Il prezzo da pagare nella transizione storica dal tardo-capitalismo a qualsiasi cosa verrà dopo potrebbe rivelarsi alto, per una fetta consistente della popolazione mondiale, non esclusi i ceti medi e bassi e le minoranze del continente europeo. Focalizzarsi su uno o l’altro degli epifenomeni enfatizzati dalle cronache rischia, come sempre, di farci sfuggire il quadro generale e toglierci lucidità a proposito dei processi profondi.
I conflitti in corso, l’elezione di Donald Trump, una certa deriva destrorsa in corso in Europa sono le increspature di un onda lunga e profonda. Per questo da qualche anno parlo di transizione storica: è come se il vecchio stesse morendo, ma all’orizzonte non si scorgesse ancora il nuovo. È la classica situazione in cui Gramsci intravvedeva (a ragione) i rischi più grandi.
Interpretare il conflitto politico con gli schemi e le cornici novecentesche non serve a nulla, se non a manipolare e/o mobilitare gruppi legati ad appartenenze puramente simboliche, ma ormai prive di un referente concreto.
La stessa etichetta di fascismo va usata con giudizio. Non perché sia una minaccia inesistente (come sostenevano benpensanti liberali e esponenti del centrosinistra, specie PD, quando se ne parlava negli anni pre governo Meloni), bensì proprio perché è una minaccia che in parte si sta già traducendo in atto.
A questo proposito, va segnalato uno degli equivoci più stranianti di questo periodo, fonte di dissidi all’interno di quello che dovrebbe essere l’ambito della sinistra sociale, politica e culturale.
Anche in questo caso, il problema nasce nell’applicazione, strumentale o ingenua a seconda dei casi, di quadri interpretativi sostanzialmente a-storici, quasi metafisici. L’anti-americanismo e l’ostilità retorica verso la NATO, l’incomprensione delle dinamiche storiche degli ultimi cinquant’anni, una certa mal riposta nostalgia verso l’URSS e altre fallacie logiche e concettuali conducono molte persone e interi gruppi verso pericolosi avvicinamenti alla destra estrema, rossobruna o fascista tout court.
L’abbiamo visto nel caso della guerra in Ucraina, così come in precedenza a proposito del conflitto siriano e in altre circostanze ancora. Fino ad arrivare al cortocircuito del tifo per Putin e al contempo per Hamas e persino per Trump. Cortocircuito speculare a quello dei conservatori, dei “liberali” e dei sacerdoti della supremazia dell’Occidente (tutti sinceri democratici) che tifano per il proseguimento della guerra in Ucraina (più che per l’Ucraina), in funzione anti-russa, e per Israele, in quanto propaggine “occidentale” (quindi giusta e civile) nell’ostile Medio Oriente (o Asia Mediterranea, sarebbe meglio dire).
Intanto il mondo va per conto suo e la prosopopea della civiltà europea, nelle sue varie diramazioni, suona sempre più ridicola, a fronte dei propri fallimenti, delle proprie ipocrisie e del crescente peso delle altre civilizzazioni umane. Che non sono necessariamente più ignobili o illegittime della nostra.
Al contempo, sarebbe auspicabile che la presunta superiorità “occidentale” venisse dimostrata nei fatti, promuovendo e realizzando ciò che nelle retoriche dominanti la giustifica: democrazia, inclusività, diritti, dialogo interculturale, solidarietà internazionale, impegno ambientale, ecc. Ma è proprio su questo fronte che l’Occidente ha fallito storicamente.
L’equivoco drammatico su questo punto, in una parte consistente delle sinistre europee (di cultura europea), è non vedere che il superamento dialettico di questo impasse non può avvenire rifiutando la civiltà europea tout court.
Auspicare la distruzione dell’egemonia USA sulla civiltà europea e sull’intero pianeta può essere una prospettiva sana e condivisibile, a patto che non sia a qualsiasi prezzo. Senza considerare che del resto del mondo, perlopiù, gli ossessionati dalla geopolitica sanno davvero poco o nulla. E non hanno nemmeno tanta voglia di saperne di più.
La civiltà europea, compresa la sua propaggine nordamericana, ha avuto successo tramite le sue due facce: secoli di conquiste politiche e civili all’interno (a prezzo di guerre e tragedie immani, va detto) e colonialismo, imperialismo e razzismo sistemico verso l’esterno. Il tutto condito dall’imposizione globale del modello economico capitalista, con la sua potentissima dotazione ideologica.
