Il tabù politico della questione linguistica sarda

Benché sia sempre esclusa dall’agenda politica nostrana, la questione linguistica è una presenza ingombrante, che sprigiona effetti a vario livello e ad ampio spettro. È proprio la sua natura politica a disturbare il sistema di potere tributario e coloniale sardo, a farne un tema tabù, perché chiama in causa i rapporti sociali e la relazione con lo Stato italiano.

Quando si parla di lingua, si parla di politica, diceva Gramsci. Lo diceva a ragion veduta. Non era una tesi astratta: ne aveva sperimentato la cruda consistenza reale nella sua stessa vita di ragazzo di bidda trapiantato prima a Cagliari, poi a Torino.

Negli studi culturali, postcoloniali e in quelli sulla subalternità il ruolo spettante alle lingue minoritarie e/o minorizzate è sempre rilevante. In Sardegna invece la questione linguistica è sempre stata ridotta o a mero studio glottologico e filologico, con rare escursioni accademiche in campo letterario, oppure stigmatizzata come tematica identitaria, un po’ da fissati, con connotazioni retrograde se non reazionarie.

La scuola italiana, il sistema mediatico e anche la chiesa hanno prodotto in quest’ambito un vulnus profondissimo, fornendo al contempo una serie di motivazioni e di costrutti retorici di comodo per renderlo meno doloroso. Ma non meno dannoso.

La politica, come dicevo, preferisce ignorare la questione. Troppo problematica e pericolosa. Quando se n’è occupata, sono emerse le contraddizioni di un apparato istituzionale nominalmente orientato ad articolare concretamente i precetti dell’autonomia speciale, ma in realtà finalizzato a mantenere con ogni mezzo necessario lo status quo di dipendenza e subalternità.

La stessa selezione della classe politica, a sua volta legata ai ceti dominanti isolani, si fonda sul rinnegamento dell’appartenenza sarda (mascherato tramite la retorica stantia dell’orgoglio sardo, variamente declinato). Il fondamento dell’agire politico di chi voglia fare carriera nel Palazzo, magari finendo in gloria a scaldare qualche banco nel Parlamento a Roma, è mettere gli interessi e le questioni generali dell’isola in secondo piano rispetto ai dettami delle leadership oltremarine di riferimento.

Non è un fenomeno di oggi. Oggi stride di più, per certi versi, perché ci pare più scontato che abbiamo maturato consapevolezze in passato meno diffuse. Ma non è così.

La radice di questa subalternità culturale va trovata indietro nel tempo. Ma non tantissimo. Non parliamo della protostoria nuragica, del medioevo o dell’epoca del Regno di Sardegna spagnolo, bensì della seconda metà del Settecento.

La questione linguistica sarda contemporanea nasce come conseguenza delle riforme del ministro Bogino (in carica tra 1759 e 1773). La sua politica di italianizzazione dell’istruzione, dell’università e dei ruoli pubblici del regno sardo, pensata come energico contrasto all’eredità culturale spagnola, ebbe esiti di lunga durata, resi ancora più pesanti e per molti versi drammatici con l’unificazione italiana e la riduzione della Sardegna a porzione marginale e periferica del nuovo stato.

La portata di quel momento di passaggio culturale è stata molto sottovalutata o è stata del tutto incompresa dalla storiografia sarda, anche nei migliori casi.

In proposito, così scriveva, nel 1984, Girolamo Sotgiu, nel suo Storia della Sardegna sabauda:

Porre la questione – come da taluni oggi viene posta – che i piemontesi (come poi gli “italiani”) hanno privato i sardi della loro lingua significa non cogliere gli aspetti più profondi dell’intera operazione politica che fu allora compiuta.
Quel che si voleva era ben altra cosa: imporre a una classe dirigente che parlava, scriveva e pensava in spagnolo di pensare, parlare e scrivere in italiano. Il che poi voleva dire imporre alla classe dirigente sarda di sposare la politica della classe dirigente piemontese, muoversi all’unisono con essa, per la difesa di interessi che potevano anche non essere coincidenti con quelli delle popolazioni delle quali era espressione. La stragrande maggioranza degli abitanti dell’isola rimase del tutto estranea a queste innovazioni e continuò a parlare il sardo, come in parte fa anche oggi.

