Reduce dal Festival ad Alta Felicità di Venaus, mi porto dietro suggestioni eterogenee e immagini forti. Non ne parlerò. Non ancora, almeno.
Tra tutte le cose viste e sentite, però, mi preme riesaminare una questione emersa nel corso di un dibattito, a proposito del libro di Daniele Pepino e Walter Ferrari Escartoun. La federazione delle libertà (Tabor).
Discutendo di autonomia e autodeterminazione delle comunità, di imposizioni di modelli colonialisti, di minorizzazioni culturali e linguistiche (tutte cose che suonano incomprensibili ai sardi, no?), Serge Quadruppani, presente tra il pubblico, in un suo intervento ha sollevato l’obiezione della possibile deriva localistica ed escludente delle culture locali, enfatizzando invece la necessità dell’universalismo come contraltare salvifico e spesso persino desiderabile.
La possibilità di sfuggire, cioè, alla morsa delle chiusure identitarie particolaristiche grazie all’accesso a un panorama culturale, valoriale e pragmatico più ampio e condiviso, ulteriore e a tratti incompatibile rispetto alla mera condizione locale o alle singole culture specifiche.
Tra i tanti spunti emersi in quella discussione (lunga, partecipata, densa), mi è sembrato uno di quelli più fecondi.
Mi è venuto spontaneo, già lì per lì, intervenire per ammetterne la centralità. È una tematica decisiva, quando ci si occupa di emancipazione collettiva e di autodeterminazione, e richiama problemi che è inutile, o addirittura pericoloso, eludere.
La dicotomia “autonomia (intesa in senso lato) vs. universalismo” esiste, ma non è necessariamente uno scontro da cui è necessario che emerga un vincitore.
È invece una dialettica feconda, che può animare un nuovo modo di intendere le relazioni umane, partendo dal locale e ridisegnando il globale. Un globale, in questo senso, “su scala umana” (come direbbe Manfred Max-Neef).
La pulsione all’autonomia, al governarsi da sé, è insopprimibile in qualsiasi comunità umana appena definita. A definirla, al di là delle teorizzazioni essenzialiste, sono prevalentemente fattori contingenti ed esterni, come quelli geografici, le risorse disponibili, il clima, l’orografia, la fauna e la flora con cui interagisce.
Non è insomma questione di caratteristiche proprie, innate e immutabili delle singole comunità umane. A tal proposito rimane insuperata la lezione di Jared Diamond e del suo Armi, acciaio e malattie.
Ogni comunità umana, non appena superi un certo grado di complessità, produce cultura. Cultura in senso ampio, da quella materiale a quella artistica, musicale, narrativa e poetica.
E naturalmente, nella diversità di condizioni, latitudini e usi, si formano e si articolano le lingue umane, si generano narrazioni e si tramandano tradizioni.
Assumere tali fattori culturali come assoluti, perciò discriminanti e necessariamente divisivi, è una delle basi di qualsiasi etnocentrismo e di qualsiasi xenofobia. Su cui può allignare il razzismo (che è sempre un potente instrumentum regni).
Ma non solo. È proprio la dimensione autocentrata delle comunità, specie quando piccole, a diventare un limite. Chiunque, anche nell’Europa contemporanea, sia nativo di una piccola comunità, magari periferica, sa quanto possa esserne soffocante l’abbraccio.
L’incrostarsi e lo stratificarsi di usi, regole implicite ed esplicite, preponderanze religiose, gerarchie sociali risulta difficilmente scalfibile nel caso di una piccola comunità, al di là delle virtù e dei vantaggi che essa può offrire.
Solidarietà, condivisione delle risorse, riconoscimento dei ruoli, riparo dalle avversità sono opportunità che invece le piccole comunità di solito garantiscono ai propri membri più delle grandi collettività umane. Ma non sempre e comunque può non bastare a farne il posto migliore in cui vorresti vivere.
D’altro canto le collettività più vaste e variegate tendono ad essere in realtà omologanti, liquefatte e ricombinate al proprio interno dalla spersonalizzazione e dalla massificazione dell’organizzazione sociale, del consumo, delle stesse infrastrutture urbane, schiave di modelli e valori eteronomi quasi sempre subiti passivamente.
Rimane dunque insuperabile il bisogno di autodeterminazione. Un bisogno che discende dalla necessità di gestire le proprie risorse e le proprie relazioni, di rispondere a regole che si comprendono, di vivere dentro una sfera di valori, costumi, linguaggi e forme di socializzazione in cui ci si riconosce.
In più, nei casi più complessi (ossia di interi popoli e territori storicamente e/o geograficamente definiti), si tratta prevalentemente della possibilità concreta, storica, di raggiungere una qualche forma di democrazia e di emancipazione sociale, dentro una dimensione geografica e antropica proporzionata ai mezzi disponibili e alle reali possibilità di vita.
Il che è il nucleo fondamentale di qualsiasi autonomia e di qualsiasi autodeterminazione, molto più e molto più decisamente di qualsiasi discorso identitario e strettamente culturale.
Insistere nella pretesa che l’unica sfera emancipativa e liberante sia quella universalista conduce a forme di alienazione non facili da contrastare.
Inoltre non va dimenticato che le pretese universalistiche, nel corso della storia, hanno sempre costituito la base ideologica delle peggiori pratiche di dominio, da quelle fondate sulla religione a quelle di stampo squisitamente colonialista (la civile Europa al salvataggio dei popoli e dei territori “arretrati”).
Se si riuscisse a mantenere viva la dialettica tra l’autodeterminazione necessaria e una sfera più ampia di valori universali si potrebbero trarre vantaggi da entrambe.