La forza egemonica delle classi ricche europee si è fondata sulla supremazia tecnologica e militare e sulla (falsa) buona coscienza delle proprie intenzioni. Fin dalle crociate gli europei hanno dato per scontato di avere il diritto di conquistare terre altrui e asservirle ai propri interessi e alla propria civilizzazione. Quando il mondo si è improvvisamente ingrandito, questo modello è stato espanso su scala planetaria, salvo poi sostituire al proselitismo cristiano quello capitalista. La stessa “democrazia” è diventata ad un certo punto un vessillo ideologico dietro cui commettere le peggiori nefandezze.
Unico intoppo in questo processo plurisecolare è stato, per una strana ma direi prevedibile contorsione interna dell’apparato ideologico europeo, l’avvento sulla scena della critica alla civiltà europea stessa e ai suoi fondamenti ideologici. Non a caso di parla di Marx, Nietzsche e Freud come dei tre grandi smascheratori. Ci aggiungerei Gramsci e qua e là qualche altro nome, comprese le grandi costruzioni teoriche della scienza contemporanea, specie la relatività, la meccanica quantistica e i teoremi di incompletezza di Gödel. Nell’insieme, la cultura europea ha elaborato dentro se stessa la propria dissacrazione.
Un lungo periodo, culminato negli anni tra fine dei Sessanta e primi dei Settanta del secolo scorso, ha prodotto un enorme patrimonio di concetti, di proposte teoriche e di pratiche che metteva in radicale discussione proprio la legittimità della superiorità europea sul mondo e cercava di imporre un modello di convivenza umana più solidale, giusto, libero.
Certo, con molte contraddizioni, inevitabilmente. Lo stesso comunismo è diventato, nelle sue realizzazioni storiche, un tradimento delle sue stesse premesse. Il mancato superamento del dogmatismo e dell’autoritarismo, le schematizzazioni rigide cui la Guerra fredda costringeva la militanza politica e intellettuale hanno sterilizzato un’eredità di pensiero e possibilità concrete altrimenti ben più feconda. Anche lì l’ossessione geopolitica ha giocato brutti scherzi.
La crisi di molte coscienze comuniste e in generale di sinistra in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) e poi della repressione della Primavera di Praga (1968) hanno segnato profondamente il processo di costruzione di un’alternativa democratica e popolare dentro la civilizzazione europea. Negli stessi anni in cui le nuove generazioni chiedevano invece un superamento in avanti dell’ordine sociale borghese, capitalista e consumista già in vigore.
Tutto ciò che è stato conquistato nel secondo dopoguerra e fino ai primi anni Settanta del ventesimo secolo è stato attaccato, messo sotto assedio, debilitato e infine sconfitto da un processo di reazione che ha avuto notevoli mezzi a propria disposizione. Processo di cui sono state protagoniste le parti più retrive e rapaci delle classi dirigenti europee e nordamericane in combutta con l’apparato industriale e militare prima e poi, non in sostituzione ma in aggiunta con quello finanziario. Non un complotto ordito in qualche segreta stanza da poche menti diaboliche, ma un insieme di azioni, scelte politiche, articolazioni materiali, sostenuto da ideologie coniate o rinverdite all’uopo.
L’ideologia cosiddetta (per semplificare) neoliberista o neoliberale, basata sulle elaborazioni di Friedrich von Hayek e soprattutto di Milton Friedman e della “scuola di Chicago”, ha trovato applicazione nelle politiche dei governi Thatcher e Reagan, imponendosi nell’ambito degli studi economici e piegando ai propri dogmi l’intera politica economica europea. Fino a oggi. Dalla fine degli anni Settanta è come se le lancette dell’orologio storico fossero state riportate indietro di un secolo.
Ma a dire il vero, se si guarda alla storia contemporanea europea, diciamo dalla Rivoluzione francese in poi, è facile osservare come le prospettive di progresso sociale e culturale siano state combattute senza quartiere e con ogni mezzo ovunque si siano presentate. Dalla Comune di Parigi in poi c’è stato un lavorio costante di delegittimazione di ogni possibile alternativa endogena, popolare, democratica all’ordine costituito realizzato, protetto e perpetuato dai ceti ricchi e dai loro portavoce politici.
Ogni conquista sociale e politica è costata sangue e vite umane e, se non fosse stato per l’inopinata presa del potere dei bolscevichi in Russia, quale che sia il giudizio che possiamo dare dei suoi esiti, non ci sarebbe stato nemmeno il “trentennio d’oro” post seconda guerra mondiale.
