Ero molto curioso di leggere Fiume Europa, romanzo scritto in combutta da Andrea Atzori e Andrea Pau Melis.
Sapevo che si trattava di un romanzo distopico e che, uscendo per Einaudi Ragazzi, doveva avere come destinatario principale gli adolescenti.
Sapevo anche che si trattava di un tentativo di trasformare i fatti e le parole d’ordine della politica europea contemporanea in materiale narrativo, con un punto di vista non neutrale.
Non sapevo invece come i due autori – stimati professionisti della narrazione ad ampio spettro – fossero riusciti ad assemblare tale materiale.
Nutrivo, lo ammetto, un pregiudizio positivo, per varie ragioni, ma mi sembrava arduo scrivere qualcosa di originale e di efficace sull’Europa e le sue derive politiche, per di più rendendolo adatto a un pubblico giovanile.
Dico subito che l’operazione si è rivelata sì coraggiosa, ma anche riuscita.
Fiume Europa è un bel romanzo d’avventura, direi classico, per molti versi.
Classico come romanzo di avventura e anche come romanzo distopico (di questi tempi i due generi sono spesso associati).
Cinque ragazzi e un cane devono fuggire dal loro collegio sulle rive del Lago di Costanza, loro rifugio da quando l’Europa era andata in pezzi, divisa da muri e frontiere, abbandonata da una parte considerevole della sua popolazione.
O almeno, della popolazione sopravvissuta alla vera e propria guerra (anche “civile”), che si intuisce e si vive nei pensieri e nei ricordi dei cinque adolescenti.
Un’Europa dilaniata dal conflitto tra nazionalismi xenofobi, che sembrerebbero aver infettato del tutto le classi dirigenti dei vari stati e la stessa nomenklatura dell’Unione Europea.
Uniche forme di resistenza, si ricava da qualche flashback, i tentativi di alcune popolazioni di rendersi indipendenti dalla deriva autoritaria e razzista in corso.
Popolazioni che coincidono con alcune delle cosiddette nazioni senza stato europee: Catalogna, Corsica, Bretagna. Non se ne elencano altre, ma si intuisce che ve ne siano.
Le “Repubbliche degli Stracci”, venivano definite, sprezzantemente, dai commentatori e dai politici europei, sia a nome dei vecchi stati-nazione sia dell’establishment dell’Unione Europea.
I retroscena politici e sociali, la propaganda e il ruolo dei mass media, i fatti salienti di questa deriva sono giusto abbozzati e fatti intuire, più che raccontati, attraverso ciò che ne rammentano e ne hanno capito i protagonisti.
Una trovata narrativamente efficace, che scongiura il rischio di didascalismo – sempre presente in questo genere di racconto – e al contempo genera empatia con i personaggi.
Non riassumo la trama, che comprende navigazione fluviale, elementi di meteorologia, nozioni ingegneristiche, conflitti interiori, traumi da superare, regole di convivenza da mettere alla prova, libri letti e ritrovati, amicizia, amore, violenza, paura, speranza.
Né mi soffermo sui singoli protagonisti per non togliere nulla al gusto della lettura.
La narrazione, articolata in parti che combaciano ciascuna col punto di vista di un protagonista, risulta, anche in virtù di questa scelta, sempre coinvolgente.
Chiaramente non rivelo il finale.
Il finale rischia sempre di essere un punto debole dei plot, anche di quelli ben congegnati.
In questo caso, invece, grazie all’abilità degli autori, risulta coerente ed emotivamente forte, senza indulgere in tentativi di colpo di scena forzati e “di maniera”.
Quel che rimane dopo la lettura di questo libro, tuttavia, non è solo il gusto di una bella avventura.
Ci sono, lì dentro, tante cose davvero belle.
Per esempio la consapevolezza che per cavarcela abbiamo bisogno di sapere le cose. Abbiamo bisogno di cultura, di conoscenze diverse, di studio e anche di abilità pratiche eterogenee.
Per esempio il suggerimento che l’intelligenza collettiva e la collaborazione possono tirarti fuori dai pasticci molto più della competizione e dell’egoismo.
E già così siamo con entrambi i piedi ben piantati su un terreno *politico*. Almeno, in senso ampio.
Ma di politico, in questo libro, c’è soprattutto la lucida presa di posizione dei due autori. Non goffamente dichiarata, ma affidata allo sviluppo della storia, come si conviene ad ogni narrazione efficace.
È qui che questo romanzo diventa un’operazione estremamente coraggiosa.
Per due motivi.
Il primo risiede già nel semplice fatto di aver voluto prendere una posizione politica.
Diciamo che, in generale, specie nell’ambito culturale italiano e sardo, letteratura, arte, musica, spettacolo se possono si tengono al riparo da una partecipazione esplicita al dibattito pubblico.
O vi partecipano in modo generico, seguendo un po’ il sentire comune, magari non maggioritario, ma condiviso da una vasta platea.
Non sia mai che si pesti il piede sbagliato.
O si suscitino domande pericolose.
In Sardegna, poi, si può discutere di tutto, tranne che delle questioni profonde e strutturali che ci riguardano direttamente.
I due Andrea, in questo caso, non si fanno alcuno scrupolo a trasferire nel racconto la propria visione ideale.
Visione ideale a cui non è estraneo il fatto di essere sardi.
Preciso, onde evitare fraintendimenti, che nel libro la Sardegna non è menzionata e nemmeno evocata, se non sotto forma di un paio di easter egg, uno abbastanza visibile, uno (impegnativo) più per… iniziati.
