Il Grande Freddo

Le due o tre volte che ho visto il film di Lawrence Kasdan Il Grande Freddo (The Big Chill, 1983) mi è piaciuto molto, ma mi ha lasciato un senso di amarezza che a lungo ho fatto fatica a decodificare. A distanza di tempo, credo che quel film possa essere individuato come la rappresentazione artistica non solo di un disagio privato, bensì della percezione – forse non del tutto consapevole – di un passaggio storico decisivo.

Improvvisamente, una generazione si rendeva conto che era finita per sempre l’epoca delle speranze e delle lotte sociali per un mondo più giusto, più pacifico, un mondo libero dallo spettro della guerra e sottratto alla presa della cupidigia affaristica. Senza nemmeno sapere perché, era chiaro il senso di un cambiamento profondo, che, per chi visse gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, aveva il sapore non solo della nostalgia per la giovinezza passata, ma di una sconfitta drammatica.

Il “freddo” e la paura che provavano i protagonisti del film li ho provati io stesso, in diverse circostanze. Una, in particolare, è stata il novembre 1989, quando l’Europa era in festa per la caduta del Muro di Berlino. Capivo la gioia che quell’evento induceva in molte persone, a cominciare da quelle direttamente coinvolte nell’avvenimento, ma non condividevo il senso di liberazione e di ottimismo che vedevo dilagare nella narrazione mediatica e negli umori diffusi.

La fine della Guerra fredda, seguita immediatamente dalla prima Guerra del golfo e dal conflitto nella ex Jugoslavia, convalidava l’impressione che si stessero ormai scatenando apertamente forze storiche fin lì tenute a freno.

La caduta della finzione democratica era stata già annunciata con l’avvento del governo Thatcher nel Regno Unito e dell’amministrazione Reagan negli USA. La riscossa delle classi ricche e di chi aveva un’idea esclusiva, violenta e autoritaria delle relazioni politiche e sociali era iniziata allora, ma l’ultimo scorcio della Guerra fredda ne aveva in qualche misura mascherato il senso profondo e la portata.

Inutile fare il riepilogo degli ultimi trent’anni: sappiamo cos’è successo. Il sussulto delle lotte sociali, prima col movimento zapatista partito dal Chiapas in Messico, poi col movimento cosiddetto (dispregiativamente) no-global alla fine degli anni Novanta, fu sconfitto brutalmente a Genova nel 2001. Altro momento in cui il “grande freddo” è calato sul mondo. Sono sicuro di non essere stato la sola persona a percepirlo.

Così come non sono stato l’unico a sentirlo di nuovo in occasione della pandemia di covid-19. Non tanto e non solo per il diffondersi di una malattia che colpiva pesantemente anche l’Occidente privilegiato, viziato da decenni di esternalizzazione dei costi e dei problemi causati dal proprio “stile di vita”; ma soprattutto per la gestione politica dell’emergenza.

Era forte il sentore che si stesse approfittando di un momento di crisi per sperimentare misure di ordine pubblico altrimenti inaccettabili. Sul piano del controllo d’autorità della vita delle persone e nella narrazione pubblica manipolatoria è stato un grande test. Il che non ha a che fare con teorie del complotto o isterismi no-vax (fenomeni degenerativi largamente strumentalizzati che pure spesso nascevano da domande lecite).

Il salto di fase di questi ultimi anni, con la guerra in Ucraina e lo scatenarsi della furia genocida di Israele su Gaza e l’intera Palestina, l’imporsi delle destre anche in Europa, la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, non fa che portare a compimento una deriva politica reazionaria e anti-democratica dalle radici profonde.

Ne ho già parlato, non vorrei ripetermi. Ma mi pare che non stiamo cogliendo la vera natura di questa fase storica e i rischi che essa ci propone.

Il fatto che abbia perso legittimità, anche nelle democrazie, l’idea stessa che l’organizzazione socio-economica e politica basata sui meccanismi del capitalismo possa essere rovesciata ha prodotto una paralisi teorica e pragmatica di cui stiamo già pagando il prezzo.

Qualsiasi prospettiva di cambiamento democratico, anche radicale, che un tempo si sarebbe chiamata rivoluzione, ma persino la sua variante moderata un tempo definita “riformismo” sono escluse dal novero delle possibilità politiche. (Quello che oggi si definisce, soprattutto in Italia, “riformismo” è una posizione politica conservatrice, una destra moderata, diciamo.)