Dopo il fallimento storico e la fine dell’URSS, il tentativo di globalizzazione consumistica a guida USA ha avuto un momento di successo, specie in termini di egemonia culturale, senza ovviamente mantenere alcuna delle promesse fatte dal liberismo. Ma è stata una parentesi, Quella fase è finita. Il mondo è cambiato. La gran parte del pianeta è abitata da genti che non si riconoscono nella civilizzazione europea a guida statunitense. In certi casi la considerano nemica, o comunque rivale. E la vecchia Europa non ha alcun argomento solido per pretendere che si riconosca ancora, senza discutere, la sua supremazia morale e culturale.
Alla fin fine, una delle vittime di tutto questo sconvolgimento in corso è proprio l’Europa. Per propria responsabilità. O meglio, per responsabilità dei suoi ceti politici e per la stupidità dei suoi gruppi (economicamente) dominanti. Ora che negli USA sta per salire al governo per la seconda volta Donald Trump, ben sapendo cosa ci aspetta, i governi europei si dimostrano divisi, illusi, ottusi, incapaci di una prospettiva che non sia conservativa, vecchia, incompatibile con le dinamiche storiche attuali.
Lo scenario che ci si sta dispiegando davanti a me ricorda pericolosamente quello di un bel romanzo per ragazzi (ma non solo) di pochi anni fa, di cui avevo parlato qui su SardegnaMondo: Fiume Europa, di Andrea Pau Melis e Andrea Atzori. Una distopia a cui mi pare che ci stiamo avvicinando a grandi passi.
Come ho argomentato più volte (per es. qui, qui e qui), la finta opposizione tra un ordine liberista, blandamente autoritario, antipopolare e conservatore da un lato e la deriva populista reazionaria e fascista dall’altro non ci offre alcuna possibilità di salvezza collettiva nemmeno nel medio periodo.
Lo svuotamento della democrazia rappresentativa non si contrasta con l’affidamento a leadership carismatiche senza mediazioni (il cui modello di riferimento è appunto, ancora e sempre, Mussolini). Ma non si contrasta nemmeno restringendo ulteriormente gli spazi di partecipazione popolare, le possibilità di alternative politiche dal basso, delegittimando le prospettive che non rispettano l’ordine costituito (come, per dire, ha fatto di recente la presidente della Regione Autonoma Sardegna, Alessandra Todde).
In generale, bisogna uscire dalla trappola ideologica delle coppie oppositive obbligate (che, declinata in modo volgare e meschino nello scenario politico odierno, in Sardegna come in Italia, significa anche dover scegliere tra le due facce della stessa medaglia di fango, centrodestra e centrosinistra). In proposito (e anche su altri aspetti), sono illuminanti le tesi di Donna Haraway.
Bisogna uscire anche dalla trappola ideologica del neoliberismo (o quel che è). Non ricadendo in vecchi e inutilizzabili schemi concettuali, ma con uno sforzo di fantasia. In questo caso, continuo a promuovere gli studi economici dello “sviluppo su scala umana”, che coniugano rigore scientifico e rispondenza alle concrete necessità della vita.
Se ha senso provare a difendere la vecchia Europa e i suoi popoli in questa fase storica così delicata, ce l’ha solo in nome di un superamento in avanti della crisi. Ossia, di una ulteriore conquista democratica. Il che implica una profonda revisione dei meccanismi di decisione politica a livello continentale e locale e il superamento degli stati-nazione così come ereditati dai due secoli precedenti.
In un’ottica confederale e solidale, aliena tanto da qualsiasi pulsione tecnocratica oligarchica quanto dalle derive identitarie, nazionaliste, reazionarie.
Lo stesso discorso della “difesa comune” europea assume significati diversi a seconda della prospettiva in cui è inserito. Se la prospettiva è la difesa delle classi dominanti attuali e dell’ordine sociale e politico così come si sta imponendo in questi anni, allora è un discorso da respingere in toto. Alla fine, si tratta solo di alimentare ancora e sempre di più l’industria bellica e il suo indotto di corruzione e degrado umano. La stessa difesa del diritto dell’Ucraina a esistere (diritto sacrosanto) cambia di senso se la si attua in una prospettiva di progresso sociale e politico, di solidarietà internazionale, di pace o se invece, come si fa adesso, la si sbandiera solo come pretesto per proseguire nei soliti giochi geopolitici e per perpetuare lauti affari a vantaggio di una parte del capitalismo continentale e nordamericano.
