Non è mai troppo tardi per scoprire l’acqua calda

Nella legge finanziaria che il consiglio regionale ha licenziato pochi giorni fa, tra le tante mancanze, una dovrebbe saltare agli occhi, se non fosse così poco significativa per i più. Ancora una volta si sacrifica il settore culturale. Lasciamo perdere gli spiccioli racattati all’ultimo per evitare la chiusura delle biblioteche (tra cui mi piace ricordare la biblioteca S. Satta di Nuoro). Si è trattato di evitare sul filo di lana una tristissima figura che si sarebbe ritorta contro la giunta Cappellacci e l’intero consiglio regionale, già messi male quanto a popolarità.

In generale invece ancora una volta si denota una totale assenza di sensibilità e di consapevolezza verso una questione che sta assumendo i contorni della truffa, più che della stupidità politica.

In tante circostanze, alla conclusione di discorsi storici o politici, con interlocutori diversi, sorge sempre ad un certo punto la fatidica domanda sulle reali possibilità che la Sardegna non sia condannata a un destino di povertà, marginalità e spopolamento. Il dubbio che attanaglia tanti di noi riguarda la consistenza effettiva delle nostre risorse economiche, oltre che sociali e politiche. A pochi però viene in mente di considerare tra le nostre risorse, anche in termini economici, il nostro patrimonio culturale, inteso nel senso più largo possibile.

Non dipende solo dall’aver interiorizzato il concetto così bene espresso da un ex ministro italiano secondo cui la cultura non si mangia. In noi c’è un fattore aggravante: la profonda e radicale ignoranza di quanto possediamo e del suo valore.

Proprio oggi sulla Nuova si parla dello scarsissimo apporto alla ricchezza collettiva dato dal settore culturale in Sardegna. Se ne parla in termini critici, adombrando i motivi strutturali di tale carenza. Un dato che colpisce è quello relativo ai monumenti. Pare che il sito più visitato sia il compendio garibaldino di Caprera. In altre parole, il luogo di maggiore attrazione culturale in Sardegna è una sorta di non-luogo, in nulla appartenente all’Isola, alla sua storia, alla sua stratificazione culturale millenaria. C’è di che farsi molte domande.

È inutile stare a trastullarsi con i soliti luoghi comuni a proposito della nosta atavica inerzia, della nostra imbecillità congenita, della nostra disunione. Il problema è eminentemente politico e a livello politico va affrontato. Il che significa mettere la “vertenza” culturale sarda in cima alle priorità. Ossia fare esattamente l’opposto di quel che si sta facendo.

La classe dominante sarda, a parte ricorrere ai travestimenti etnici, giusto per cavalcare la moda del momento, non ha nessun interesse reale alla questione. Non lo ha per ignoranza assoluta e non lo ha per l’istinto di conservazione che consente a tanti mediocri di dettare legge nella nostra terra. Dare spazio al nostro patrimonio culturale, storico, archeologico, linguistico, artistico, musicale, ecc. potrebbe generare delle aspettative, smuovere delle intelligenze che si preferisce rimangano sopite. Lo disse molto lucidamente un sottosegretario (o cos’altro era) del ministero dei beni culturali italiano, qualche tempo fa, a proposito dei Giganti di Mont’e Prama: i sardi non devono sapere cosa possiedono, altrimenti potrebbero montarsi la testa. Con esiti politici incontrollabili.

Per questo parlo di truffa. Non è affatto una questione campanilistica (come troppo spesso diventa nelle chiacchiere politiche e sui mass media), e nemmeno il tentativo di autoesaltarsi in risposta alla depressione diffusa e generalizzata. È invece un crimine deliberato, voluto.

Immaginiamo di essere una terra bella e dotata di varie attrattive naturali (al netto delle schifezze militari e industriali), con un patrimonio archeologico unico al mondo, una produzione culturale di dimensioni e di qualità internazionale, una produzione agroalimentare propria. Non è difficile, perché tutto questo lo abbiamo già. Allora immaginiamo anche per un attimo di avere infrastrutture funzionali, servizi di accoglienza adeguati, di avere università e centri di ricerca aperti agli studosi di tutto il mondo. Immaginiamo infine di mettere tutto ciò in rete e di presentarci con tutto questo patrimonio ai visitatori di ogni angolo dell’orbe terracqueo. Lasciamo perdere che oggi come oggi tutto ciò manca. L’idea è: ci consentirebbe tutto ciò di produrre economia, nonché sviluppo culturale e civile a lungo termine?

La domanda è retorica. La risposta è ovviamente affermativa. Se diamo un’occhiata alla questione così impostata salta subito allo sguardo il fatto che non è tanto la base materiale a mancarci, ma la pianificazione e la volontà politica.