Non così invece la prospettiva opposta, ossia quella che propugna e appena può realizza il restringimento degli spazi di libertà, la chiusura fobica verso qualsiasi forma di diversità e di fluidità non controllabile (in ogni senso), l’uso ordinario della violenza, il superamento del principio di legalità, l’abbattimento della democrazia rappresentativa in nome di un meccanismo di selezione della leadership di tipo carismatico oppure di cooptazione oligarchica.

Questi ultimi sono tutti fenomeni già in corso. Solo che al momento una buona parte della popolazione non se ne rende ben conto, anche quando percepisce che molte cose non vanno. Consumismo, pervasività dei social media, disinformazione, desensibilizzazione costante, conflittualità indotta e altre forme di condizionamento fanno sì che anche le persone che si interessano di politica fatichino a orientarsi.

Troppo forte la costruzione orientata del discorso pubblico e troppo efficaci i diversivi imposti egemonicamente da chi controlla i media (mass e social, poco cambia), ossia da chi controlla la ricchezza e le leve del potere.

In certi casi, sul lato di chi intenderebbe opporsi ai ceti dominanti e alle loro scelte, si adoperano cornici concettuali vecchie e ci si riduce a slogan fuori tempo, che fanno il gioco della parte opposta.

Il che non solo non aiuta a costruire argini contro l’onda nera in arrivo, bensì la alimenta. Senza escludere, naturalmente, forme di infiltrazione e manipolazione, ben finanziate e in azione da tempo.

Che le argomentazioni di spezzoni di opposizione politica di sinistra ricalchino alla lettera la propaganda russa sulla questione ucraina dovrebbe far riflettere. Osservare le prese di posizione “pacifiste” di tante persone, quasi sempre in buona fede, che replicano fedelmente gli slogan anti-europeisti di formazioni di destra come la Lega o altre porzioni del fascismo attuale, è una spia di quanto poco lucidi siamo nella lettura del presente.

L’intera discussione è inquinata e deformata. Ne emergono prese di posizione apparentemente lucide e conseguenti, ma perlopiù parziali.

Scrive Alessandro Mongili su FB:

[…] [N]on possiamo pensare il mondo come l’abbiamo pensato sinora. Oggi, possiamo valutare con realismo la possibilità di trovarci alla vigilia di una grande guerra mondiale. Non siamo più nel mondo che abbiamo conosciuto sinora, e tutto è cambiato con Putin, Netanyahu e Trump (PNT). Ci troviamo di fronte a tre demoni imperialisti che guardano al passato: uno al passato imperiale, l’altro a un passato biblico, e l’ultimo arrivato a un passato di primato mondiale. Tutti e tre finiti per sempre, come è finito per sempre lo Stato-nazione, tranne che come forma di mitopoiesi e, purtroppo, di consenso politico.
Per esistere, questi progetti reazionari hanno bisogno di occupare territori, distruggere nazioni, annettere, minacciare. Nessun progetto politico oggi guarda al futuro, tranne quello europeo ed europeista, i movimenti per l’autodeterminazione dei popoli, fra cui quello sardo, e i movimenti per i diritti. Pur con enormi contraddizioni al loro interno. Tutti questi soggetti vogliono superare lo Stato-nazione, strumento politico incapace di gestire i problemi planetari, molto più importanti di quelli della globalizzazione, perché riguardano anche la natura, le forme di conoscenza e la tecnologia. Non solo la circolazione di merci e di persone. Ma anche quella dei batteri, il cambiamento climatico, ecc.
La “triade demoniaca” PNT è scatenata contro il diritto all’autodeterminazione dei popoli ucraino, palestinese e potenzialmente di molti popoli dell’Emisfero occidentale (groenlandesi, canadesi, panamensi…), ma anche contro le forme sovrastatuali, come l’UE, l’ONU, il tribunale penale internazionale, ecc. Ma è scatenata anche contro le donne e, in un’ottica binarista furibonda, contro le persone transgender in particolare. E contro ogni minoranza.
Ha trovato un alleato nei tecnoimprenditori e broligarchi, un segmento oggi trainante in Silicon Valley, che hanno messo e vogliono estendere il loro cappello oligopolistico sul digitale e sui dati, e non considerano né i dati né il digitale un bene comune, ma solo una fonte di produzione di valore. La loro scelta è sempre di più quella di sostenere la Triade demoniaca o la Cina. Il che non cambia molto, visto che la Cina comunista è speculare, pur non manifestando un interesse prevalente per l’aggressione, ma piuttosto rivolta a una politica di alleanze.
Ma la tecnoscienza non si risolve in brevetti e proprietà, e nemmeno in progetti. Le sue forme hanno modi di esistenza diversi da quelli su cui si può mettere un cappello.
Di fronte a questo quadro, che cambia tutto, anche noi dobbiamo cambiare. Sebbene le vecchie famiglie politiche tenderanno a riprodursi, nelle carriere, nell’occupazione dei posti, noi dobbiamo spingere a superare le divisioni fra chi si oppone a questa svolta reazionaria (in senso letterale), di ritorno allo Stato-nazione e perfino al nazionalismo, in chi si oppone a Putin, Netanyahu e Trump, o almeno al loro disegno. Dobbiamo superare le divisioni e agire da sardi. Non riprodurre qui i quadri coloniali rappresentati, sia nel campo dell’autodeterminazione che nel campo della sinistra italiana di Sardegna, dalla presenza di alleanze con chi sostiene Putin, o Netanyahu, o Trump. In questo momento, è perfino pericoloso mantenere alleanze con il M5S o i Rossobruni, perché siamo già in un momento prebellico e c’è poco da scherzare.
Per questo, la sinistra unionista, o l’autonomismo sardo, deve sganciarsi dalla folklorizzazione del campo dell’autodeterminazione e prendere sul serio il nostro pensiero politico, che alla fine è quello di Gramsci.
L’idea che l’unica modernità che si può creare in Sardegna sia quella esogena, che viene da fuori, e che il “problema siamo noi”, deve essere sostituita, e de pressi puru, con l’idea che “noi sardi abbiamo problemi”. Questa improbabile ascrizione di modernità a chi ci guarda/giudica/da fuori, o magari investe qui per il suo esclusivo profitto, e di arretratezza a chi vorrebbe difendere i nostri interessi, o banalmente la propria reputazione, deve cessare e deve essere contestata con vigore. Bisogna rapidamente abbandonare questi pregiudizi, se si vogliono unire tutti coloro che, in Sardegna, possono sostenere la democrazia e il progetto europeista, in un momento così grave.

Sono d’accordo con lui. Ma su un punto non riesco a seguirlo: la fiducia nelle politiche di riarmo promosse dalla Commissione europea (organo non democratico, ricordiamolo) e, in generale, nell’Unione Europea così com’è.

In merito, Andria Pili scrive questo, sempre su FB:

La risoluzione del Parlamento Europeo sulla politica di sicurezza e difesa comune (55 pagine) aggiunge qualcosa in più rispetto al fanatico supporto all’Ucraina (“for as long as it takes for Ukraine to achieve a decisive military victory, end Russia’s illegal war of aggression, restore its sovereignty and territorial integrity within its internationally recognised borders and deter any future aggression; whereas Ukraine, in defending itself, is also protecting and fighting for European values and core security interests”) e alla chiamata alla guerra santa contro la barbarie russa, questo con parole di condanna dell’imperialismo che suonano quasi comiche tenendo conto dei problemini europei con questo tema; la ribadita stretta collaborazione con la NATO e gli USA, cui si aggiunge l’adesione di fatto alla visione degli Stati Uniti su Cina e Iran (quasi a voler fare un disegno per coloro che ancora cianciano di svolta epocale che rende l’UE indipendente dall’alleanza militare e realmente autonoma dagli Stati Uniti), l’ipocrisia su Israele e Turchia; la proiezione verso la difesa degli interessi europei in Africa e nell’Indo-Pacifico; il supporto a investimenti militari e una conversione bellica di parte dell’economia e della ricerca anche in nome dell’alta tecnologia e dell’uso duale militare-civico/umanitario (sic)…già presenti nel precedente documento sul libro bianco per la difesa europea futura.
Trovo abbastanza inquietante l’idea di uno scudo europeo contro la disinformazione e i punti dedicati alla preparazione della società civile alle esigenze della Difesa (“Defence and society and civilian and military preparedness and readiness”) in cui si parla di sviluppare una consapevolezza sulle minacce contro l’Europa, con programmi pensati specialmente per i giovani e programmi per la resilienza psicologica delle famiglie.