Così come è stato per la pandemia, contraddittoria occasione in cui alla solidarietà e allo sforzo comune di affrontare una crisi generalizzata si è sovrapposto presto, fino a sopravanzarlo, soprattutto in Italia, il solito teatro propagandistico a sostegno di misure autoritarie, repressione del dissenso e business senza scrupoli.
Sono tutte situazioni in cui la “sinistra”, qualsiasi cosa voglia dire oggi questa locuzione, si è spaccata e ha dato pessima prova di sé.
Senza uno sforzo di elaborazione nuovo, senza tenere fermi i punti cardine di una vera prospettiva di emancipazione collettiva – diritti, eguaglianza, solidarietà, anti-imperialismo e anti-colonialismo (da qualsiasi parte provengano), responsabilità ambientale, difesa dei beni comuni, autodeterminazione delle persone e dei popoli, pace – la china in cui stiamo scivolando diventerà sempre più ripida, conducendoci dritti verso lo sprofondo della peggiore oscurità storica. E non sarà colpa della Cina, o della Russia, o dell’islam, o degli USA o di chissà chi altri.
“La forza egemonica delle classi ricche europee si è fondata sulla supremazia tecnologica e militare e sulla (falsa) buona coscienza delle proprie intenzioni. Fin dalle crociate gli europei hanno dato per scontato di avere il diritto di conquistare terre altrui e asservirle ai propri interessi e alla propria civilizzazione.”
Mi fermo un attimo a riflettere su questo punto che, a parer mio, dimostra i cortocircuiti intellettuali che, come nella parabola della trave nell’occhio, sono attribuiti ad altri, mai a se stessi.
Le crociate erano una conquista di terre altrui, ma altrui di chi? Fino a 100 o 200 anni prima delle crociate quelle terre erano terre cristiane e nell’orbita dell’impero romano e il suo erede legittimo e riconosciuto, l’impero Bizantino. Il cristianesimo in Egitto si era evoluto in forme originali. Senza andare lontano, se uno frequentasse il museo archeologico di Cagliari con attenzione, potrebbe riconoscere quanto Cagliari e la Sardegna fosse nel mezzo di un mondo dove il Nord Africa, il Medio Oriente, la Sardegna, Roma, l’Italia, e la Grecia avevano un sostrato culturale comune e riconosciuto. Nonostante le differenze, un sardo in Nord Africa, o un Greco a Cagliari, non si sarebbero sentiti tanto di essere in terre “altrui”.
La conquista araba fu una cesura traumatica in questo mondo e diede il via ad un processo che rese quelle terre davvero terre “altrui”. La nozione di un mondo occidentale contro quello orientale nasce allora da questa cesura.
Quindi, riflettendo, gli Arabi avevano il diritto di conquistare quelle terre che per quasi un millennio erano state romane e bizantine, ma gli Europei dopo 100 o 200 anni non ne avevano diritto perché erano diventate terre “altrui”. Mannaggia al cortocircuito!
Ora che ci sono, un’altra riflessione: ma da dove veniva la superiorità tecnologica dell’Europa? Un argomento interessante, non crede? Veniva dal caso, dal clima, dalla geografia? Alcuni dicono che venisse dal tipo di istituzioni che esistevano in Europa. A proposito di crociate,la Repubblica di Venezia che era parte interessata, aveva un sistema chiamato “commenda” che permetteva a un commerciante con liquidità di finanziare commercianti senza risorse finanziarie ma che accettavano di correre i rischi di viaggi commerciali in Oriente: se l’impresa andava a buon fine, i due commercianti si dividevano i profitti in parti uguali. Quindi questo sistema apriva le porte del commercio e della ricchezza a individui senza patrimoni ereditati o privilegi. Forse per questo la Repubblica di Venezia era anche all’avanguardia nella scienza e tecnologia, specie quella applicata alle imprese marinare.
A dire il vero, il mondo Arabo al tempo delle crociate aveva anch’esso istituzioni di questo tipo, e la stessa rivoluzione religiosa aveva aperto le porte a molti individui che sistemi statici di privilegi avevano negato per secoli. Accadde che il mondo Arabo nel tempo perse quei sistemi per cristallizzarsi e chiudersi: le recenti rivoluzioni arabe erano fomentate da giovani e classi istruite per reclamare maggiore apertura e opportunità. Quell’apertura e quel dinamismo che, invece, era continuato in molti paesi Europei.
Cordiali saluti
Commento interessante, al netto del solito vezzo di delegittimare gli argomenti altrui attribuendoli a “cortocircuiti intellettuali” ed altre entità immaginarie. Non ce n’è bisogno. Basta dichiarare di essere di un’altra opinione e argomentarla di conseguenza.
