
Donald Trump si insedia alla Casa Bianca per il suo secondo mandato e nell’agro di Selargius viene dato alle fiamme il presidio anti-Tyrrhenianlink. Un evento globale e uno locale difficilmente collegabili, che tuttavia ci offrono una possibile chiave di lettura (per nulla consolatoria) circa i tempi che stiamo affrontando.
Il nuovo successo elettorale di Trump, lungi dall’essere la buona notizia che troppi compagni obnubilati affermano, è solo un momento di una più complessiva deriva reazionaria in corso nel civile e democratico Occidente. In questo, sempre meno difendibile rispetto ai regimi avversari (o presunti tali).
Il guaio di chi intende opporsi al “Sistema” – negli USA e in Europa, ma anche per certi versi in America Latina e ad altre latitudini – è che il Sistema ha molti mezzi per garantire la propria sopravvivenza e anzi per accrescere il proprio dominio. Uno è quello di crearsi un finto nemico a destra come unica alternativa alla generalizzata egemonia tecnocratica e finanziaria.
Non sto tirando in ballo mega-complotti-globali o altri deliri deresponsabilizzanti, ma meccanismi concreti delle relazioni sociali contemporanee, dentro la fase finale dell’era capitalista. Fase finale che può durare parecchi decenni, sia chiaro. Con esiti che si preannunciano spiacevoli su vasta scala.
Non c’è solo Trump, infatti. In Europa, il governo finto centrista di Ursula von der Leyen ha presto mostrato una propensione tutt’altro che sofferta a cercare sostegno a destra. In Francia, pur di non affidare il governo a una compagine troppo sfacciatamente di sinistra (per i parametri attuali), il presidente Macron (emblema e campione del finto progressismo liberale) si dedica a sofisticate alchimie politico-istituzionali, confidando nel soccorso nero. In altri stati, Italia compresa, la destra governa serenamente ed egemonizza il discorso pubblico. Siamo messi così.
Non esiste più alcun ambito della vita associata, nel democratico Occidente, che non sia sistematicamente aggredito e ri-orientato verso una società della paura e del controllo, dell’avversione per qualsiasi cosa disturbi il piatto conformismo reazionario. Le propensioni militariste sono esplicite, ma non è detto riguardino davvero pretesi nemici esterni: le misure repressive contro il dissenso e le proteste sociali sono sempre più evidenti e ampiamente rivendicate.
È uno scenario per troppi versi simile a momenti bui della storia novecentesca, pur con tutte le differenze del caso. Sapersi districare tra analogie e differenze, senza perdere la lucidità, dovrebbe essere uno dei compiti degli/lle intellettuali, se non fosse che questa categoria ormai da tempo è stata in larga misura cooptata dentro il perverso meccanismo egotico del successo mercenario e del consumismo culturale.
Contrastare il capitalismo globalizzato, sostenuto dall’ideologia ordo-liberista, serve a poco, se non si fonda su una visione realmente alternativa, radicalmente conflittuale, con degli obiettivi non retorici e non astratti. Che non possono ridursi a meri slogan estratti dalle memorie degli anni Settanta dello scorso secolo. Tanto meno ha senso se si accettano le ossessioni geo-politiche propagandate dall’intellettualità organica al blocco sociale dominante come unica chiave di lettura storica. E invece troppa “compagneria” ha interiorizzato tali ossessioni, altamente tossiche, e ne fa l’unico strumento di comprensione del mondo. Sbagliando sistematicamente analisi e bersagli.
Le dichiarazioni al limite del sincero affetto tra Trump e Putin dovrebbero far suonare un campanello di allarme in molte teste che fin qui hanno considerato i due autocrati (uno in potenza, l’altro in atto) quasi alla stregua di campioni del socialismo. Del resto, il giubilo incondizionato di tutta la fascisteria europea, già sostenitrice di Putin, per l’elezione di Trump qualcosa avrebbe già dovuto suggerire.
Siamo messi così, dunque, sballottati dai flutti sempre più neri e tempestosi di una storia che non promette nulla di buono.
Mi consolerei se, almeno a livello locale, si intravvedesse qualche spiraglio. Invece anche la derelitta isola sarda non se la passa affatto bene.
Facevo cenno al recentissimo episodio dell’incendio a Selargius, la devastazione di un luogo simbolico della resistenza popolare non alle fonti rinnovabili di energia in quanto tali, ma all’imposizione coloniale dell’ennesimo saccheggio estrattivo. Episodio di una gravità estrema, se fosse accertata la sua natura dolosa.
La Sardegna, da tempo, come altri “margini” geografici e politici dello stato italiano, è un luogo di sperimentazioni e di esternalizzazioni perniciose. Al disboscamento selvaggio ottocentesco, alle servitù minerarie, agrarie, industriali e militari, fino all’attuale aggressione speculativa sulle FER (fonti di energia rinnovabili) hanno corrisposto nel tempo varie forme di egemonia culturale e politica, idonee a tenere sotto controllo la situazione (ne ho già parlato in ogni dove, non mi ci dilungo ora). Oggi però siamo in un momento di crisi la cui gestione non è più così facile per la classe politica podataria chiamata a governarla.