A Sotgiu non sfuggivano il senso politico e gli effetti sociali della questione. Tuttavia non ne comprendeva la portata, riducendo il problema a una rivendicazione ideologica, identitaria o indipendentista (erano gli anni del “vento sardista”, quelli in cui redigeva quest’opera fondamentale), quindi da respingere a priori.

Invece il nodo problematico è precisamente quello da lui individuato: l’italianizzazione generò un legame profondo tra i ceti dirigenti sardi e i ceti dirigenti prima piemontesi poi italiani, provocando una frattura che da linguistica diventava automaticamente sociale e dunque politica.

Quando osserviamo, magari stupefatti, l’ottusa pedanteria con cui la nostra classe politica si conforma alle dinamiche, alle priorità e anche ai vezzi e alle pose della politica italiana, dobbiamo tenere presente questo fenomeno profondo.

Lo stigma che da diverse generazioni accompagna la lingua sarda non è casuale. È invece l’inevitabile rovescio della medaglia di questa assimilazione culturale verso l’esterno dei nostri gruppi dirigenti.

Se vuoi emanciparti e uscire dalla tua condizione subalterna, barbarica, oscura, devi abbandonare la lingua della tua terra e tutto ciò che sa di popolare, di autoctono. Tutta roba che va relegata nell’ambito del folklore, del pittoresco, del tradizionale. Nulla che possa tornare utile nel mondo “moderno”, nel nostro oggi, nella relazione con l’altro da noi. Nulla che ti conferisca “potere” (accademico, politico, mediatico).

La sardità popolare, a cominciare dalla lingua, è un retaggio di cui liberarci e, nel caso non lo facessimo, di cui vergognarci. Ancora oggi una buona parte dell’umorismo sardo si basa sull’auto-scherno, sul mettere alla berlina la lingua sarda, i modi di parlare e di socializzare diversi da quelli promossi dai modelli dominanti (italiani e in italiano, dunque civili).

Sono tutte questioni ampiamente affrontate dall’intellettualità sarda non subalterna, perlopiù estranea alle istituzioni culturali e al discorso pubblico egemonico. Da Cicitu Masala, a Placido Cherchi, passando da Mialinu Pira, fino a Bachis Bandinu (per citarne solo alcuni ben noti), esiste un corpus di riflessioni ormai ricco e consolidato su questo tema. Eppure, la questione rimane aperta.

Nei giorni scorsi ha fatto discutere un breve video, postato su Facebook da un comico (o aspirante tale) sardo, tale Daniele Cabras (non ve lo linko, abbiate pazienza). Un ragazzo parla con una ragazza dall’aspetto piacente e si domanda (e le domanda) come mai sia ancora single. Lei risponde con un rutto e poi in sardo (evidentemente le due cose sono legate), con postura volgare: “Ita catzu ndi sciu? Ita seu, indovinu?

I commenti sotto il post sono di grande apprezzamento, a volte di puro spasso. In altri giri, politicamente più sensibilizzati, le reazioni sono state di segno molto diverso. In generale, è tutto passato abbastanza in cavalleria.

Alessandro Mongili, sempre su Facebook, ne scrive così:

