);

– equilibrio tra economia, risorse e territorio (anche nel senso della tutela della salubrità di aria, acqua e suolo, nonché delle peculiarità socio-economiche locali);

– creazione delle condizioni, specie burocratiche, per il libero ed efficace esercizio dell’impresa privata;

– amministrazione pubblica democratica, trasparente, rigorosa e improntata alla costante verifica dei risultati;

– tutela e valorizzazione dei beni comuni (materiali e immateriali: istruzione, infrastrutture strategiche, acqua, patrimonio storico-archeologico-artistico, patrimonio linguistico, libertà anche concreta di accesso ai gradi massimi di istruzione, accesso libero e diffuso a tutte le forme di cultura e di creatività, mobilità, accesso ai mezzi di comunicazione e informazione, ecc.) con prevalenza dei diritti e delle necessità generali sul profitto privato (che deve tornare strumentale a una efficace allocazione delle risorse scarse, non più fine ultimo e principale del sistema socio-economico);

– riconoscimento e risoluzione della questione di genere, anche con interventi legislativi appropriati, oltre che con misure di intervento sociale e culturale;

– riconoscimento dei diritti delle minoranze intese in ogni accezione possibile e rimozione degli ostacoli alla compiuta realizzazione della personalità di ciascun cittadino;

– riconoscimento e risoluzione della questione linguistica sarda, con l’applicazione di tutte le misure necessarie al recupero del sardo a un livello di normalità d’uso e fruizione su tutti i media e in ogni contesto e sede, nonché con la valorizzazione e la promozione del patrimonio linguistico storico dell’isola in tutte le sue espressioni (quindi, tutela e valorizzazione del gallurese-sassarese, del catalano di Alghero e del tabarchino di Carloforte e Calasetta); il tutto su una base teorica non essenzialista e/o nazionalista ma al passo con le acquisizioni contemporanee e con gli esiti della ricerca socio-linguistica del 2006, e con un orientamento politico democratico, inclusivo e il più possibile partecipativo;

– riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei sardi, così come sancito dal diritto internazionale e in particolare dalle carte dell’ONU (1945-48);

– democratizzazione e uscita dalla condizione post-coloniale e minorizzata della società sarda nel suo complesso e nelle sue strutture portanti.

2 Comments

  1. Il manifesto è di per se perfetto, forse andrebbe un minimo aggiornato e rinfrescato, ma al 90% è ok.
    Potenzialmente ProgReS rimane il partito perfetto e il manifesto ne è lo specchio. Poi però c’è la realtà e la realtà parla di paletti messi da chi quel manifesto doveva attuarlo (“non restare imprigionati nei ricordi soggettivi, nei conflitti personali, nelle antipatie caratteriali, nelle inimicizie di clan.”) e conseguenti immobilismi immotivati. Nonostante ciò il partito non ha lesinato “spiegoni” e si è spesso adagiato sul pulpito di chi ha capito tutto e sa tutto, di chi ti fa la lezioncina senza però mettersi in gioco…

    Risultato: dal 2014 tanti tanti tanti anni persi.

    1. Non è questa la sede per discutere della sorte di ProgReS, sia perché non è l’oggetto del post, sia perché io non ne faccio più parte da anni e dunque non saprei nemmeno cosa rispondere.

      Il settarismo e la vocazione a presentarsi come gli illuminati che devono risvegliare le coscienze “della nazione” sono purtroppo limiti diffusi nell’intero movimento indipendentista, specie di quello del primo XXI secolo. Ho sentito con le mie orecchie qualche compagno di militanza sostenere che facevamo un favore ad accogliere come alleate persone provenienti da altri percorsi politici, perché così avremmo potuto far fare loro un salto di qualità. E magari si trattava di persone con decenni di impegno politico alle spalle e una preparazione teorica sopra la media. La tentazione della separatezza, della definizione e del presidio ossessivo del confine tra un “noi indipendentisti” e “gli altri” (tutti uguali, sembrerebbe), è un problema molto serio.

      Quanto agli anni persi, non sono d’accordo. Niente è perso, se riusciamo a farne tesoro. E d’altra parte in questi ultimi sei sette anni nessuno si è fermato. È entrata in crisi la forma-partito, come principale modello organizzativo. Ma questo non è un problema dell’indipendentismo sardo in particolare. Abbiamo visto che si riesce a organizzarsi e a mobilitare anche migliaia di persone prescindendo da quel modello organizzativo. È una lezione che non abbiamo ancora imparato bene ma su cui vale la pena di riflettere anche in termini pragmatici.

      Poi c’è l’altro problema, quello delle tentazioni egemoniche e del solipsismo egotico, spesso legato a leadership granitiche e non discutibili. Facciamo da soli e cerchiamo di ricavare tutti i vantaggi possibili per noi, e gli altri che si arrangino. Male male, direi. Bisogna trovare il modo di confrontarsi e anzi di tenere un canale di comunicazione e confronto sempre aperto, magari anche forme di coordinamento, nel rispetto delle diversità, senza gerarchie e tentativi di porsi alla guida di tutto il movimento. È un problema gravoso anche perché spesso comporta che si cerchino sponde improbabili nei centri di potere più robusti, quelli che sembrano promettere un facile accesso alle istituzioni, tramite forme più o meno velate di cooptazione o di compromesso al ribasso. Bisogna stare attenti a questo genere di tentazioni. Un conto è riuscire a portare fette consistenti di militanza di base e di società civile su un terreno di valori e obiettivi condivisi, sulla strada della democratizzazione effettiva della Sardegna; un altro conto è cedere alla tentazione di infilarci noi dentro il gioco dei pacchetti di voti, delle clientele mobilitate all’occorrenza, delle relazioni opache, dei trasformismi. Sono due opzioni diverse e direi opposte. Va fatto un bel distinguo.

      Per finire, non dimentichiamo il vuoto di preparazione teorica di troppa parte del movimento indipendentista e autodeterminazionista. Un vuoto che dipende appunto anche dalla mancata sedimentazione di una memoria del passato, anche recente. E dalla mancanza di formazione politica tout court. Da lì le scempiaggini che si sentono a proposito di concetti anche basilari, come la distinzione tra destra e sinistra, la confusione su liberalismo, socialismo, nazionalismo, autoritarismo, europeismo, e via elencando; in un minestrone indigesto di equivoci e nefandezze terminologiche. Sia chiaro, questa è anche una dolorosa autocritica. Del resto, le varie leadership per loro natura hanno sempre prediletto imporre cornici semplificate, slogan, concetti poveri ma facilmente maneggiabili, ponendosi come depositarie dell’ortodossia, senza alcun interesse per la reale emancipazione intellettuale e pragmatica degli attivisti e delle attiviste. Anche in questo senso farebbe bene all’indipendentismo, organizzato o no che sia, avere contatti e contaminazioni con altre esperienze di militanza, come quella femminista (specie intersezionalista) e del movimento LGBTQ+ (per dire).

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