Le crisi si risolvono in vari modi. Non esiste un modo che contempli e soddisfi tutti gli interessi e le aspettative in gioco. Non è mai esistito. La fanno sempre da padrone i rapporti di forza. Dovremmo chiederci, con tutta la preoccupazione del caso, quali soluzioni si prospettino per la crisi sarda attuale.
Non possiamo escludere forme poco limpide di contrasto alle opposizioni politiche fuori dal Palazzo, dall’inquinamento manipolatorio del dibattito pubblico alla vera e propria strategia della tensione.
Di sicuro, al momento, per la Sardegna non c’è in campo alcun programma di democratizzazione e conquiste civili, di crescita culturale e progresso sociale. Non c’è nelle compagini che si contendono la maggioranza nel Consiglio regionale, protette da una legge elettorale disgustosamente anti-democratica. Tanto meno c’è nell’agenda di chi può influenzare in vari modi la nostra politica da strapazzo, ossia i governi di Roma e i centri di potere e di interesse che egemonizzano la politica italiana.
È tragicomico che nella stampa italiana, sia di destra sia sedicente progressista o addirittura di sinistra, la giunta Todde sia spacciata come avversaria dell’aggressione coloniale energetica in corso. È in parte un espediente propagandistico, in parte il frutto della solida – e stolida – misconoscenza dei fatti sardi oltre Tirreno. In Sardegna mi pare abbastanza assodato che la maggior parte delle persone non vincolate da interesse diretto o da propensione sentimentale (immagino ne esistano) verso il cetrosinistra (o campolargo che dir si voglia) non la vedano così.
La giunta Todde è stata in qualche modo imposta – con la complicità diretta o preterintenzionale delle destre – per garantire “gli investitori” (come dichiarato più di una volta da Alessandra Todde stessa). Il clamore suscitato dalla sua decadenza dalla carica, dichiarata dal Collegio regionale di garanzia elettorale per mancati adempimenti legali in sede di campagna elettorale, deve far riflettere non tanto sugli aspetti giuridici e istituzionali della vicenda (su cui invece si sono soffermati pressoché tutti i commentatori, interessati e non), bensì soprattutto sul problema dell’opacità delle fonti di finanziamento della campagna elettorale stessa.
Io sono molto più curioso di sapere quanti soldi ha avuto a disposizione Alessandra Todde e, nel caso, dove li ha presi. Le sue contraddittorie dichiarazioni al riguardo – che restano agli atti e sono state più volte evidenziate – lasciano aperto ogni possibile scenario. Il dubbio in proposito non è lesa maestà – come sembra pensare lei insieme ai suoi spalleggiatori – bensì l’esercizio di un diritto/dovere democratico.
La protesta popolare, la mobilitazione conseguente, la frustrazione diffusa per aver visto respinto ogni tentativo di interlocuzione e di confronto, con lo smacco simbolico (più ancora che politico e giuridico) del rifiuto di discutere il progetto di legge di iniziativa popolare “Pratobello24”, sono acuite dalla constatazione della mancanza di soluzioni alle grane strutturali mai risolte. Una situazione completamente fuori controllo, per il blocco politico dominante.
Le trame di Palazzo che si intrecciano intorno alla vicenda della decadenza di Alessandra Todde (proclamata, possibile, sub judice, quel che è) non sono una risposta ai problemi concreti della Sardegna attuale. Sono solo giochi di potere all’interno di una stessa compagine sociale, distinta e aliena, spesso ostile, rispetto al resto della popolazione.
L’oligarchia clientelare, finto-autonomista, che domina la politica sarda si trova davanti a una situazione per cui non è preparata, né dispone della legittimazione sufficiente a garantire un minimo appoggio di massa alle proprie scelte. E nessun regime, anche il più autoritario, può reggersi senza un certo consenso, sia pure minoritario, nella società dominata.
Visti i guai in cui ci troviamo, non so quanto possa reggere ancora la finzione pseudo-democratica che fin qui ha occupato la scena. E tuttavia, al possibile crollo del sistema oligarchico-clientelare, in questo momento non corrisponde un’alternativa abbastanza strutturata da poterne prendere il posto. In nuce qualcosa c’è, ma non sarà facile tradurre la mobilitazione in corso e il materiale ideale che la anima in un progetto politico compiuto.
Questa debolezza è tanto più pericolosa, proprio in quanto a livello sovralocale non siamo in una situazione tranquilla, ordinaria. Gli interessi che stanno dietro l’aggressione coloniale in corso sono enormi. I grandi fondi di investimento e i gruppi finanziari globali non si cimentano in operazioni di questo tipo senza aver fatto bene i conti e senza essersi presi delle garanzie.
