Diverse manifestazioni, sabato 15 marzo, con oggetto “Europa”. Chi la vuole, chi non la vuole, chiunque crede di sapere di cosa si tratti, mentre le cose reali succedono tutto intorno senza che ce ne accorgiamo.
Lo so, sembra una sparata complottista. Ma non posso fare a meno di osservare come le diverse manifestazioni pro o contro l’Europa tenutesi in varie piazze italiane (e sarde) sabato scorso siano sembrate delle stanche rappresentazioni fuori tempo massimo e completamente fuori fuoco.
Quella chiamata da Michele Serra e dal Gruppo GEDI (entità economica con interessi anche nel campo dell’industria militare, meglio precisarlo) aveva una piattaforma molto generica, adatta a mobilitare sentimenti diversi, spesso contraddittori, senza andare troppo per il sottile. L’età avanzata dei partecipanti e la retorica prevalente alla fine l’hanno certificata come una mobilitazione conservatrice.
Non è nemmeno detto che tutte le persone presenti siano davvero convinte del piano di riarmo degli stati dell’UE (cosa diversa da un piano di difesa comune, meglio precisare anche questo). Molte sventolavano la bandiera della pace. La maggior parte esprimeva solo una banale, ma non superficiale, propensione sentimentale verso un’idea astratta e a-storica di Europa, come culla della civiltà umana (di tutta l’umanità, a quanto pare), scrigno di pace e di democrazia.
Sono pressoché certo che pochissime persone partecipanti abbiano davvero letto qualcosa di più approfondito dell’appello di Serra (posto che l’abbiano letto). Anche chi citava il Manifesto di Ventotene (magari sbagliando la pronuncia: Ventòtene) non sembrava proprio addentro alle questioni sollevate da quel documento.
Documento per altro la cui rilevanza è assai limitata, a dispetto della retorica un po’ sciovinista che in Italia lo riguarda. È una contraddizione anche questa, a ben guardare. I limiti di quelle proposizioni erano già molto chiari ai tempi del confino di Altiero Spinelli (in compagnia, tra gli altri, di Sandro Pertini, che al manifesto in questione non aderì affatto).
Ne parlava WuMing1 nel 2019, rispondendo a un’intervista rilasciata a Jacobin Italia sul suo romanzo La macchina del vento:
La carica di anticipazione che, retrospettivamente, l’esperienza del confino a Ventotene sembra avere è la premessa di tutte le esagerazioni e gli stereotipi propagandistici fioriti intorno al cosiddetto Manifesto di Ventotene, scritto da Spinelli e Rossi sull’isola, nel 1941. Secondo questa vulgata, Ventotene fu la «culla dello spirito europeo» e, addirittura, il luogo di nascita dell’Unione europea. Si crede che il Manifesto di Ventotene – che non si chiamava nemmeno così, è una reintitolazione di molto posteriore – abbia squarciato i cieli e annunciato un tempo nuovo, quasi una scena da kolossal biblico.
In realtà, quando il manoscritto circolò sull’isola, in una parte molto minoritaria della comunità dei confinati (girò quasi solo tra giellisti e socialisti), non solo se lo filarono in pochissimi, ma tra quei pochissimi attirò – con buone ragioni – aspre critiche. Ne nacquero alterchi e divisioni, a tal punto che i suoi autori – ribattezzatisi «federalisti» – furono praticamente isolati e dovettero aprirsi una mensa per conto loro. Poi il manoscritto fu portato rocambolescamente in continente, grazie ad Ada Rossi e Ursula Hirschmann, ma nemmeno lì riuscì ad aggregare più di una minuscola cerchia di borghesi “illuminati”. Non si tratta di ingenerosità da parte mia, è un dato di fatto rilevato più volte anche dagli stessi federalisti.
Dopo la guerra, per decenni il testo rimase sconosciuto ai più. A lungo non fu nemmeno ripubblicato. Ha cominciato a tramutarsi in un livre de chevet da citare alla bisogna – e perlopiù a vanvera – all’incirca una ventina di anni fa, quando il vaporware della costruzione europea ha cominciato a sfumare e si sono rese visibili le magagne che conosciamo. L’ordoliberismo di Maastricht, del Trattato di Lisbona e della direttiva Bolkestein si è concretizzato in un’austerity da mattatoio, scatenando per reazione rigurgiti nazionalisti. Di fronte a tali rigurgiti c’era il bisogno di premere sul pedale del mito delle origini, un mito delle origini nobile, e così si è fatto di Spinelli un santino.
