Può sembrare strana la confusione in cui sono stati gettati molti osservatori sardi e italiani (o sardo-italiani, in alcuni casi) relativamente al risultato delle elezioni generali britanniche dell’altro ieri.
Può sembrare, ma non lo è affatto.
Le cornici attraverso le quali interpretiamo sempre le cose umane sono legate al nostro essere, a volte a dispetto delle nostre intenzioni dichiarate, perciò non di rado gli equivoci sono inevitabili.
Ma è un problema nostro, non dei fatti in sé.
I mass media non aiutano, in questo senso. Per lo più replicano la visuale dei propri padroni, universalizzandola, e ne ricalcano i timori, o i vezzi.
Chi fa politica, a qualsiasi livello, si preoccupa prevalentemente di trovare similitudini e vicinanze anche dove non ci sono, quasi sempre per legittimare se stessi, salvo poi non sapere che pesci prendere davanti a esiti reali che non si incastrano in alcuno schema precostituito.
A proposito del vasto fronte di contestazioni verso il potere in atto ai quattro angoli del globo ormai da mesi, pochi hanno tentato di usare uno sguardo per lo meno onesto, obiettivo, per cogliere i nessi e le consonanze epocali di tale fenomeno.
Se poi scendiamo più nel dettaglio e ci atteniamo solo allo spazio europeo, non è che la confusione sia meno accentuata.
Il rischio di ritrovarsi a tifare per i cattivi di turno è dietro l’angolo. Basta un niente e le contraddizioni della realtà umana ci scoppiano tra le mani, lasciandoci privi di certezze.
Tanto più, quanto più insistiamo a voler semplificare e piegare la storia a una banale dialettica tra due poli opposti, a schematizzare la realtà come fosse una partita di calcio. Con tifo annesso.
Un evento di cronaca come le elezioni britanniche, così aliene per tanti versi da ciò che è abituale nel contesto politico-mediatico italiano, si prestano bene a scatenare la confusione tra i vari detentori di verità di comodo.
In particolare sul versante del tifo pro Unione Europea e anti sovranista e su quello della sinistra dogmatica e (implicitamente? inconsciamente?) nazionalista italiana.
Secondo questi punti di vista (tutt’altro che neutri) i pro Brexit sono cattivi perché contrari all’UE (e l’UE è un bene). Gli Scozzesi (e i Catalani), tuttavia, sono cattivi perché, nonostante siano tendenzialmente pro UE, lo sono a patto di stare fuori dal Regno Unito (e dal Regno di Spagna), il che è un male.
I nazionalismi “di stato” invece sono buoni. Primo, perché sono legittimati dalla legge e dalle costituzioni (specie quella più bella del mondo). Poi perché sono arrivati prima e ormai come si fa a contestarli?
Ormai sono “storia” e la “storia” non si può riscrivere.
I sovranisti, che sono anch’essi nazionalisti e a favore degli stati così-come-sono, però no, non sono buoni. Ma non perché sono fascisti o giù di lì, sia chiaro. Il fascismo non esiste, è storia vecchia (si sostiene da quelle parti).
Tanto meno sono buoni gli indipendentisti (e, se di sinistra, peggio che mai!).
Tutto chiaro, fin qui? No? Be’, è inevitabile.
Questa ricostruzione può sembrare superficiale e di parte, ma mi pare al contrario fin troppo aderente alla pochezza del dibattito pubblico nel merito di questi temi.
Temi complessi, appesantiti da una zavorra storica di cui non si può non tenere conto, e al contempo completamente attuali, interni ai processi oggi in corso, come tali difficilissimi da ridurre a dati di conoscenza maneggevoli.
C’è un fermento generalizzato, nel mondo, e mi pare non ci sia tanto da obiettare, su questo punto.
Ci troviamo in una delicata fase di transizione. È come se stesse terminando un’epoca storica, senza che si intravveda la sua conclusione e tanto meno cosa verrà dopo.
Di sicuro ci stanno presentando il conto i problemi che sembravano ridimensionati o risolti o comunque tenuti a bada nei decenni scorsi.
La pretesa che il mondo avesse finalmente trovato un suo modello socio-economico e politico, grosso modo applicabile ovunque, e che bastasse adeguarsi a esso, magari al prezzo di qualche guerra, di qualche esportazione di democrazia, si sta rivelando in tutta la sua fallacia.
Purtroppo è un’illusione ancora molto robusta, in termini ideologici, perché funzionale al mantenimento e alla legittimazione di un certo modello produttivo, di un certo tipo di rapporti sociali e politici, di forme di dominio consolidate.
Le classi dominanti del pianeta, tuttavia, sono costrette sulla difensiva. Il problema è che detengono i mezzi per difendersi.
Non solo il monopolio legittimo della forza, ma anche un ampio controllo sulle informazioni, una notevole capacità di ricatto, l’accesso ai ruoli decisionali anche negli ordinamenti formalmente democratici.
Il confitto oggi verte, un po’ ovunque, sulla distanza tra le forme e la sostanza, tra le aspettative di libertà, diritti, qualità della vita da una parte e la cruda realtà di diseguaglianza, corruzione, potere oligarchico, autoritarismo, repressione dall’altra.