“164. Highlights the need for a broader understanding of security threats and risks among EU citizens to develop a shared understanding and alignment of threat perceptions across Europe and to create a comprehensive notion of European defence; stresses that securing support by democratic institutions and consequently by citizens is essential to develop a successful and coherent long-term EU defence, which requires an informed public debate; calls for the EU and its Member States to develop awareness-raising and educational programmes, especially for the young, aimed at improving knowledge and facilitating debates on security, defence and the importance of the armed forces and at strengthening the resilience and preparedness of societies to face security challenges, while allowing for greater public and democratic control and scrutiny of the defence sector; calls on the Commission and the Member States to develop those programmes within the framework of the European Democracy Shield, building on the model of national programmes, such as the Swedish Civil Contingency Initiative;
165. Welcomes the efforts to strengthen Europe’s civil and military preparedness and readiness, as also proposed in Mr Niinistö’s report; acknowledges the critical importance of citizens in crisis preparedness and response, in particular the psychological resilience of individuals and household preparedness; also recognises the importance of civil protection infrastructures and planning for emergency situations”.

Una porcheria. Nella Sinistra Europea (The Left) un solo voto a favore. Le sinistre indipendentiste dentro il gruppo dei Greens/EFA ovvero le deputate Riba di Esquerra e Miranda del BNG hanno votato contro, come il valencianista di Compromis, Marzà, unendosi così al collega basco di Bildu, Barrena, e a quelle/i dello Sinn Fein irlandese facenti parte della Sinistra Europea. Mi confermano che solo unendo le lotte per il socialismo e l’autodeterminazione si può costruire un federalismo europeo più degno di questo per cui ci vorrebbero pronti a combattere.

Sulla valutazione della risoluzione concordo almeno in parte. Mi sembra però che ci siano almeno un paio di errori di lettura.

Uno riguarda la guerra in Ucraina. Anche io penso che la retorica dei vertici UE sulla questione sia abbastanza indisponente. L’evocazione dei “valori” europei è a dir poco ipocrita e segnala solo la paure delle élite continentali di essere sconfitte nella competizione per il dominio continentale dalle destre estreme. Ma aiutare l’Ucraina, magari meglio e con maggiore incisività di quanto fatto fin qui, non è sbagliato (il “fanatico supporto” è stato molto a parole e poco concreto, in realtà).

In Ucraina si gioca una partita che va molto al di là dei presunti interessi USA nella faccenda. Guardarla ancora come una “guerra per procura”, in cui noi non c’entriamo nulla, e vedere la resistenza ucraina all’invasione russa come una forma di testardaggine nazionalista e guerrafondaia è proprio un abbaglio (più o meno innocente). Considerare l’Ucraina, nel suo insieme, come una mera pedina in mano a forze esterne è un pesante torto alla storia e alla dignità di un intero popolo.

Tirare in ballo la NATO e gli USA come fossimo nel 1977 o nel 1999 è dunque un altro errore di lettura. Lo dico da feroce oppositore, da decenni, della politica estera USA e dell’esistenza stessa della NATO.

Ma le cose sono già cambiate. Non sappiamo come si evolveranno i rapporti transatlantici, ma in questo momento non servono più le vecchie parole d’ordine, se non a confortarci e a farci sentire coerenti con noi stessi (un po’ meno con la realtà).

L’Europa è stata sotto l’egemonia politica USA per fin troppo tempo. Ci si è adagiata, non ha mai costruito davvero un proprio percorso politico democratico autonomo, con una proiezione virtuosa verso l’esterno. I singoli stati hanno provato a mantenere le loro fette di potere coloniale o semi-coloniale all’ombra dell’ombrello militare USA. Hanno salvaguardato, chi più chi meno, i propri ordinamenti democratici liberali, badando che non si spostassero troppo a sinistra, e per il resto hanno pensato a fare affari.

Oggi questo modus operandi non funziona più. A pagare il prezzo di quegli affari sono ormai le stesse popolazioni europee, non più solo quelle su cui si sono riversate per decenni le nostre esternalizzazioni. E lo pagheranno sempre di più.