Naturalmente, una significativa parte di chi cita il Manifesto di Ventotene – soprattutto i politici – lo fa per sentito dire, non sa nemmeno cosa ci sia scritto. Stiamo parlando di un testo che, pur con tutte le sue criticità, come pezza d’appoggio dell’ordoliberismo non funziona granché bene. Ad esempio, prevede estese nazionalizzazioni. Ad ogni modo, il risultato è che se oggi dici «Ventotene» scatta il cliché: «Dove è nata l’Unione europea!».
L’UE attuale non c’entra nulla col Manifesto di Ventotene. E non so nemmeno se sarebbe così auspicabile una somiglianza più stretta. Di certo, la proposta von der Leyen di riarmo europeo tutto è tranne che federalista, dato che sollecita il riarmo dei singoli stati.
Il che, come già detto (almeno qui), appare più una misura volta a gestire un ordine socio-economico e politico pericolante, dunque con lo sguardo rivolto soprattutto *all’interno*, che una prospettiva di difesa comune contro pretesi attacchi imminenti dall’esterno.
Alla mobilitazione “europeista”, borghese e anagraficamente attempata convocata da Repubblica hanno risposto altre mobilitazioni, sia da destra sia da sinistra, in forme che, ahimé, sono apparse in troppi casi drammaticamente convergenti.
I cortei alternativi, tenutisi in varie città, spesso in concomitanza con quell’altra adunata, hanno condiviso una certa ostilità verso l’Europa. Quasi sempre detto così: l’Europa. Possiamo convenire che si tratti perlopiù di una sorta di sineddoche, e che il vero bersaglio sia l’UE. Ma resta il fatto che, dai fasci dichiarati a quelli camuffati (tipo i salviniani), ai gruppi della sinistra antagonista fino agli anarchici, tale distinzione non sembra importante. È l’Europa il nemico.
Benché le ragioni espresse siano a volte diverse, ma non così tanto, ne risulta una complessiva difesa degli assetti politici vigenti, ossia la centralità degli stati-nazione esistenti, a cui anzi restituire potere e “sovranità” (come recitavano striscioni e bandiere esposte in alcune di queste manifestazioni).
Anche qui, in diversi casi sventolavano bandiere della pace, a dimostrazione di come i simboli e le retoriche che li accompagnano siano malleabili. E di come le idee siano troppo spesso confuse.
A mio avviso si è trattato in tutti i casi di manifestazioni conservatrici e alquanto tristi. Ripiegamenti consolatori su posizioni puramente assertive e senza alcun referente concreto nelle dinamiche storiche in corso.
Il che è tanto più vero in Sardegna, dove le contraddizioni interne alle diverse manifestazioni suonano ancora più paradossali. Addirittura sia la mobilitazione “europeista” sia quella “anti-europeista” hanno visto l’adesione (soprattutto sui social, va detto) di diverse espressioni dell’indipendentismo. Una conferma, detto per inciso, di quanto poco significhi, di suo, dichiararsi indipendentisti, senza specificare orizzonte ideale e prospettive politiche.
L’aspetto preoccupante, come detto, è che *tutte* le manifestazioni inscenate sabato 15 marzo erano basate su assunti fuori dal mondo, su diversivi, su false rappresentazioni.
Sono sicuro che la maggioranza delle persone aderenti a entrambe le mobilitazioni sono in buonissima fede e, in molti casi, condividono persino valori e orizzonti ideali. Non è un’affermazione assurda, è che la realtà è complicata e interpretarla secondo schemi rigidi e preconfezionati (preconfezionati in circostanze molto diverse) conduce a contraddizioni evidenti e potenzialmente rovinose.
Più che limitarsi a slogan e cornici concettuali abusate, occorrerebbe intendersi sulla prospettiva politica e sugli obiettivi.
Per esempio, sostenere che l’UE attuale sia pessima, senza precisare come si vorrebbe superarla, non serve a nulla. Allo stesso modo, sostenere che c’è bisogno di un’Europa unita e solidale, pacifica e democratica, senza però metterne in discussione gli assetti attuali è una mera petizione di principio, favorevole allo status quo.
