
Il festival Fàulas, di Assemblea Natzionale Sarda, tenutosi il 5 e 6 ottobre scorsi a Oristano, è stato l’occasione per tornare a discutere di questione linguistica sarda. Ne sono emersi spunti di ragionamento e anche qualche buon motivo per riprendere discorsi scomodi ma necessari.
Due i momenti rilevanti:
la proiezione del documentario di Marco Lutzu Versi paralleli, che mostra il viaggio di tre poeti sardi a bolu, rappresentanti delle varie scuole, assistere alla grande gara poetica tra i migliori bertsolaris (poeti e poetesse improvvisatori) del Paese, che si tiene ogni quattro anni, con enorme concorso di pubblico e massima attenzione mediatica;
la successiva tavola rotonda, moderata da Myriam Mereu, a cui ha preso parte, tra le altre persone convenute, Aingeru Mimentza, in rappresentanza della rete associativa culturale basca Euskalgintzaren Kontseilua.
Al di là della scoperta (per chi non avesse mai avuto a che fare con quel mondo) del bertsolarismo e oltre allo straniamento provocato dalla constatazione della popolarità di cui tale arte gode oggi, anche presso le giovani generazioni, nel Paese Basco, quello che mi ha colpito è stato il tema della standardizzazione della lingua, emerso prepotentemente dal documentario e chiarito poi da Aingeru Mimentza nel corso della discussione.
In Sardegna questo tema sembra ormai defunto, dopo anni di accese diatribe, per non dire vere e proprie guerre di religione, eppure rimane sullo sfondo, in un momento storico diverso da quello in cui la questione si pose, una ventina d’anni fa (ma con precedenti fin negli anni Settanta del secolo scorso).
Nel frattempo, nonostante le difficoltà oggettive in cui si dibatte la lingua sarda, non sono mancati i segnali di inversione di rotta. Intanto l’uso del sardo scritto è ormai diffuso, grazie ai social media e alle applicazioni di messaggistica. Non è un fenomeno di massa, probabilmente, ma nemmeno relegato a una nicchia ristretta di cultori. Andrebbe studiato e anche quantificato.
È aumentata di molto la pratica dell’uso del sardo tra persone di diversa provenienza isolana, con molte meno remore rispetto alle generazioni immediatamente precedenti.
In realtà, chi abbia frequentato l’università in Sardegna negli ultimi cinquant’anni sa bene che, quando più quando meno, il sardo è sempre stato usato tra persone sardofone di diverse zone dell’isola. Il fatto di ritrovarsi tra giovani sardoglotti, con un alto grado di istruzione, ha sempre favorito il superamento di quelle presunte barriere linguistiche che ancora oggi fanno dire a molti: tra sardi diversi non ci si capisce.
Intendiamoci, esiste tuttora un enorme (e rimosso) problema di ignoranza geografica, storica e culturale interna. Moltissime persone sarde conoscono poco e male la Sardegna esterna al proprio comune di residenza e zone limitrofe, alle proprie cerchie amicali e sociali. È ancora forte l’idea, ormai ingiustificata, delle distanze incolmabili tra le diverse Sardegne. Idea per altro piuttosto contemporanea e tanto più anacronistica, quanto più la comunicazione fisica e immateriale ha oggi a disposizione mezzi mai esistiti in altre epoche.
La riprova di quanto sia assurdo – e ignorante! – seguitare con il ritornello della incomprensibilità tra diverse parlate sarde si trova nella stessa ANS. Nell’associazione, l’uso del sardo è comune, ordinario, spontaneo, in tutte le circostanze, che siano formali, conviviali, pubbliche, o private. La comunicazione ufficiale di ANS è sempre anche in sardo e spesso anche nelle altre lingue di Sardegna.
È un fenomeno che si sta allargando, in relazione all’emergere delle nuove generazioni, soprattutto (ma non esclusivamente) quella tra i venticinque e i trentacinque anni. Rispetto alle generazioni più anziane (specie quella dei cosiddetti boomers e quelle immediatamente successive, le gen X e Y), i giovani adulti di oggi, in Sardegna, soffrono meno di complessi di inferiorità, di vergogna di sé e di ossessione filo-italiana.