Le istanze democratiche e la contestazione dell’ordine costituito assumono di volta in volta, a seconda della collocazione geografica e culturale, degli aspetti peculiari.
Occorre leggere correttamente questi fenomeni.
Non è vero che esiste un problema di nazionalismi diffusi contro cui difendere le conquiste democratiche. Questa è una lettura semplicistica e di comodo.
Non esiste, né storicamente né nell’attualità, UN nazionalismo.
E non si possono mettere sullo stesso piano le istanze democratiche ed emancipative, in cui sono presenti anche processi di autodeterminazione, con gli autoritarismi e i conservatorismi nazionalisti degli stati, dell’UE e dei sovranisti (o fascisti più o meno dichiarati che siano).
Scozzesi e Catalani non rappresentano una forma di nazionalismo etnico, esclusivo, isolazionista, bensì un’aspettativa di autodeterminazione democratica, plurale aperta al mondo, socialmente avanzata.
Al contrario l’establishment britannico e ancor più quello spagnolo sono portatori di un nazionalismo “di stato” che difende un assetto politico palesemente oligarchico, reazionario sul piano dei valori e dei diritti, esclusivo e chiuso.
La stessa UE, che viene contrapposta ai sovranisti e agli indipendentisti come se si trattasse di uno stesso nemico, non è altro che un apparato di potere in mano ai governi, ai tecnocrati, ai grandi centri di interesse finanziario. Non certo ai popoli.
La partita, come ho già avuto modo di argomentare, non è certo tra sovranismi e tecnocrazia europea. Quello è un gioco delle parti, utile alla reciproca legittimazione, in funzione anti-democratica.
E i processi di autodeterminazione, le richieste di democratizzazione e di ridisegno dei confini, dei poteri locali, delle relazioni tra i popoli europei (e non solo), non sono la stessa cosa della difesa reazionaria degli assetti consolidati negli ultimi due secoli.
Soprattutto in relazione alla condizione sarda, non è legittimo e nemmeno onesto attribuire uno stigma negativo alle istanze indipendentiste e autodeterminazioniste diffuse nell’isola.
Soprattutto se lo si fa per difendere – senza ammetterlo – il nazionalismo “di stato” italiano, su cui si fonda l’esistenza stessa di quell’artificio storico che è l’Italia attuale.
Se proprio vogliamo discutere dei nazionalismi, oltre a fare le giuste distinzioni tra le loro varie forme, vanno anche e prima di tutto presi in considerazione *tutti* i nazionalismi.
Compreso il nazionalismo italiano, così decisivo per le sorti dello stato stesso. Per altro non è nemmeno tra i meno peggio, in un’ipotetica classifica dei nazionalismi. Tutt’altro. È uno dei più biechi.
È storicamente un nazionalismo passivo-aggressivo, che si è macchiato, in poco più di un secolo e mezzo, di crimini orrendi (vedi avventure coloniali e fascismo) e di bassezze inaudite (compresa la strategia della tensione).
Un nazionalismo violento, intimamente colonialista, eticamente meschino, storicamente senza alcun solido fondamento.
Eppure è quello che in Sardegna si contrappone, spesso implicitamente (dunque in modo disonesto), alle istanze democratiche di riscatto storico e di indipendenza, alle quali soltanto viene attribuita l’etichetta di comodo di “nazionalismo”.
Allo stesso modo in cui si attribuisce ai popoli o alle minoranze in lotta la qualifica di “terrorista”.
Ma di suo il termine “nazionalismo”, almeno in ambito politologico, non ha un’accezione negativa.
Solo in ambito culturale (e linguistico e politico) italiano, quindi anche in Sardegna, ha una connotazione negativa, per ragioni storiche e di (falso) pudore.
Andrebbe fatta chiarezza, intorno a questo concetto, prima di usarlo come etichetta degradante contro istanze a cui si è ostili.
Se è egoista l’aspirazione di una collettività umana a decidere per sé, lo è in tutti i casi. Non può essere bene per alcuni e male per altri.
Tutta la retorica risorgimentalista e sciovinista di cui è infarcita la cultura italiana, la politica (in primis quella sovranista), la stessa odonomastica, si basa sull’assunto che l’Italia, considerata un’entità storica da sempre esistente, avesse e abbia il diritto alla propria indipendenza.
Senza problematizzare mai né articolare storicamente questa istanza.
Lo stesso diritto però non lo si riconosce ad altri, tanto meno alla Sardegna.
Tutte queste contraddizioni non sarebbero che un oggetto di dibattito meramente teorico, se non avessero così tanto a che fare con la vita concreta di tutti noi.
A maggior ragione è inaccettabile la loro rimozione dalla sfera dei temi legittimi, presentabili, degni di rilievo.
Caso mai va sottolineata ancora una volta l’assenza o la reticenza o peggio ancora la propaganda ostile di una larga fetta della nostra intellettualità istituzionale.