Prevalgono argomentazioni fallaci, visioni parziali e tendenziose, che non portano a nulla se non a rafforzare la tendenza reazionaria in corso.
Tutto ciò che mette in crisi le letture orientate e basate su tesi propagandistiche viene rimosso. Si citano fonti scelte in funzione delle proprie asserzioni, magari deformandone il senso o selezionando gli elementi a proprio sostegno.
Per esempio nel caso della sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani sul caso Odessa, interpretato come una condanna tout court dell’Ucraina, a dispetto delle disposizioni puntuali della Corte, molto più articolate. Singolare che la lettura anti-Ucraina sia diventata immediatamente virale sia nei siti e nei profili di sinistra antagonista sia in quelli di destra, anche fascia.
O, sull’altra sponda, nel caso della difesa a oltranza delle tesi di Ursula von der Leyen, palesemente favorevoli a un riarmo degli stati-nazione dell’UE e agli affari del comparto militar-industriale. Il nucleo di tali tesi è che l’UE debba difendersi militarmente da un nemico minaccioso, ormai alle porte. E tutti a dare per scontato che il nemico in questione sia la Federazione russa.
La Federazione russa sta già facendo guerra all’UE, ma con armi diverse da carri armati e aviazione (ha già molti alleati e molte “quinte colonne” a sua disposizione). Le “armi” con cui difenderci non sono quelle che escono dalle fabbriche di morte. Sono invece le caratteristiche delle nostre comunità umane che mandano in tilt i sistemi di potere autoritari alla russa e per questo sono da essi conculcate: diritti sociali, libertà civili, tolleranza, protezione delle minoranze, ecc. Oggi, nella civilissima Europa, faro del mondo, tutto ciò è sotto severa minaccia da parte delle stesse classi dominanti europee che ci chiamano alla guerra.
Insomma, far finta che i proponimenti europeisti sbandierati dall’élite del Vecchio continente, con la scusa di doversi difendere da Putin (con cui hanno fatto affari fino a ieri), non preparino una deriva autoritaria e anti-popolare è come minimo un (auto)inganno.
Nessuno che si preoccupi della vera minaccia: la repentina, ma non inaspettata, svolta reazionaria globale. Tempi grami per la democrazia e per le aspirazioni a un superamento progressivo del modello tardo-capitalista ancora dominante.
Non ci sono sempiterni “valori europei” da difendere e da sbattere in faccia alle altre popolazioni umane. L’Europa – mi dispiace deludere i vari Scurati, Vecchioni, Serra, Mentana e compagnia ipocrita, classista e suprematista cantante – non può vantarsi di un bel nulla, sul piano storico. Certo, dopo la seconda guerra mondiale ha vissuto decenni di pace e di progresso sociale. Ma quei tempi sono finiti e bisogna essere consapevoli che si è trattato di una parentesi breve e circostanziata dentro un percorso storico fatto di crimini colossali, di devastazioni, di colonialismo esterno e interno, di razzismo e di brutale sfruttamento.
D’altra parte, non c’è più neanche alcuno spauracchio di comodo contro cui abbaiare comodi slogan invecchiati male. Tipo la NATO, già fuori gioco da tempo e ormai destinata alla liquidazione dal suo maggiore azionista (come già detto).
Il mondo sta cambiando rapidamente, come succede sempre nel corso delle transizioni storiche, e noi non ci stiamo capendo nulla. Debolezza che, in un luogo come la Sardegna, rischiamo di pagare a un prezzo ancora più alto.
Mi piacerebbe che se non altro ciascuna persona, ciascuna organizzazione, formale o informale che sia, ciascuno spazio di aggregazione, ogni organo di informazione dichiarassero apertamente i propri obiettivi e il proprio orientamento valoriale. Non ha più alcun significato schierarsi pro o contro le false bandiere sventolateci sotto il naso da chi controlla i media e condiziona le oligarchie politiche, determinandone l’agenda.
Siamo cani rinchiusi in una pista a rincorrere una lepre finta. Intanto che i padroni decidono come spartirsi il mondo. O come distruggerlo.
La risposta collettiva non può essere basata solo sulla paura, spesso indotta e mal indirizzata. Dobbiamo dotarci di una prospettiva che superi in meglio, in avanti, le storture del mondo così com’è oggi. Altrimenti non faremo che assecondare uno o l’altro dei modi in cui andremo in malora.
