L’inevitabile conflitto tra Sardegna e Italia e il tradimento dell’intellighenzia sarda

C’è una verità di fondo, nel dibattito politico e culturale sardo, che è costantemente rimossa o trattata come un accidente momentaneo o un punto di vista parziale: il conflitto profondo e ineludibile tra la Sardegna e lo Stato italiano. Conflitto su più livelli, percepito epidermicamente da chiunque, ma mai analizzato compiutamente e tanto meno affrontato dalla nostra classe dirigente.

I sintomi e gli effetti di questo conflitto profondo sono molti. La cronaca quotidiana ce li mostra di continuo, ma le nostre reazioni sono troppo condizionate da pregiudizi, traumi culturali profondi e fraintendimenti.

Il problema assume connotati molto diversi e anche per questo è difficile da riconoscere. Per discuterne, partirei da pochi fatti recenti, provando a leggerli alla luce dell’assunto iniziale ed evidenziandone un tratto peculiare.

Durante l’ultimo carnevale, è esplosa una discussione a tratti molto polemica a proposito di una sfilata in maschera a Ovodda. Animalisti e difensori delle “tradizioni” si sono scontrati sui social, nel solito modo scomposto e sterile alimentato dai meccanismi di quei media.

L’attivista animalista (così definito sui media) che aveva sollevato la questione, invocando addirittura l’intervento di prefetto e questore e appellandosi al Parlamento, ha avuto i suoi quindici minuti di visibilità e penso che il suo scopo lo abbia raggiunto. Le risposte che ha ricevuto non sono tutte condivisibili, ma anche questo fa parte del grande gioco dei social media: non possiamo farci nulla.

Il dato più rilevante, tuttavia, almeno a mio avviso, è la subitanea reazione di molte persone sarde, pronte a prendere le distanze dalla “barbarie” ostentata nell’occasione carnascialesca barbaricina, sentendosi chiamate in causa nonché tenute a scusarsi per il solo fatto di essere appunto sarde. Perché?

Ne dà conto, in modo sintetico ma esauriente, Sara Corona, in un suo recente articolo, a cui rimando. Anche lì il tema è lo sguardo esterno, del civile padrone “bianco”, interiorizzato dai subalterni. Specialmente dai gruppi sociali che intendono affrancarsi da tale condizione di inferiorità integrandosi nella cultura dominante.

Più di recente, l’assalto armato a un portavalori in Toscana, attribuito a una banda di sardi, ha rinfocolato la discussione sul famoso “istinto predatorio” (cit.) della nostra balorda genia, questa volta manifestatosi oltre Tirreno, quindi tanto più esecrabile.

Ci ha marciato soprattutto la stampa sarda, in particolare il quotidiano La Nuova, che ha visto bene di rincarare la dose rilanciando il parere in merito (richiesto da chi?) dello scrittore Roberto Saviano.

In un virgolettato sparato in prima pagina si poteva leggere la frase: “I sardi producono criminali, non mafia”. In un video esplicativo, postato su FB, lo stesso Saviano, in replica alle tante obiezioni ricevute, ribadisce che “la Sardegna gronda criminalità”.

Anche in questo caso, al di là del merito della questione e del meccanismo infernale dei social, cavalcato dai media cosiddetti tradizionali (ormai questa distinzione è piuttosto obsoleta), rileva soprattutto la reazione del ceto medio istruito sardo, in particolare quello che si riconosce nella sinistra di matrice italiana e vota preferibilmente il centrosinistra.

Sui social, nelle radio locali e in altri contesti comunicativi la preoccupazione di moltissime persone appartenenti a questo segmento sociale è stata di prendere le distanze dal volgo incolto, dagli “analfabeti funzionali” e dalle rivendicazioni identitarie annesse. Come a dire: noi non c’entriamo niente con la plebe sardignola ignorante e retriva, siamo gente emancipata e civile, siamo “cittadini del mondo”, ecc. ecc.