Intanto bisognerebbe finalmente capire che ciò che possediamo di più nostro non ci isola dal resto del mondo ma anzi ci spalanca le porte dappertutto e a tutti i livelli. Di questi giorni è la notizia che il governo italiano non ha affatto ratificato la Carta europea delle minoranze linguistiche, come con la solita faciloneria i nostri mass media avevano detto. Be’, molti in Sardegna ne hanno gioito: già avevano il terrore di vedere il sardo e le altre lingue della Sardegna entrare nelle scuole e nelle università dalla porta principale, per giunta col crisma dell’UE ad accompagnarli.

Eppure è dimostrato che il plurilinguismo è una risorsa gigantesca, sia in termini di ricchezza culturale, sia in termini di possibilità didattiche e di crescita delle intelligenze, sia in termini economici. La peculiarità e la riconoscibilità sono un tratto che aggiunge valore a qualsiasi produzione materiale e immateriale e ne aumenta il tornaconto economico. Per noi invece avere più lingue sembra una zavorra insostenibile, da mollare al più presto. Tra l’altro in favore di un monolinguismo idiota, totalmente autoreferenziale e fondato sul linguaggio televisivo.

Pensiamo alla nostra archeologia. Mi chiedo perché un viaggiatore preferisca andare a vedere la casa dell’esilio di Garibaldi piuttosto che una delle nostre aree archeologiche o uno dei nostri musei. Ma anche questa è una domanda retorica. Le nostre aree archeologiche sono pressoché abbandonate, poco segnalate, anche dove siano gestite spesso sono gestite al ribasso, con criteri demenziali. E non esiste alcun piano generale di gestione e fruizione del nostro patrimonio storico. I sardi sono i primi a ignorarne la grandezza e la bellezza, salvo rimanere incantati a bocca aperta quando il furbacchione di turno scrive un libro sull’origine aliena dei nuraghi.

Non abbiamo idea di cosa sia stata la civiltà giudicale. Non sappiamo neanche che in Sardegna esistono decine di castelli, chiese, villaggi risalenti a quell’epoca così viva e originale. Sembra che da noi sia tutto o pisano o aragonese.

Non vorrei nemmeno aprire la questione dei musei sardi. Si sta ancora litigando sulla futura collocazione dei Giganti di Mont’e Prama, che oramai hanno avuto la meglio con la loro poderosa forza figurativa sulle necessità di sopire e celare che li ha tenuti per decenni fuori dallo sguardo indiscreto del mondo. Sicuramente – visti i chiari di luna – riusciremo a farne l’uso peggiore possibile. Immagino solo cosa ne sarebbe stato se un ritrovamento del genere fosse avvenuto in un posto che non fosse la Sardegna (e non ci fosse lo zampino decisivo dello stato italiano). Non ci vuole molto a immaginarselo, basta pensare a cosa abbiano fatto in Sud Tirolo, a Bolzano, con la “mummia del Similaun”, il vecchio Oetsi (con cui siamo pure parenti, vedi il caso alle volte…).

Potremmo andare avanti così molto a lungo, toccando tutti gli ambiti della nostra cultura (arte, musica, letteratura, teatro, grafica) ma la sostanza non cambierebbe. Non abbiamo una prospettiva nostra, su tutto questo, né la politica sembra interessata a farne un potente volano di crescita civile e di benessere economico. La politica, i sindacati e i mass media continuano a propinarci un modello economico morto: industria mortifera, cementificazione delle coste, turismo stagionale in mano a società e capitali esterni, agricoltura assoggettata ai clientelismi e ai contributi a vanvera.

Eppure non è la potenzialità concreta per cambiare modello che ci manca, né sono le risorse. Questo è importante capirlo. Sono la consapevolezza diffusa di quanto siamo ricchi e la conseguente volontà politica di mettere a frutto questa condizione privilegiata a latitare dolosamente.

Pensiamoci, quando sentiamo uno o l’altro dei nostri rappresentanti – a Cagliari come a Roma – dichiarare che siamo poveri, sfortunati e bisognosi dell’aiuto del governo italiano. Pensiamoci quando alla richiesta di fare qualcosa risponderanno “non possiamo farci nulla”. E riflettiamo anche sulla necessità di far partire dal basso – come sta già succedendo – iniziative virtuose che colleghino e mettano a frutto l’enorme e variegata risorsa del nostro patrimonio culturale. Lì c’è il nostro petrolio, il nostro oro, la nostra industria più importante. E c’è anche il nostro futuro possibile di popolo libero.