Io, per quanto mi riguarda, vorrei più democrazia, più giustizia sociale, più solidarietà tra comunità umane, più rispetto inter-culturale. Vorrei una rigorosa libertà di autodeterminarsi delle persone e dei popoli. Vorrei la fine del capitalismo feroce e distruttivo che sta devastando l’unico pianeta abitabile a nostra disposizione. Vorrei una gestione dei beni comuni (acqua, energia, infrastrutture essenziali, istruzione, sanità, cultura) sganciata dal profitto privato. Vorrei che non esistesse neanche la possibilità che qualche essere umano possa disporre di patrimoni maggiori di quello di molti stati. Vorrei una pace smilitarizzata in cui non abbia alcun diritto di cittadinanza il principio idiota della competizione come regolatore fondamentale dell’esistenza delle persone e dei popoli. Ma non mi sembra che tutto questo sia oggetto di discussione, nelle varie mobilitazioni in corso.
Forse dovremmo guardare di più e meglio a ciò che succede altrove, come in Serbia, o in Romania, o in Argentina e chissà dove altro. Dobbiamo allargare i nostri orizzonti. Forse, se ci stacchiamo per qualche tempo dall’infotainment obnubilante e dalla dipendenza da social media, riusciremo a liberare il nostro sguardo dai tanti veli che lo offuscano.
Non lo so, mi sembra che stiamo sbagliando tutto. Che ci troviamo nella classica situazione evocata da Nino Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Ecco, io intravvedo soprattutto i mostri, in questa fase. E non sono quelli contro cui i veri mostri, o i loro portavoce, ci stanno chiamando a combattere.
Ohi ohi, Dott. Onnis, faccio fatica a seguirla. Lei vorrebbe “più democrazia, più giustizia sociale, più solidarietà tra comunità umane, più rispetto inter-culturale”. Ma mi parte con la diatriba contro i valori Occidentali.
Ma insomma, quello che lei vuole si potrebbe riassumere nello slogan “liberté, égalité, fraternité”. Dove sono nati questi valori? A Paperopoli? A Topolinia? Ma no, per Bacco! Sono nati e si sono sviluppati in Occidente! Mica in Cina o in India (o a Paperopoli), ma nella sedicente civiltà occidentale.
Lei mi insegna che storici Marxisti dicevano che solo in Occidente il progresso tecnologico, e la mobilità sociale che ne era derivata, avevano creato condizioni che permettevano a classi emergenti di mettere in discussione i sistemi di credenze e idee che avevano incatenato intere popolazioni di servi della gleba per secoli. In Cina, in India, in Arabia, in Papuasia, c’erano grandi civiltà, certamente, ma nessuna di queste aveva le condizioni materiali per una rivoluzione in senso democratico, progressista, e solidale dell’immaginario collettivo. Ne conviene?
Ma il bello dei valori Occidentali consiste nel loro essere universali.
Dott. Onnis, ha mai letto il famoso discorso di Martin Luther King “Ho un sogno” per intero? Lo faccia, lo legga tutto per intero. In quel discorso il Reverendo King richiamava i valori Occidentali come strumento di emancipazione del suo popolo oppresso. Invece di invitare il suo popolo a rinnegare i valori occidentali, il Reverendo King invitava i neri d’America a rivolgersi a quei valori per rivendicare la promessa di libertà e dignità che i “Padri Fondatori” degli USA avevano iscritto nei fondamenti della nazione americana.
E a proposito di contro-corto-circuiti: sembra che lei sia a favore di una forza militare pan-europea, e si lamenti invece che il piano di riarmo sia diretto ad armare le nazioni europee. Ma se non esiste una forza pan-europea, come si deve difendere l’Europa domani? Aspettiamo 30 prima di avere forze operative pan-europee?
Cribbio, mi sovviene che lei diceva: “La stessa retorica del riarmo europeo non ha nulla a che fare con pretese minacce esterne. La Russia, una volta imposta la sua egemonia sui suoi confini e sulla sua sfera di interesse imperiale, non andrà certo oltre”.