Nate e cresciute in un mondo in cui la comunicazione rapida è più facile, quasi scontata, abituate a spostarsi (sia pure con le relative difficoltà del caso) in giro per l’Europa e non più solo verso l’Italia (nord e Roma, più che altro), queste nuove leve sarde riescono a conciliare molto più serenamente appartenenza e apertura culturale. Anche in ambito linguistico.
Hanno anche una maggiore propensione allo studio della lingua. Questione non secondaria, dato l’evidente impoverimento linguistico nelle generazioni più anziane, soprattutto (può sembrare un paradosso) quelle compiutamente sardofone. Il fatto di aver appreso il sardo come prima lingua non è sufficiente a garantire un livello linguistico articolato e ricco, dal punto di vista lessicale e sintattico. Se manca la scolarizzazione in sardo, il fatto di essere nativi di tale lingua ormai non basta più, da solo, a proteggerla dal decadimento. Viceversa, chi il sardo lo studia, oltre ad averlo appreso in culla o magari anche in età più matura, ne ha una competenza maggiore e anche più aperta alla socializzazione con altre parlate sarde.
Se, fino alla seconda guerra mondiale o poco dopo, per le persone sardoglotte era naturale e ordinario esprimersi in sardo con altre persone sarde, di qualsiasi provenienza, con i necessari adattamenti e compromessi, l’imporsi della lingua italiana, con la scolarizzazione di massa e la televisione, dagli anni Cinquanta in poi, ha favorito non solo l’indebolimento dello status del sardo, in termini generali, ma anche la chiusura localistica della competenza linguistica in tale lingua.
Il tema della standardizzazione entra in gioco proprio sul terreno degli usi formali, pubblici, didattici e giuridici della lingua. Non è un vezzo nazionalista, magari con tentativi egemonici da parte di qualche cultore di una parlata sarda specifica ai danni delle altre. Anche se, va detto, ha un suo peso nella costruzione di un’idea ampia e trasversale di appartenenza sarda “nazionale”. Però, ripeto, è una questione dai risvolti eminentemente pratici.
Il tentativo fatto a ridosso dell’indagine socio-linguistica del 2006, sotto la giunta Soru, ossia il passaggio dalla LSU (Limba Sarda Unificada) alla LSC (limba Sarda Comuna) ha dato esiti contraddittori. Più a causa delle modalità con cui è stato portato avanti e delle forti resistenze localistiche, che per ragioni oggettive e ineludibili.
L’esempio dell’Euskadi è rilevante, in questo senso. Anche tra le province basche esistono differenze dialettali, come presso qualsiasi comunità linguistica umana (provate a sentire le mille differenze tra inglesi diversi, in giro per i paesi anglofoni, o tra i tanti “tedeschi” di Germania, poi ne riparliamo). Negli anni Sessanta del Novecento, col regime franchista ancora nel pieno delle sue forze, era stata avvertita la necessità di formalizzare un basco sovralocale che ne consentisse un uso didattico, pubblico, accademico, che favorisse le traduzioni da e in altre lingue, ecc.
In quel caso, si scelse come base una delle varietà basche esistenti, non quella della comunità numericamente maggioritaria (come sarebbe in Sardegna il cagliaritano, o comunque il sardo meridionale), bensì quella della comunità a maggiore densità linguistica nell’uso ordinario e nella trasmissione intergenerazionale. Insomma, la comunità dove il basco era più vivo e vitale.
In Sardegna, se si facesse la stessa operazione, si dovrebbe partire da Orgosolo. Ma non mancano altre comunità in cui l’uso del sardo è ancora forte e diffuso. Come non mancano invece comunità in cui il sardo è ormai in una condizione di dilalia, ossia ben dentro l’anticamera della morte linguistica.
La soluzione della LSC era basata su un ragionamento differente. Cercare di creare una lingua sarda che non fosse artificiosa, che suonasse come una sorta di lingua “di mezzo”, con una variabilità lessicale e di pronuncia ampia, ma con regole morfologiche chiare. Tale esperimento è stato rifiutato soprattutto dai cultori della lingua dell’area cagliaritana e dell’area del Nuorese, con argomentazioni non del tutto coincidenti, ma con lo stesso sostanziale rifiuto di affrontare il problema.