A commento della vicenda mi limito a richiamare ciò che ne ha scritto Andria Pili in un suo post su FB:

Ho già scritto che non sono d’accordo con chi si è “indignato” su Saviano, che ritengo ci sia stata una strumentalizzazione di una frase fuori contesto per clickbait e per rendita mediatica di politicanti mediocri sull’onda di una polemica creata di proposito. Dunque vorrei scrivere tre cose su quella che mi pare l’altra parte della medaglia.
1) La criminalità in Sardegna è tema troppo serio per essere lasciato all’autorità di un narratore che lo conosce in termini superficiali, assemblando inchieste, rapporti di magistrati, luoghi comuni, con una prospettiva moralista, legalitaria, culturalista. Ci sono studios* e giornalist* valid* su questo argomento: leggiamoli. Sono meglio di uno scrittore assunto a oracolo. E chi se ne frega se un procuratore generale ha detto che “la Sardegna gronda crimine”, un suo collega aveva parlato di “mentalità predatoria barbaricina”, sono frasi del c*zzo che non aiutano a capire e distorcono la percezione alimentando stereotipi. Se lo citi come fonte principale per spiegare la tua “analisi” mi pare che ci sia un problema evidente.
2) La criminalità in Sardegna è stata spesso trattata veicolando una narrazione che ha stigmatizzato intere comunità. Non si può non tenere conto di questo e pensare che la suscettibilità sia prodotta solo o principalmente da ignoranza, analfabetismo funzionale, malinteso orgoglio, “vittimismo”, “permalosità” o addirittura “omertà nazionalistica” (?). Occorre pesare ogni frase e prestare attenzione particolare nel trattare certi temi che riguardano determinate comunità, specie se si è esterni a esse. Saviano nella sua “risposta” non è sembrato consapevole di questo, malgrado lui stesso nel video dice che sta semplificando.
3) Le reazioni vanno comprese senza sminuire le persone comuni per mostrarci come più intelligenti e “studiati” o “aperti al mondo” perché riteniamo rilevante che un intellettuale italiano si occupi della Sardegna, senza discutere criticamente su come lo fa e senza tenere conto della posizione in cui si trova.

Sempre di qualche giorno fa è un’altra discussione alquanto animata relativa alla recente trasmissione RAI Presa diretta, del 23 marzo 2025, dedicata alla questione della transizione energetica in Sardegna. Il servizio giornalistico in effetti è stato alquanto tendenzioso, orientato, decisamente poco aderente alla realtà dei fatti e alla complessità del dibattito e dello scontro politico in atto nell’isola.

Di nuovo, delle discussioni che ne sono seguite sottolineo la quantità notevole degli interventi favorevoli alla trasmissione, proveniente da una fetta consistente di commentatori appartenenti al ceto medio istruito.

Da un lato, dunque, tantissime persone, di diversa estrazione, che si interessano alla questione a vario titolo, soprattutto partecipando alla mobilitazione contro la speculazione energetica in corso; dall’altro, questo particolare gruppo sociale perennemente a disagio con la propria appartenenza scissa, i sardi-ma-anche-italiani, inclini a dar credito agli stereotipi più degradanti, da cui intendono affrancarsi, propensi a riconoscersi in tutto e per tutto nel contesto culturale e politico italiano, considerato come salvifico, rispetto alla gabbia della “identità sarda” (così come da loro percepita).

La resistenza popolare contro la speculazione energetica viene etichettata come retriva, ignorante, condizionata da interessi opachi. Manifestazione di quell’arretratezza che nessun generoso tentativo di modernizzazione (parola chiave) è ancora riuscito a sconfiggere.

Ulteriore circostanza, sempre di questi giorni, diversa ma in realtà meno distante di quanto appaia, è la pronuncia delle autorità di sicurezza pubblica della Toscana sulla partita di calcio Empoli – Cagliari, in programma domenica 6 aprile. È stata vietata la vendita di biglietti a chi sia residente in Sardegna per scongiurare l’arrivo, previsto e già organizzato, di centinaia di tifosi dall’isola.

Le motivazioni della misura restrittiva sono oscure, dato che non sono state specificate nell’ordinanza e non esiste una casistica di precedenti tali da far temere pericoli per l’ordine pubblico. Qualche osservatore ha evocato una connessione con l’assalto ai portavalori dei giorni scorsi, ma sarebbe una motivazione a dir poco assurda, con venature di razzismo nemmeno troppo labili.