Se sulla Sardegna gravano richieste di autorizzazione per impianti di produzione energetica che superano di uno o più ordini di grandezza il fabbisogno locale non è solo un fatto di ingordigia suscitata e protetta da decisioni del governo italiano. O meglio, quest’ingordigia c’è e il governo italiano (quello Draghi così come quello Meloni, ma se fosse un altro sarebbe lo stesso) ha la sua precisa responsabilità. Dovremmo chiederci però a cosa diavolo serva tutta questa energia, se pure solo una frazione di quella progettata fosse alla fine prodotta.
La deriva destrorsa della politica mondiale non è un evenienza casuale, slegata da processi profondi di natura materiale. C’è una dialettica interna al capitalismo attuale, attriti vari, a volte forti, tra le sue diverse anime. Ma su un principio di base queste anime concordano tutte: il saccheggio deve continuare. È il meccanismo economico così com’è a spingere su questa china pericolosa (e non c’era bisogno di leggere Saitō Kōhei per capirlo, ma, se non l’aveste capito, leggerlo non vi farà male).
I massicci investimenti tecnologici si orientano ormai su pochi fronti strategici: le tecnologie della comunicazione e del controllo globale e l’ambito militare. Gli investimenti nella cosiddetta intelligenza artificiale e la stessa corsa allo spazio sono strettamente connessi a questi due ambiti, che a loro volta sono collegati tra loro e con l’ossessiva finanziarizzazione dei meccanismi di scambio, ormai orientati alle cripto-valute. (La faccenda delle cripto-valute dovrebbe essere studiata bene: a naso, mi pare la solita storia di una trovata apparentemente anti-sistema che finisce per diventare strumento potente di dominio a vantaggio del sistema.)
Uno dei fattori decisivi di questa enorme partita economica è la disponibilità di energia, al riparo dalle fluttuazioni del mercato dei combustibili fossili o comunque in connubio con essi. La retorica sulla transizione energetica è pura propaganda colorata di verde. Non può esistere alcuna transizione energetica e tanto meno ecologica senza modificare radicalmente i modi di produzione, distribuzione e consumo dell’energia e dei beni e servizi necessari alla vita. Questo deve essere tenuto presente.
Per far funzionare i server potentissimi necessari all’intelligenza artificiale e alle transazioni finanziarie iperveloci, di energia ne serve parecchia. I gravami e i costi della sua produzione – secondo la tipica logica capitalista – devono essere scaricati da qualche parte. Esternalizzati, come si usa dire. Non c’è nulla di anche solo vagamente ecologico in tutto questo.
I vari “margini” geografici e socio-economici del mondo, ormai anche dentro i paesi ricchi, fanno comodo, in questo senso. Da tempo si è rotto l’argine interno che proteggeva i paesi colonialisti ed “esportatori di civiltà” dal subire le politiche che i loro governi riservavano ai paesi “sottosviluppati”.
Il fenomeno del “colonialismo interno”, in realtà sempre esistito e mai venuto meno, oggi è in fase di accelerazione. I primi territori a pagare questa fase parossistica del neo-colonialismo sono appunto quelli tradizionalmente sottoposti a questo tipo di relazione asimmetrica.
La Sardegna ne fa parte a pieno titolo. Non illudiamoci che basteranno a sottrarci a un destino di subalternità accentuata, povertà, devastazione ambientale e decrescita demografica spinta i giochetti di palazzo interni alla scalcagnata politica nostrana.
Tanto meno suonano pertinenti e “a piombo” le espressioni di tifoseria geo-politica di troppe persone e di troppe compagini – più o meno formalizzate – del nostro scenario politico alternativo. Non credo sia più il tempo (posto che ce ne sia mai stato uno) di gingillarsi con questi diversivi.
Ambientalisti, indipendentisti, anti-militaristi, anti-capitalisti e anti-colonialisti vari, attivisti dei comitati contro la speculazione energetica, cittadinanza attiva, associazionismo culturale, mondo del volontariato, ecc. ecc. dovrebbero provare a uscire dalle proprie zone di comfort e lasciar perdere slogan e settarismi per provare a comporre un blocco politico magari eterogeneo ma coeso su pochi, decisivi punti strategici.
Non sarà Trump, da solo o in combutta con l’amico Putin, e nemmeno Xi Jinping per quello, a salvarci. Né qualsiasi governo salga in cattedra a Roma. Non sarà nemmeno qualsiasi giunta regionale venga fuori dalla lotteria coloniale della politica podataria sarda, centrosinistra o centrodestra che si chiami. Dovremmo averlo capito.
Il problema è che lo si dice da anni e la situazione non è mai migliorata (tutt’altro). Secondo un noto detto popolare s’apretu ponet su betzu a cùrrere (l’urgenza fa correre persino il vecchio). Non vorrei che la nostra collettività umana, abitante il lembo di crosta terrestre emersa chiamato Sardegna, sia ormai troppo decrepita e debilitata per provarci.