In realtà, come sa bene chi la LSC l’ha usata, si tratta di uno strumento efficace. In termini pratici è estremamente funzionale e, facendo torto a molte parlate locali, non fa alla fine torto a nessuna. Il fatto però che sia stato rifiutato con veemenza da troppe persone attive in ambito linguistico ne ha decretato l’abbandono ufficiale da parte della RAS e un ridimensionamento generalizzato (anche se non la scomparsa).
Il problema della standardizzazione tuttavia resta. Come ho detto e scritto altre volte, probabilmente si tratta di cambiare metodo e prospettiva. Dopo tutto, una gran parte delle regole ortografiche, per chi si prende la briga di studiarle e applicarle, è condivisa tra le maggiori scuole di pensiero in materia. Tra LSC e Arrègulas, dal punto di vista dell’ortografia, la distanza è davvero minima. E sulla sintassi non c’è mai stata davvero una particolare difficoltà a conciliare le parlate sarde, dato che le differenze sono sostanzialmente inesistenti. Ci sono distanze maggiori nella morfologia e nella pronuncia, questo sì.
Se nel secondo ambito il problema è relativo, dato che sulla pronuncia non esiste più nemmeno l’idea di una standardizzazione in pressoché nessuna lingua (compreso l’esperanto), riguardo la morfologia (la forma delle parole, le terminazioni verbali, ecc.) la questione è più spinosa. È qui che esistono le maggiori differenze tra le varie parlate sarde (che non sono solo due, come troppo spesso si sostiene!).
Un modo per superare l’ostacolo potrebbe essere quello sperimentato in Corsica, con la soluzione “polinomica“. Magari senza acquisirla acriticamente e in termini meccanici, ma adattando il ragionamento di fondo al sardo e alle sue varietà locali. Intanto cominciando a diffondere, anche didatticamente, l’apprendimento contrastivo della parlata del luogo e delle altre, da quelle più vicine a quelle più lontane. Poi incentivando un uso scritto standardizzato dal punto di vista dell’ortografia (processo in cui siamo già abbastanza avanti). Le forme di compromesso potrebbero emergere proprio dall’uso, più che da un’imposizione dall’alto, d’imperio.
L’altra strada è quella classica di uno standard ufficiale, stabilito in termini concordati, magari partendo da quel che è già in campo e in uso. Ma sarebbe praticabile solo con uno sforzo intellettuale e politico di cui al momento non si scorgono nemmeno i prodromi, e ancor meno la volontà, da parte delle istituzioni politiche e culturali.
In ogni caso, è determinante proseguire con l’uso ordinario e in tutti i registri del sardo e la socializzazione tra parlate sarde diverse. Così come è indispensabile che le persone che abitano in Sardegna conoscano l’isola, le sue diversità interne, la sua geografia e antropologia, al di là del mero turismo da sagra mangereccia e superando i troppi stereotipi ancora presenti nel senso comune.
Che sia necessario trovare una forma di lingua pansarda, sovralocale, utilizzabile in tutte le circostanze formali, didattiche, ecc., non credo possa essere messo in dubbio. Che ci piaccia o no, lo richiede il funzionamento stesso della comunicazione umana così come è articolata oggi.
Certo, si può propendere per il campanilismo dialettale più ottuso, e magari contestare persino i tentativi di normazione ortografica (pure ormai largamente accettati). A che pro, non mi è dato di comprendere, ma queste posizioni esistono a fanno anche rumore. Poi c’è anche chi preferisce una comunità sarda divisa e inconsapevole di sé, dunque ancora subalterna e dipendente.
Tuttavia, a me pare che esista una forte necessità storica, strategica, di irrobustire la coscienza diffusa di un’appartenenza sarda che non sia meramente sentimentale e occasionale, bensì dotata di un respiro civico e democratico potente, inclusivo, contemporaneo, propulsore di ulteriori avanzamenti nel campo dei diritti e delle possibilità di vita. È un fattore chiave di qualsiasi pulsione al miglioramento e al riscatto generalizzato della nostra gente e la questione linguistica ne fa parte pienamente.