Non li rivelerò nemmeno sotto tortura. Ma cercateli.
Ce ne sono anche altri, non dedicati necessariamente alla Sardegna, sia chiaro. È una delle componenti goduriose del romanzo.
Ma torniamo al punto.
Il fatto che i due autori siano sardi secondo me si evidenzia dalla prospettiva sotto cui sono inquadrate le vicende europee e ne viene evocata la possibile deriva autoritaria e repressiva.
Uno sguardo che non è tanto “periferico”, come molti potrebbero aspettarsi (sbagliando di grosso), quanto obliquo, non sottomesso alla narrazione pubblica dominante.
Uno sguardo non subalterno all’egemonia culturale di questa epoca, specie a quella imperante in ambito italiano (e in Sardegna).
Merito di una consapevolezza evidentemente maturata negli anni da Andrea Atzori e Andrea Pau Melis, per propria ricerca personale e per esperienze di vita.
Il secondo motivo per cui la loro presa di posizione è coraggiosa sta appunto nel suo contenuto.
E anche qui, e a maggior ragione secondo me, viene fuori il fatto che siano sardi.
Quel che i due autori sembrano volerci dire è che l’Europa di oggi, costretta a guardarsi solo tramite le cornice della falsa opposizione nazionalismi autoritari vs. tecnocrazia oligarchica sovranazionale, è un’Europa che ha un destino tragico segnato.
È l’Europa delle distinzioni razziste, dei muri, dei respingimenti, degli egoismi, dell’odio verso i poveri e i marginali.
È l’Europa dell’impoverimento dilagante, delle diseguaglianze e al contempo della concentrazione spasmodica e rapace della ricchezza in poche mani.
Né i vecchi stati-nazione, ottusamente nazionalisti, né l’UE oligarchica e tecnocratica sono in grado di fermare la deriva anti-democratica e anti-popolare già in corso.
Anzi, la alimentano e ne sono i primi responsabili.
Questo è l’avvertimento di fondo del romanzo.
Il problema – sembrano volerci dire i due autori – è che abbiamo perso di vista la realtà.
La realtà europea non è fatta necessariamente di uffici asettici a Bruxelles, o di auto di rappresentanza coi vetri oscurati, o di accordi tra capi partito e tra governi, né di sparate propagandistiche di questo o quel leader.
Non è fatta di “nazioni”, di entità collettive perfettamente distinte, impermeabili e uniformi al proprio interno.
Né di statiche contrapposizioni tra interessi di parte, nello scacchiere del gioco geopolitico.
La realtà europea è dannatamente meticcia e dinamica ed è fatta molto più di diversità e di dialettica molteplice che di “interessi nazionali” (ossia delle élite locali).
È fatta di scambi, incroci, spostamenti, plurilinguismo, confronto tra culture, arricchimento reciproco.
Questo vale per tantissimi europei di oggi, nativi, di seconda e terza generazione o immigrati, specie tra le fasce d’età più giovani.
Quelle a cui stiamo distruggendo il futuro.
Certo, ci sono anche le ossessioni per i pareggi di bilancio, la finanziarizzazione di qualsiasi cosa, l’economia estrattiva come unico orizzonte pragmatico legittimo, il classismo conclamato e il neo-colonialismo (anche interno).
Ma questi sono appunto problemi, e grossi, non l’intera realtà, benché ci vengano quotidianamente (ed egemonicamente) presentati come la regola a cui non si può né si deve sfuggire.
In questo senso non è affatto una scelta banale rappresentare le aspirazioni all’autodeterminazione democratica dei popoli senza stato come una risposta emancipativa, di libertà e di dignità alle pulsioni reazionarie dominanti.
È anzi un punto di vista dirompente, che squarcia il velo delle ipocrisie. È una manciata di sabbia nell’ingranaggio propagandistico che cerca di schiacciare le voci dissenzienti, le opposizioni sociali reali, le possibilità democratiche alternative.
Perché alla fine l’Europa per cui valga la pena di battersi non è quella della Commissione Europea né quella dei Salvini o degli Orban, o della Brexit.
Non è quella della “legalità” astratta, del “decoro” e della “sicurezza”, usati come rullo compressore del dissenso.
L’Europa per cui valga la pena di battersi ancora non esiste.
È l’Europa della salda alleanza tra popoli liberi, dell’autodeterminazione non conculcata ma armonizzata in un quadro di regole generali condivise, di valori universali riconosciuti.
È un’Europa profondamente e radicalmente democratica, in cui abbiano di nuovo piena cittadinanza l’eguaglianza, la libertà e la fratellanza, come suoi tratti costitutivi.
Un’Europa non più schiava del capitalismo finanziario e della rapacità delle oligarchie, ma votata a uno “sviluppo su scala umana”, in pace con le altre sponde del Mediterraneo, accogliente e solidale.
O lottiamo per questa diversa Europa – sembrano suggerirci i due autori tramite i loro personaggi – o le conseguenze saranno drammatiche.
In questo senso Fiume Europa è un libro non solo bello, ma direi necessario. Prezioso.
E, come mi piace dire, giustamente *pericoloso*.
Leggetelo. Parlatene. Usatelo come una sorta di fiala di Galadriel in questi tempi bui.
I libri non ci salveranno, forse, ma senza i libri (e i buoni libri, e la conoscenza, e la consapevolezza) – come suggerisce la stessa vicenda narrata da Andrea Atzori e Andrea Pau Melis – non ci salveremo di sicuro.