Le élite del Vecchio Continente hanno il grave problema di essersi scoperte molto deboli a livello internazionale e di sentire la minaccia incombente di possibili dissensi interni fuori controllo.

Per il momento fanno finta di voler contrastare i populismi di destra e i fascismi incombenti (tutti finanziati e spalleggiati dal regime di Putin, e ora anche dall’amministrazione USA), ma ci metteranno un attimo a decidere che forse è più comodo fare accordi con loro, pur di mantenere privilegi, status sociali e beni terreni.

L’alternativa all’ondata nera deve basarsi su una prospettiva di rilancio democratico a tutti i livelli, di riappropriazione dei beni comuni da parte delle comunità, con una progressione equa e coordinata dal livello locale a quello sovranazionale. Un confederalismo democratico in salsa europea, che contrasti sia le derive autoritarie dell’ordo-liberismo rappresentato da Ursula von der Leyen e soci sia i fascismi montanti nei decrepiti stati-nazione.

Ma senza perdere di vista i rischi di questa fase di transizione storica. Compresi i disastri ambientali e climatici in corso. E compresa anche la minaccia rappresentata dalla Russia di Putin, dichiaratamente sul piede di guerra contro l’Europa. Guerra già in atto, per altro, sia pure non a colpi di artiglieria.

Su quest’aspetto, vanno comprese le popolazioni del lato est dell’UE, in diversi casi già parte dell’impero russo e/o di quello sovietico, non troppo rassicurate dagli sviluppi attuali. Davvero possiamo scandalizzarci dei loro appelli alla difesa anche in termini militari? Nemmeno un vecchio pacifista come me se la sente di biasimarli. Mettetevi nei loro panni.

Contro chi dovrebbe battersi dunque il movimento pacifista (per fortuna esistente, pur con molti limiti)? Questo andrebbe chiarito. Procedere per adesione meccanica agli schieramenti precostituiti dai vari centri di potere egemonico è una sciocchezza evidente. Davvero il povero Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj e la gente ucraina nel suo insieme sono nostri nemici? Davvero lo è chi, in Ucraina e altrove in Europa e nel mondo, ha paura di essere sottomesso a un regime colonialista, anti-democratico e oscurantista?

Vedo che spesso si contrappongono i morti ucraini a quelli palestinesi. Gli uni meritevoli di tale sorte, in quanto “pedine della NATO”, gli altri vittime innocenti, in quanto colpiti da amici degli USA e della NATO. Siamo a questo punto di idiozia? È evidentemente una distinzione puerile e persino odiosa? Come si fa ad essere così pigri o accecati dai propri bias di conferma da non capire che questa stessa contrapposizione è una trappola pericolosa in cui siamo (siete) cascati con entrambi i piedi?

Ci vuole una grande prova di consapevolezza. Dobbiamo essere disponibili a uno sforzo di fantasia, una nuova creatività teorica e pragmatica, se proprio non riusciamo a raccapezzarci attingendo ai maestri del passato.

Ma i maestri del passato probabilmente qualcosa da dirci ce l’hanno ancora, se siamo disposti a far tesoro della loro lezione con intelligenza. Perché il vero nemico è sempre lo stesso: i ricchi, i padroni della Terra, in tutte le loro fazioni e incarnazioni, e chi consente e protegge il loro dominio, dalle oligarchie politiche tecnocratiche ai nuovi fascismi e ai promotori delle chiusure nazionaliste e reazionarie.

Una saldatura di queste fazioni del resto si vede già all’opera con la santa alleanza tra Trump e una grossa fetta del capitalismo statunitense, ma se pensiamo ai legami tra il regime putiniano e l’oligarchia affaristica russa non ci spostiamo di molto.

E da noi, nelle nostre democrazie liberali, chi e cosa conta davvero, al dunque? La volontà e le aspettative delle popolazioni, i bisogni generali, la salvaguardia dei beni comuni e delle minoranze, o invece i desiderata dei grandi agglomerati di potenza economica e finanziaria?