Il che dimostra anche una certa mancanza di prospettiva sovra-provinciale, uno sguardo miope o astigmatico sulle cose del mondo, una paura paralizzante del confronto e la mancata accettazione di una responsabilità pubblica.
Inutile sperare di capire fenomeni complessi come quelli che agitano il Regno di Spagna e la Catalogna, o il Regno Unito e la Scozia, e i rispettivi rapporti con l’Unione Europea, o le ribellioni nei paesi arabi, o nell’America Latina, se non si ha una coscienza politica ben formata, solidamente ancorata alla propria realtà storica e intellettualmente onesta.
Prima di tutto, dunque, andrebbero chiariti il significato e il ruolo storico di concetti come nazione e nazionalismo, stato, forma di governo, autonomia, indipendenza, autodeterminazione, democrazia.
Esiste una vasta letteratura in merito, a livello internazionale, con approcci disciplinari diversi. Ne andrebbe tenuto conto.
Non si può alimentare la confusione su questi temi solo per disinnescare, in modo propagandistico, la comprensione diffusa del nostro passato recente e del nostro presente.
In nome di cosa? Di quali interessi? Di quali obiettivi? Perché è così importante difendere lo status quo di subalternità e dipendenza che ci sta distruggendo?
Pensiamoci e chiediamocelo, quando leggiamo sentenze sbrigative in proposito.
Carissimo Omar,
ho letto con piacere il tuo articolo è lo condivido pienamente sulla sostanza.
Ho però un piccolo appunto da fare. Ragioni, giustamente, sul termine nazionalismo e sul mal uso che se ne fa… verissimo…
Ma non fai altrettanto con un termine che usi spesso: sovranismo.
Perchè quello che intende Salvini è la sovranità nazionale, indipendentemente da quale forma statale si sia data, se una repubblica, un regno o una dittature ecc…
Questa è sovranità nazionale (ossia una forma di nazionalismo), ma esistono altri sovranismi.
Uno su tutti, la sovranità popolare!!
In catalogna il movimento indipendentista raccoglie il 48% dei consensi, ma quando si allea con i sovranisti (sovranità popolare, ossia coloro che sono favorevoli ad un referendum sull’autodeterminazione) arrivano all’80%
Come vedi in questo caso il termine ha un significato completamente diverso, anzi, direi opposto!
Stesso discorso sull’UE! Ho trovato assurdo che in italia ci sia stata gente che per protestare le manifestazioni di Salvini, mettesse le bandiere dell’unione alla finestra!! Perchè se ha un difetto l’unione europea, è proprio la mancanza di sovranità popolare!!! Oltre ad un parlamento che non è in grado di legiferare, e che ha un potere praticamente irrisorio, neanche più si parla di scrivere una costituzione europea, per paura dei referendum (ossia della sovranità popolare)! Rischierebbero una costituzione che non piace alle banche e alla finanza!!
E quindi usiamo le bandiere della banca e della finanza contro Salvini?!?!?!?!
Questa assurdità può avvenire solo perchè l’abilità salviniana (o almeno dei suoi comunicatori) gli ha permesso di appropiarsi (indebitamente) di un termine senza il suo aggettivo…. e se anche chi viene da altre sponde ideologiche gli regala la loro conquista… potremmo dire addio al concetto stesso di sovranità popolare e tornare dritti dritti verso una nuova epoca medioevale, dove la politica è solo lo scontro tra un signore e un’altro, o tra l’impero e la chiesa. Una politica in cui il popolo serve solo come braccia per portare armi nelle battaglie, o come limone da spremere per le tasse…..
Per concludere, penso che sarebbe necessaria, prima ancora di una discussione sul nazionalismo, una revisione del termine sovranismo, in maniera di potercene riappropiare in chiave popolare.
Il termine sovranismo, nell’ambito mediatico e politico italiano, ha assunto un’accezione abbastanza precisa. È una sorta di eufemismo per nazionalismo reazionario o addirittura fascismo. È un uso abbastanza scorretto della lingua, secondo me, innanzi tutto da parte dei mass media. È un uso diseducativo e anche diversivo, che crea fraintendimenti e lascia il campo libero a camuffamenti, trasformismi, fughe dalla responsabilità.
Tutto molto “all’italiana”.
È vero, in altri contesti culturali e politici il termine non ha il significato deteriore che gli è stato dato in italiano. ma se scriviamo in italiano è inevitabile assumerne il significato corrente e le connotazioni ad esso collegate.
Che sia sbagliato lasciare alle destre populiste (non popolari, attenzione!) la critica all’impianto dell’Unione Europea, alle sue premesse ideologiche e ai suoi esiti politici e sociali è un’osservazione giusta,secondo me. Infatti ne ho parlato io stesso a più riprese.
I cosiddetti sovranismi, o identitarismi, o nazionalismi di destra, non sono davvero un contraltare ideologico, etico e sociale della tecnocrazia oligarchica sostenuta dai governi europei. Si tratta di una falsa opposizione, molto retorica, agita soprattutto nello spazio virtuale della rappresentazione mediatica, più che dentro la dialettica sociale reale. Ed è una trappola, come ho avuto modo di argomentare più volte su SardegnaMondo.