In tempi di slogan a base di spread, default e debito sovrano è facile perdere di vista la realtà. Ottenebrati dalla neo-lingua, continuiamo a scambiare per scienza un apparato di credenze mistiche fondate sulla fede che vi si ripone: libero mercato, crescita, politiche monetarie, pareggio di bilancio, homo oeconomicus, mano invisibile, keynesismo (neo- o post- ) e via elencando. Tutti feticci a cui sacrificare la vita degli esseri umani e il mondo stesso. D’altronde non sarebbe la prima volta. Di queste sciocchezze è piena la storia umana. Di solito va a finire in qualche tragedia epocale e nulla lascia pensare che questa volta saremo esentati dall’ennesima catastrofe.
La storia ragiona sui grandi numeri. Smentisce categoricamente la pretesa, cristiana da un lato e capitalista dall’altro, che l’individuo in sé abbia un qualche valore intrinseco e conti qualche cosa nel disegno generale dell’universo. Così, il mondo non avrà nulla da ridire se – con la nostra complicità – di qui a poche generazioni ci estingueremo come specie.
Il problema, però, si pone. Si pone proprio nei termini in cui si può evocare la nostra complicità. Ossia la nostra responsabilità nel non saper vivere su questo pianeta e – peggio ancora – nel non garantire a chi ci seguirà delle condizioni almeno accettabili su cui fondare il proprio modello esistenziale. Il vero debito che abbiamo contratto, infatti non è quello col Fondo Monetario Internazionale, con la BCE o con i grandi speculatori finanziari, bensì è quello – ben più drammatico – verso i nostri figli e nipoti.
Se fossimo veramente degli esseri razionali, prenderemmo subito in considerazione la condizione storica dei bambini e dei giovani, attuale e in prospettiva, e ne faremmo una delle priorità delle nostre valutazioni, delle nostre scelte. Invece, in modo cinico e contro-evolutivo, stiamo creando i presupposti per cui chi ha oggi pochi anni d’età o sta per venire al mondo ha aspettative decrescenti in fatto di possibilità di vita e si troverà in futuro a barcamenarsi con difficoltà materiali che solo poco tempo fa sembravano definitivamente superate. Una pia illusione, anche questa, dal sapore chiaramente irrazionale e superstizioso.
Se prestiamo attenzione a questo livello del discorso, appaiono decisamente povere e deprecabili le contorsioni retoriche e le scelte politiche di chi oggi ha la responsabilità di decidere per noi. A livello italiano fa letteralmente venire i brividi il recente annuncio del ministro dell’istruzione a proposito di scuola. Una follia classista e sicuramente deprivante per l’intera collettività cui si riferisce, foriera di guasti epocali e di drammi umani assortiti. Eppure, presentata con nonchalance, come una ipotesi tutto sommato plausibile e legittima.
Se il livello della politica italiana ci sembra particolarmente basso, purtroppo non possiamo consolarci con la politica che agisce ad un livello più vicino a noi. La politica sarda, in questo periodo come poche altre volte nella nostra storia, è pericolosamente inadeguata alle circostanze. Accompagnata in questa inadeguatezza patogena dalla complicità del sistema universitario e dei mass media. Cose su cui ci siamo già soffermati e che qui serve giusto richiamare.
Ma a proposito di scuola, non si possono non rimarcare, con tutto l’allarme che meritano, le conseguenze che le scelte del governo italiano e le parallele non scelte della politica sarda sulla scuola hanno e avranno per la Sardegna. La Sardegna ha una situazione scolastica a dir poco scandalosa. Lo attestano chiaramente tutte le statistiche disponibili. Non solo, ha anche una evidente lacuna in fatto di tasso di laureati, nonché di perdita netta di giovani (per scarsa natalità ed emigrazione). Il tutto in una situazione di degrado materiale, economico, ambientale e culturale accentuato.
Non risulta che questo tema, a partire dalla scuola, sia in cima all’agenda politica e mediatica sarda. Eppure è uno dei pilastri della nostra sopravvivenza come collettività storica. Al di là dei disastri presenti, infatti, è necessario predisporre delle soluzioni che vadano oltre il tampone momentaneo, la cura palliativa. Servono misure di carattere strutturale, a largo respiro, proiettate nel futuro. Investire sulla scuola, e sulla scuola pubblica, democratica, non vincolata al mercato o alla formazione di semplici esecutori di mansioni, è un obiettivo fondamentale.
La Sardegna non è sovrana, su questa materia, come su molte altre. È un problema, è vero. Eppure già oggi si potrebbero mettere in campo idee e soluzioni per cominciare a modificare il quadro generale e la tendenza statistica. Con l’obiettivo strategico di appropriarci il prima possibile del controllo assoluto del comparto scolastico e universitario. Qui, come su altre questioni, è ormai evidente l’incompatibilità strutturale della nostra condizione “regionale” con qualsiasi nostra legittima aspettativa di sviluppo umano, di benessere diffuso e di libertà sostanziale.
Non è ammissibile accettare a cuor leggero che la situazione dell’istruzione in Sardegna si sia fermata al primo stadio a cui ci aveva condotto la scolarizzazione di massa del secondo dopo guerra e che anzi le statistiche mostrino segni di arretramento. Corriamo il rischio di perdere qualsiasi contatto con la realtà, se non dotiamo le giovani generazioni degli strumenti critici adeguati alla complessità del mondo. Siamo già abbastanza deprivati da un sistema informativo strumentale alla nostra soggezione. È criminale accettare anche lo smantellamento della scuola.
Dobbiamo onorare il debito che abbiamo contratto con chi ci seguirà su questo mondo. Ed è doppiamente doveroso in Sardegna, dove non c’è altra speranza di sopravvivenza che quella di assumerci la piena responsabilità di noi stessi in tempi storicamente brevi. Se in questa responsabilità non sono contemplati i nostri figli, possiamo ben dire che il nostro passaggio su questo mondo non abbia avuto alcun senso.