In effetti, la maggior parte delle reazioni, non ultima quella della stessa società Cagliari calcio, ha sollevato la questione della possibile discriminazione territoriale. Sui social è un festival, come ci si può immaginare. (La notizia dell’ultim’ora è che il ricorso del Cagliari calcio contro l’ordinanza, evidentemente immotivata, è stato accolto.)

Sono tutti casi in cui emerge una sorta di attrito culturale, le cui cause profonde restano sempre nascoste, di difficile lettura.

Un tratto decisivo della questione è quello linguistico (di cui ho parlato, ultimamente, qui). La spaccatura sociale generata dall’imposizione dell’italiano come lingua dell’istruzione e delle istituzioni – fin dai tempi del ministro Bogino, ma poi in modo molto più efficiente con fascismo e ancora di più nel secondo dopo guerra – ha avuto effetti laceranti profondi e duraturi, nella collettività umana della Sardegna.

Uno dei più evidenti è la separatezza quasi di natura antropologica, denotata da dosi variabili ma sempre presenti di ostilità e quasi repulsione, tra i gruppi sociali che appunto potremmo definire “ceto medio istruito” urbanizzato – dipendenti pubblici, insegnanti, una parte cospicua delle professioni liberali e dei ruoli accademici, ecc. – e il resto della popolazione sarda.

La spaccatura linguistica molto rapidamente si è espansa e cristallizzata in una frattura sociale e culturale difficile da ricomporre, trasversale alla composizione anagrafica e alle varie comunità locali. Con eccezioni, sia chiaro, ma complessivamente piuttosto diffusa e sedimentata.

L’auto-rappresentazione di questo composito gruppo sociale è complicata da un’appartenenza doppia quasi sempre sofferta. Se bisogna scegliere, tuttavia, la scelta propende prevalentemente per l’appartenenza italiana. Il che stride con le sporadiche rilevazioni demoscopiche secondo cui le persone sarde, perlopiù, si identificano prima di tutto come sarde e a volte, e non in numero esiguo, *esclusivamente* come sarde, magari in accoppiata con una più generale appartenenza europea.

La categoria di soggetti di cui sopra è dunque una minoranza, nell’isola. Non inconsistente, ma sovraesposta e sovrarappresentata nei ruoli e nei contesti in cui si producono decisioni politiche e si esercita una certa forza persuasiva: scuola, università, mass media “tradizionali”, funzionariato pubblico. E, naturalmente, politica. La politica *istituzionale*, quella del Palazzo, garantita da metodi di selezione orientati alla fedeltà e alla subalternità e da normative elettorali estremamente restrittive.

È anche la compagine che si assume il ruolo di intermediazione tra la Sardegna e l’esterno, soprattutto l’Italia (nei vari significati che “Italia” assume).

La separatezza ricercata rispetto alla propria collettività di partenza ha fatto sì che i gruppi dirigenti sardi, da due secoli, abbiano sistematicamente tradito, con poche eccezioni, tutti i momenti e tutte le forme di mobilitazione popolare, di protesta, di ribellione. Contribuendo a screditarne le ragioni e gli obiettivi, partecipando alla repressione, giustificando le narrative che rinchiudevano la collettività sarda nel recinto degli stereotipi razziali degradanti.

Questa scelta di campo, dovuta a estrazione sociale, a educazione, ad ambizioni personali, rende difficile o del tutto impossibile affrontare lucidamente e con onestà intellettuale la questione sarda. Soprattutto nel suo nucleo fondamentale, ossia l’ineludibile conflitto tra la Sardegna e l’Italia.

Un conflitto che si tende a rimuovere dal dibattito, ma che ha ragioni storiche e culturali profonde e si è articolato, in questi due secoli, in varie forme di subordinazione coloniale, di marginalizzazione culturale, di violenza epistemica. Lo vediamo all’opera costantemente ancora oggi, dal livello banale delle discussioni sui social, all’approccio delle autorità di sicurezza e della magistratura, fino alle scelte strategiche dei governi italiani.