Daniele Cabras, è un comico sardo che ha avuto successo. Ridere fa bene, ma non è anodino. Dipende se si ride del potere, o se si ride dei poveri, o degli emarginati. Sono infatti due cose diverse. In un caso si fa satira, nell’altro si deride.
Noi sardi ridiamo spesso di noi stessi, ma purtroppo non sempre in modo intelligente: talvolta, usiamo gli stereotipi negativi che hanno storicamente forgiato per dominarci, e ci sminuiamo da soli.
Daniele Cabras l’ha fatto, ha esplicitato uno degli stereotipi peggiori su di noi. Parlare sardo è “grezzo”. Grazie a questo stereotipo, intimamente classista e pure razzista, parlare una lingua significa avere qualità negative. Ma ovviamente non esiste nessuna relazione fra le due cose. Moltissimi anglofoni sono autentici abbruttiti, centomila volte più di un pastore sardo. Parlare sardo se si è donne è estremamente “grezzo”. Impossibile trovare un fidanzato se si parla in sardo, suggerisce Cabras (e se si rutta, perché nella tremenda gag di Cabras sono classificati come due cose dello stesso genere). Si perde ogni capacità seduttiva perché si parla sardo. In questo brevissimo video, Cabras ci gioca, ma soprattutto lo dà per scontato. Infatti, purtroppo, è scontato per la maggioranza delle sarde, e dei sardi, terrorizzate dall’idea di passare per “grezze”, per i loro genitori. Così si affossa la nostra lingua in modo molto più efficace che vietandola nelle scuole. Se non ci fosse diffuso questo pregiudizio, il sardo sarebbe sopravvissuto anche senza essere insegnato a scuola. Siamo troppo docili, noi sardi, con chi ci vuole umiliare, collaboriamo, ci mettiamo una maschera, facciamo corsi di dizione, ridiamo di chi parla la nostra lingua.
Altri comici, ultimamente (per fortuna) iniziano a ridere di queste maschere grottesche di donne (e uomini) che fanno corsi di dizione, di chi spende tempo e energie per indossare maschere di italianità forzosa, pensando così di essere seduttivi, migliori. E invece sono più superficiali, come questa tremenda gag di Cabras.

Inutile dire che sono d’accordo con Alessandro Mongili.

Sempre nell’ultimo periodo, in seguito alla partecipazione al festival di Sanremo, l’attrice e conduttrice Geppi Cicciari (di Macomer) ha ricevuto commenti sprezzanti sui suoi profili social a causa della sua cadenza sarda.

Da notare che Geppi Cucciari non ha mai fatto alcuna rivendicazione identitaria e anzi, quando ne ha avuto occasione (come nel corso di una conferenza stampa proprio al festival di Sanremo), ha a sua volta glissato sulla faccenda, con un’argomentazione alquanto sciocca.

Ciò non è bastato a salvarla dallo stigma. L’accento sardo è brutto, è grezzo. Non come gli accenti italici (il romanesco, onnipresente, il napoletano – bellissimo, per quanto mi riguarda -, il milanese, l’emiliano o il romagnolo, i vari toscani, ecc.). Lo stesso siciliano, per varie ragioni, ha uno status decisamente più elevato dell’accento sardo (e della lingua sarda, chiaramente).

Per la maggior parte delle persone sarde questo non solo non è un problema, ma è addirittura del tutto giustificato. La nostra classe politica e la nostra intellighenzia accademica hanno dunque gioco facile a tralasciare la questione linguistica.

Sgravandosi da tale incombenza, è meno complicato affrontare – malamente, come sempre, a dispetto dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra – tutte le altre questioni, economiche, infrastrutturali, demografiche, ecc.

La Sardegna dopo tutto è solo una porzione periferica e depressa dell’Italia. E la colpa della sua condizione è di chi la abita, della sua arretratezza, della sua ignoranza, della sua poca adesione ai canoni della modernità. L’ostinazione a voler usare il sardo ne è la riprova. Due secoli e mezzo di italianizzazione non ci hanno salvato da noi stessi, insomma. Peggio per noi.

4 Comments

  1. Non potendo ringraziare Omar su telegram, per questa preziosissima riflessione sulla lingua sarda, lo faccio da questo commento.
    No adju potutu ringrazia’ Omar pal chistu scrittu innantu a Telegram, tandu lu fociu chici.
    Grazie Omar pal chista luccica e profunda riflessioni.
    Lidia

  2. “l’italianizzazione generò un legame profondo tra i ceti dirigenti sardi e i ceti dirigenti prima piemontesi poi italiani, provocando una frattura che da linguistica diventava automaticamente sociale e dunque politica.”

    Non penso che questa frattura sia cosi’ “automatica”. Se non sbaglio GM Angioy non parlava sardo e aveva bisogno di un interprete quando era AlterNos (ma mi potrei sbagliare). I protagonisti della Sarda Rivolutzione come Angioy si erano formati nell’Universita’ italianizzata, eppure avevano un’idea precisa della Sardegna come “nazione” separata con pari dignita’ rispetto al Ducato d’oltremare, in un’unione sotto la corona (un po’ com’era il caso di Scozia e Inghilterra prima dell’Atto d’Unione 1707).