Insomma, possiamo stare tranquilli che l’orso russo altro non sia, in realtà, che un simpatico orsacchiotto di peluche. Peccato per i paesi Baltici, la Georgia, la Moldavia, il Kazakhstan, che torneranno nella sfera imperiale russa, ma chissene, sono lontani da noi e non ci andiamo mica in vacanza, basta che non ci tocchino Parigi e le isole greche. Magari la Russia vorrà prendersi anche un corridoio polacco per unire Kaliningrad al resto della madrepatria russa (poco importa che meno di un secolo fa quella città si chiamasse Königsberg e avesse dato i natali a Immanuel Kant), ma chissene, la Polonia è lontana e ci fa freddo, la Russia se la tenga. Davai!
Io non le insegno nulla, soprattutto a proposito di letture datate e parziali di tesi ottocentesche.
Visto che le piacciono questi temi, forse qualche lettura nell’ambito degli studi post-coloniali non guasterebbe (Chakrabarty, Spivak, Bhabha, tra gli altri). E magari anche qualcosa di Abdullah Öçalan, sul confederalismo democratico (nessuno di loro è “europeo”).
La pretesa universalistica dei “valori occidentali” sarebbe molto più credibile se il cosiddetto Occidente li avesse seguiti e applicati diffusamente, a cominciare dai suoi stessi paesi, specialmente ai loro margini; cosa che non è mai avvenuta. Ma è un problema aperto, quello tra universalismo e particolarismo, tra generalizzazione dei diritti e tolleranza delle diversità culturali. Non lo risolveremo certo qui io e lei.
Ovvio che a essere minacciati dalla federazione russa siano prima di tutto i suoi vicini, storicamente nell’orbita (quasi sempre obtorto collo) dell’impero russo (nelle sue diverse incarnazioni). La loro sorte deve riguardarci, così come ci riguarda quella della Palestina e di altre realtà sotto minaccia o sotto attacco da parte di regimi stranieri e/o autoritari, colonialisti, razzisti, ecc.
Il problema rappresentato da Putin non è prima di tutto militare, bensì culturale e politico. Al suo regime importa soprattutto di non avere ai propri confini realtà politiche democratiche, società aperte. Spinge per circondarsi di regimi simili al suo o quanto meno assimilabili ideologicamente. In molti casi ha già ottenuto quel che vuole. Lo vediamo persino dentro la stessa UE, con Ungheria e Slovacchia e la stessa Italia, senza menzionare l’appoggio, finanziario e politico, a tutti i partiti di estrema destra o apertamente fascisti e la costante “guerra cibernetica” ai danni dell’Europa. Da questo tipo di conflitto non ci si difende con i carri armati, anche perché rischierebbe di diventare una guerra civile, ma la partita fin qui l’Europa la sta perdendo su terreni diversi da quelli dello scontro bellico.
Cominciamo a parlarci francamente, in Europa, e a fare i conti con la nostra storia. A fare i conti col fallimento acclarato della forma stato-nazione, soprattutto oltre una certa dimensione (e sono gli stati grandi a pretendere di avere ancora un peso e una forza che non hanno affatto). Ridiscutiamo i fondamenti delle relazioni internazionali e gli assetti produttivi e commerciali (con tutte le loro implicazioni) discendenti dal modello capitalista dominante. Magari ne verrà fuori qualcosa di buono. Tanto, al momento, siamo ancora e chissà per quanto una provincia dell’impero USA; magari la più importante (come sostiene Dario Fabbri, che non è il mio punto di riferimento geo-politico, ma dice cose originali, se non altro), ma sempre provincia. Nel frattempo tre quarti abbondanti dell’umanità stanno pensando ad andare avanti a modo loro, a prescindere da noi, se non proprio in conflitto con noi. Con, sullo sfondo, il problema decisivo – sempre rimosso dalle discussioni – che di pianeta abitabile ne abbiamo solo uno, a disposizione, e non è che lo stiamo trattando proprio bene.
Non mi sembra che stiamo centrando il punto. Parlo in generale. Stanno prevalendo gli istinti più bassi e gli interessi più volgari e a corto respiro dei gruppi sociali dominanti della nostra specie. Se a lei va bene così…
P.S. Mi piacerebbe sapere chi si nasconde dietro il suo nickname e le sue cangianti caselle di posta elettronica, di cosa si occupa, perché bazzica da queste parti, visto che non le piace quello che ci trova. Ne ho avuti altri, nel tempo, di interlocutori siffatti (sperando che non sia sempre lo stesso: sai che tristezza!). Temo che la mia resterà una curiosità insoddisfatta. Me ne farò una ragione.