Lezioncina (non richiesta) finita.
Mi pare che nel suo commento ci siano dei salti logici evidenti. Dire che quelle terre (ossia, la vicina Asia mediterranea, tra Siria, Libano, Palestina, grosso modo) fossero state precedentemente “cristiane”, parte della civiltà greco-romana e successivamente sottomesse all’islam, dimostra quanto siano deboli i discorsi geopolitici. La storia è varia e dinamica, le sovrapposizioni e i meticciamenti costanti. Dagli studi di Pirenne in poi è rimasta piuttosto forte la concezione della conquista araba come una cesura epocale tra le più rilevanti della storia mediterranea ed europea. Non ho nulla in contrario, a patto di non trarne indicazioni ulteriori, di tipo politico, magari applicate al nostro tempo.
Ricordiamo che nell’islam esistette da sempre e a lungo, fin sotto l’impero ottomano, una larga tolleranza verso ebrei e cristiani. Viceversa, l’Europa cristiana fu sempre estremamente sospettosa verso le comunità israelite e del tutto ostile verso quelle islamiche. Mentre nei possedimenti prima dell’impero arabo poi di quello turco sono sempre esistite chiese e sinagoghe, nell’Europa cristiana non è mai stata tollerata l’esistenza di una moschea (e furono rapidamente ri-cristianizzate quelle spagnole, dopo la reconquista) e le comunità ebraiche dovettero sempre stare sul chi vive, tra un pogrom e l’altro. L’imperialismo, come dico nel post che stiamo commentando, non è un male solo europeo, certamente. Ma dall’età moderna in poi l’Europa si è data da sola il ruolo di dominatrice legittima del mondo.
In proposito, gli studi e le ricostruzioni storiche abbondano. Non starò qui a farne un elenco (che sarebbe comunque parziale). Indico però almeno due testi, non propriamente storiografici, che possono tornare utili per approfondire i temi di cui ho accennato qui: Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, di Jared Diamond (pubblicato in Italia da Einaudi, testo per altro notissimo) e L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, di David Graeber e David Wengrow (Rizzoli). Diciamo che in questi due testi ci sono parecchie risposte ai suoi dubbi e alle sue obiezioni. Compresa quella relativa alla superiorità tecnologica europea, alle sue cause e alle modalità con cui le élite europee l’hanno sfruttata.
In ogni caso, ragionando sul nostro tempo, vorrei capire se dobbiamo ancora e sempre ragionare in termini di scontro di civiltà, di contrapposizioni geopolitiche, di inevitabilità della guerra, ecc. o se invece è lecito proporre una visione diversa, non necessariamente conflittuale (partendo però proprio dall’accettazione del conflitto, compreso quello interno alle cosiddette nazioni, non dalla sua rimozione), non necessariamente basata sui meri rapporti di forza.
La stessa democrazia esiste solo in quanto ammetta la diversità, la complessità e il conflitto che ne può derivare. La democrazia è regolazione del conflitto col rispetto per tutte le parti in causa, pure quelle minoritarie o soccombenti, ed è fatta non solo di voto a scadenza quinquennale o quel che è, ma prima di tutto di diritti, eguaglianza, inclusione, dinamismo sociale. Definirsi democratici e negare tutto questo è una contraddizione. Eppure sta succedendo. Anche nei civilissimi paesi di cultura europea, democratica e liberale. Per altro, è già successo in passato ed è stato un disastro.
C’è un grosso problema di declino e di mancanza di prospettive, nell’Europa di oggi, che non sarà risolto enfatizzando presunte e pretese superiorità morali o continuando a cercare nemici esterni e diversivi. Le guerre di questi anni dimostrano che l’Europa, così com’è, sta soccombendo a logiche miopi e a dinamiche storiche che le sue élite non sono più in grado di controllare e nemmeno di influenzare più di tanto. Direi che ce n’è abbastanza per provare a fare uno sforzo di riflessione che superi gli schematismi ereditati dal passato – sempre piuttosto auto-indulgenti – senza comunque buttare a mare il bambino con l’acqua sporca. Nessuno ci impone di rinunciare al buono prodotto dalla civiltà europea nei secoli. Questo è uno dei nuclei tematici del mio post. Non dobbiamo rinunciarci nemmeno in nome della lotta contro le storture della stessa civiltà europea (a guida USA), o nel conflitto (auspicato? preparato?) contro altri popoli ed entità politiche.