    Quello che provoco’ la “rottura” e’ non solo l’italianizzazione, ma anche il sopravvento dell’ideologia nazionalista di stampo romantico, che alla fine dell’800 si sposo’ con idee pseudo-scientifiche razziste. Del resto l’idea di una nazione come “comunità di popolo” (Volksgemeinschaft), che ancora e’ moneta corrente tra troppi indipendentisti sardi reazionari (consapevolmente o inconsapevolmente reazionari), questa idea non esisteva prima del Romanticismo, Hegel, e mostri simili.

    Il problema comunque e’ come se ne esce?

    I casi di Catalonia e paesi Baschi dimostrano che una via di uscita consiste in opportunità economiche e istituzioni che assicurino partecipazione diffusa. In questi paesi il catalano e il basco non sono sopravvissuti e si sono affermati grazie a chissà quali politiche linguistiche imposte dall’alto. Piuttosto, persone che parlavano queste lingue hanno avuto opportunità economiche e di avanzamento sociale, con tutte le conseguenze virtuose (per es.: una borghesia imprenditoriale che parlava catalano aveva creato un mercato per letteratura e arte in catalano).
    Insomma, se vogliamo uscire da questa palude, sarebbe il caso di combattere il nepotismo e le cricche che domano l’economia sarda (impoverendola ulteriormente), per creare maggiori opportunità all’imprenditoria e l’impresa privata (che in Sardegna e’ diffusa, nonostante tutti gli stereotipi che ci si racconta ;))

    1. Hai ragione a enfatizzare il romanticismo ottocentesco e l’ideologia nazionalista che ne era parte integrante come momento (ulteriore) di frattura politica tra la Sardegna e l’Italia. Ma non è un fenomeno in contrapposizione con la precoce italianizzazione della classe dirigente sarda. Anzi, è proprio la sovrapposizione dell’italianizzazione della classe dirigente sarda col Risorgimento italiano e l’ideologia nazionalista che ne era la cornice teorica ed emotiva ad aver combinato il patatrac.
      I patrioti sardi (così si definivano loro) che, usciti dalle università riformate dal Bogino, guidarono la rivoluzione sarda, insieme a un buon numero di sacerdoti, erano una parte – avanzata? più consapevole? più ambiziosa? – dell’intera compagine socialmente privilegiata dell’isola. Non avevano il problema di stabilire un’appartenenza, come sarà invece dopo il 1848. Il loro orizzonte politico coincideva con i confini naturali della Sardegna, ossia i confini del Regno (dato che i possedimenti sabaudi di terraferma erano entità politiche diverse e separate a tutti i livelli). La loro fu una scelta ideale che si giocava tutta dentro lo spazio sardo. È vero che Angioy, sicuramente sardofono, ma non abituato – dopo decenni di studio e di pratica dell’italiano come lingua formale e pubblica – a fare discorsi pubblici in sardo, si faceva aiutare, nell’arringare le folle, da altri. Ma era anche inevitabile. Guarda caso, chi svolgeva quel ruolo erano quasi sempre sacerdoti, ossia persone di istruzione medio bassa, a volte anche alta, ma in ogni caso prima di tutto abituati a parlare con le proprie comunità nella loro lingua (basti pensare alle omelie, al sacramento della confessione e alla predicazione).
      Il fatto di non avere avuto, soprattutto dalla Restaurazione in poi e ancor di più dopo la Perfetta Fusione e l’unificazione italiana, una classe dirigente – imprenditoriale, intellettuale, politica – che si sentisse integrata in tutto e per tutto nei destini delle proprie comunità di provenienza e nella cultura che esse esprimevano è stato un guaio serio, che ci portiamo appresso in larga misura ancora oggi. La questione linguistica è una parte decisiva di questo guaio. Le eccezioni che nel corso dei decenni si sono affacciate sulla scena sono una conferma di questa tendenza generale. È appunto una delle differenze con altre realtà europee analoghe alla Sardegna, come Paese Basco e Catalogna. Ma è anche una condizione molto simile ad altre ancora (che ne so, alla Galizia spagnola, per dirne una di quella stessa area geografica).
      Sul problema del nazionalismo essenzialista e fondamentalmente reazionario sono del tutto d’accordo. Mai pensato che l’emancipazione collettiva della comunità sarda potesse/dovesse passare da lì.

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.