Evitare di sbagliare l’analisi e di perderci dietro falsi bersagli è il primo, indispensabile passo per cominciare ad attrezzarci per il conflitto già iniziato. Che non è il giochetto geo-politico che appassiona tanti, bensì una battaglia di sopravvivenza per una larga fetta di umanità e una lotta generalizzata per la democrazia e la libertà anche dentro le nostre declinanti società europee.

4 Comments

  1. Ciao! Non ho tempo di scrivere un commento articolato come sarebbe necessario per spiegarmi. Mi limito quindi solo a chiarire che non condivido l’idea della “guerra per procura” intesa come la riduzione degli ucraini e del suo governo a marionette degli Stati Uniti o NATO.

  2. Ti ringrazio per questa complessa riflessione. Preciso che, in questo momento, non ho una posizione molto definita sul cosiddetto piano europeo di riarmo, anche perché mi sembra che neanche le istituzioni europee e i gruppi dirigenti dei vari paesi che compongono l’UE ce l’abbiano. Aspetto di capire, perché oggi non si capisce e mi sembra che in tanti sperano che Trump sia una parentesi, come lo speravano per il Fascismo. Si tratta di élite politiche molto mediocri e prive di visione, a occhio. Io sono rimasto alla necessità di sostenere la difesa dell’Ucraina, anche armandola. In linea di principio, sono un europeista insoddisfatto di come l’UE si sta determinando, ma considero il mio peggior nemico lo Stato-nazione, anche da sardo. Nella nostra storia, dalla perdita dell’indipendenza giudicale, l’emergere degli Stati, prima con l’assolutismo, poi con il terrificante stato italiano sbilenchissimo, per noi è sempre stato segno di disastri infiniti. Peraltro, noi non abbiamo rappresentanza in Europa e, quando l’abbiamo avuta, non ha funzionato un granché.
    Condivido molte delle tue posizioni, ma considero che non vi siano le basi per una prospettiva rivoluzionaria per i subalterni, e anche il confederalismo democratico che prospetti si sia rivelato essere una utopia locale, dei kurdi, che nessuna forza concretamente esistente può sostenere. Sembra impossibile determinarne un’alleanza, anche se è giusto pensarci. Non credo neanche che i nemici siano i “padroni della terra”, ma le relazioni di potere che tu ben individui, passate dalla biopolitica alla necropolitica del potere. La ricchezza in se oggi ha qualità diverse da quelle descritte in Marx ecc., sia perché il capitale finanziario sembra essere qualcosa di nuovo e inedito, sia perché nell’accumulazione la produzione del plusvalore e la rendita sembrano funzionare a parti inverse. Qual è il nostro nemico? E di chi è nemico?
    Dove mi allontano con decisione da quello che scrivi tu è il riferimento ai “maestri del passato”. Non è a loro che dobbiamo guardare, ma alla situazione che viviamo. In essa, ha assunto un’importanza decisiva la rilevanza delle questioni planetarie, cioè che riguardano anche i nonumani: il clima, la sovrappopolazione, l’inquinamento, l’intensa mobilità, i batteri, le malattie indotte dalla crisi planetaria. L’importanza dunque di una politica che non usi ancora gli schemi dei “maestri del passato”. Il nostro è un mondo troppo diverso dal loro. Non bisogna tanto avere fantasia, quanto studiarlo, il mondo in cui siamo, e, al suo interno, la Sardegna in cui viviamo OGGI. Anche qui, esiste uno scontro memoriale e la storia viene agitata (soprattutto in quanto memoria). Ma nulla o poco sappiamo della Sardegna in cui viviamo.

    1. Sì, è vero, non possiamo vivere nel passato, in nessun senso. Mi vengono in mente le parole di F.W. Nietzsche in apertura della sua considerazione inattuale Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in cui appunto stigmatizza la concezione della storia e del lavoro storiografico come celebrazione del passato o mera erudizione, senza attinenza con la vita reale, col presente. E anche la filosofia della paxis di Gramsci (a proposito di maestri del passato).
      Non confido di assistere, nella mia vita, ad alcuna rivoluzione e l’evocazione del confederalismo democratico è più un esempio di elaborazione originale, basata sull’analisi di dati e fatti (in quel caso, tratti dalla storia de Vicino Oriente), che l’indicazione di un modello da seguire. Io sento la mancanza di studio, come dici tu, ma anche di elaborazione nuova, di ricerca di vie percorribili. Non vedo gran che, in questo senso.

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