Fa specie, in questi giorni, la richiesta di sostegno alla presidente Todde nei suoi vari conflitti con lo Stato centrale e col governo, dovuti alle scelte legislative della sua maggioranza (sbagliate fin dall’inizio, come a suo tempo ampiamente segnalato da più parti) e al caso della richiesta di decadenza per inadempimenti gravi in campagna elettorale.

Non si capisce chi dovrebbe prendere parte a questa partita, che ha ragioni specifiche e contingenti, né perché. La “difesa dell’autonomia sarda” non può essere un espediente di comodo da usare a convenienza. Gli appelli al conflitto con lo Stato centrale sarebbero più credibili se discendessero da posizioni politiche solide e coerenti. Condizione che manca totalmente, in questo caso.

Come ha osservato qualcuno (non ricordo chi, forse più di una persona), la maggioranza che oggi governa la Sardegna ha solo due strade davanti: cedere alla volontà degli organi dello Stato, quand’anche tale volontà risultasse deleteria per l’isola, oppure intraprendere la via del conflitto vero, assumendosene la responsabilità e le conseguenze.

Nel secondo caso, probabilmente riuscirebbe a convincere e a portare dalla propria parte una buona fetta di cittadinanza, se emergesse una sincera volontà politica e prevalesse finalmente una prospettiva democratica ed emancipativa. Ma mi sembra un’eventualità poco probabile.

Il “tradimento dei chierici” – ossia lo schierarsi *contro* i sardi della nostra intellettualità accademica, degli intellettuali organici al sistema di potere e degli operatori culturali incardinati nel mainstream mediatico, oggi perlopiù sostenitori della giunta Todde – è un fattore ormai strutturale.

Lo si può riconoscere nell’indifferenza o nell’aperta ostilità (spesso tradottasi in una sorta di congiura del silenzio) verso la produzione culturale popolare e verso quella intellettuale non subalterna.

È un problema di notevole portata, che prima di tutto andrebbe riconosciuto come tale e poi discusso apertamente. Certo, chi detiene anche una piccola porzione di potere culturale e politico in Sardegna ha anche la possibilità di sottrarsi al confronto pubblico. Nondimeno, vale la pena sollevare la questione e tenerla sempre presente, quando si discute di eventi di cronaca, associandoli a ragionamenti più o meno pertinenti sulla nostra (presunta) identità, e dei tanti problemi generali ancora irrisolti che ci affliggono.

1 Comment

  1. Oooh finalemente, Dott. Onnis, quando parla di Sardegna viene fuori il meglio di lei (nessun sarcasmo).
    Concordo, concordo. Ma tu guarda, proprio a confermare tutto quello che dice lei, proprio adesso, la nostra presidente di Regione, durante una sedicente manifestazione contro il riarmo in Europa, non riesce ad evitare di distanziarsi dalla sue tare identitarie: “Non siamo quelli dei muretti a secco, siamo la resistenza!” Eh? Cosa?

    Cosa c’entrano i muretti a secco? Boh! Ma forse suona meglio che dire “non siamo quelli del Cannonau e s’Abbardenti, siamo quelli dello Spritz e del Mojito!”, che poi sarebbe quello che probabilmente la nostra progressistissima presidente voleva dire. Mica siamo gaggi di bidda noialtri, siamo oltre-sardi, sardi che hanno superato le ataviche tare della nostra condizione sfigata di isolani. E ddai, fateci entrare nel vostro salottino, facciamo da bravi, non useremo parole in dialetto (puzza puzza), vi parliamo di Gramsci (era sardo, no, davvero! ovviamente aveva studiato a Torino, signora mia) e di come sia bella Villasimius (ma d’Estate, signora mia, che d’inverno purtroppo non ci sono turisti e ci sono solo capre e pecore) e vi spieghiamo come i villici cuociono il maialetto (lo chiamano “porceddu”, ‘sti villici). Magari poi ci fate cadere un po’ di briciole dal tavolo, sì?

    Ha centrato bene il problema Dott. Onnis.

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