La pulsione all’autonomia non diventerebbe mai soffocante ed escludente, perché esisterebbe un insieme di valori, idee, linguaggi, dispositivi, relazioni esterno, più ampio, il cui accesso consentirebbe di moltiplicare le possibilità di libertà.
Libertà intesa in senso plurale e concreto, non nel senso astratto e di comodo propalato dalle varie forme di individualismo egoistico. A loro volta sempre funzionali a processi politici di natura autoritaria e/o allo sfruttamento cleptocratico.
L’autonomia e l’autodeterminazione sarebbero il limite delle pretese egemoniche di qualsiasi universalismo e l’universalismo sarebbe il limite alla chiusura cui tutte le autodeterminazioni rischiano di ridurre la condizione umana.
Come si vede in questo discorso non ho citato la nazione, come soggetto storico di qualche rilevanza. L’idea di nazione che abbiamo oggi, figlia della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, è un’idea transeunte, su cui non si può fare affidamento per sempre né in senso assoluto.
Ma negare l’esistenza storica delle nazioni o sminuire l’assolutezza della loro rilevanza non significa negare l’esistenza dei popoli e delle comunità umane, né delle differenze culturali, linguistiche, demoantropologiche, sociali, economiche tra essi.
Significa piuttosto inquadrarle in un contesto dinamico, che tenga conto della realtà umana così come si presenta e si sviluppa nel tempo, ma senza assolutizzarne alcuni tratti, arbitrariamente, per usarli come strumento politico.
Vivere dentro la dialettica tra autonomie e universalismo può essere fecondo e produttivo, dunque, sia in termini socio-economici, sia in termini culturali, sia anche in termini politici.
Ma non è la dialettica prevalente, oggi. Dall’organizzazione del sapere istituzionale e dai mass media dominanti l’aspirazione all’autonomia e all’autodeterminazione viene facilmente liquidata come retriva, anacronistica, marginale.
Che si tratti del Movimento NoTav della Val di Susa o del processo di indipendenza catalano o di qualche mobilitazione di protesta contro grandi opere o speculazioni di vario genere in qualche territorio più circoscritto, le cornici concettuali e persino le parole utilizzate, nonché spesso le pratiche repressive sfoderate, sono sempre le medesime.
Viene invece enfatizzata a profusione un’altra dicotomia, quella tra tecnocrazia e nazionalismi (e/o populismi). In questo caso si genera artificiosamente una falsa dialettica, creando due elementi discorsivi senza referente concreto e assumendoli come soggetti politici generali e rilevanti, in opposizione tra loro.
Così, a seconda della propria parte e del proprio ruolo nel gioco, ci si rivolge a un interlocutore apparentemente ostile e alternativo, ma invece indispensabile.
È chiaramente una trappola, totalmente organica alle forme della cleptocrazia imperante, una messinscena dalle potenzialità reazionarie evidenti.
Non le sono estranee le retoriche contro l’immigrazione e contro l’islam, così come l’impiego sistematico della paura come arma di manipolazione delle masse.
Anche in questo la dicotomia autonomie-universalismo è utile.
Allo spauracchio dell’Europa intesa come dominio delle tecnocrazie, a cui bisognerebbe rispondere con il nazionalismo, la chiusura, la xenofobia e il protezionismo, andrebbe invece contrapposta un’Europa fondata sui suoi popoli reali, sui suoi territori, con le loro storie e le loro culture, dentro un quadro di reciproco riconoscimento (anche stabilito giuridicamente) e di libertà universali garantite.
È necessario riflettere su questo tema. Specie in un luogo come la Sardegna, dove è evidente che il quadro politico, sulla scorta di processi culturali profondi, si sta progressivamente spostando all’interno di un orizzonte sardo-centrico.
Assistiamo tuttavia al tentativo – non dichiarato né sempre evidente – di ricalcare, sull’isola, i dispositivi retorici e le pratiche narrative che egemonizzano il dibattito pubblico italiano ed europeo.
C’è inevitabilmente un forte interesse a mantenere povero e debole il dibattito politico, ossia a non delegittimare del tutto l’apparato di potere dominante.
Esiste già ed agisce alacremente una pletora di esponenti politici che, a prescindere dal proprio percorso, dalle proprie azioni e dalla propria collocazione attuale, si qualificano di volta in volta (facendo molta confusione) come autonomisti, identitari, nazionalitari, sardisti, sovranisti o persino indipendentisti.
Tra di loro ci sono personaggi che recitano la parte del fuoriuscito ostile, pur rimanendo nella stessa identica collocazione ideologica, solo rivestita di parole nuove, mutuate da un altro ambito.
Ci sono opportunisti indefessi, voltagabbana, arrivisti, semplici esecutori materiali di ordini altrui, ecc. E cominciano ad esserci razzisti, fascisti più o meno rivestiti, reazionari.
Un processo inevitabile, probabilmente, da seguire con attenzione, di cui però si parla poco, a volte si nega, di solito si sminuisce. Invece è una questione decisiva.
Riflettere sulla dialettica tra autonomie e universalismo, tra autodeterminazione e una sfera più ampia di valori e relazioni, non è un vezzo da intellettuali distaccati dalla vita reale, bensì una prima, robusta precauzione contro un futuro fatto di problemi strutturali irrisolti semplicemente confezionati dentro una nuova narrazione, apparentemente più accattivante.
Un antidoto a qualsiasi tentativo di rivoluzione passiva, insomma.
Aver focalizzato questo tema non è una delle cose meno preziose che mi porto dietro dal Festival ad Alta Felicità.