La campagna elettorale per il rinnovo del parlamento italiano riassume e rende esplicita la crisi finale della democrazia rappresentativa e i suoi riflessi su una terra sottoposta a vincoli di natura coloniale come la Sardegna.
Se la campagna elettorale in corso vi sembra squallida e respingente e vi sentite disgustatə dalla politica, non è colpa vostra.
Questa fase storica porta definitivamente alla luce la debolezza e i limiti intrinseci della democrazia rappresentativa di stampo europeo, senza tuttavia avere sotto mano un’alternativa praticabile.
Il meccanismo di selezione delle assemblee legislative-rappresentative non è mai stato veramente equo e pienamente democratico, così come le varie formule con cui vengono eletti i governi. È un modello che nasce per rispondere a certe contingenze storiche, in particolare alla crisi dell’Antico Regime, travolto dalla contraddizione tra assetto aristocratico e rigidità dello stato assoluto. Le borghesie urbane e i ceti intellettuali emergenti, tra la fine del XVIII secolo e la II Guerra mondiale, hanno imposto l’idea che potesse essere chiamata democrazia e anzi esserne la manifestazione migliore, più efficiente e più giusta, questa forma di oligarchia camuffata.
Entro certi limiti e dentro certe condizioni storiche particolari, questa pretesa è stata quasi corretta. Tuttavia la sua applicazione a contesti non europei o a situazioni più complicate ha sempre mostrato quanto tale modello fosse fragile, manipolabile e modificabile in senso autoritario e anti-popolare.
Dopo l’illusoria parentesi post-bellica, fin dagli anni Settanta dello scorso secolo è avanzata a grandi passi la reazione oligarchica e la riappropriazione delle leve del potere da parte dei ceti sociali dominanti. L’ideologia neo-liberista, divenuta egemonica nella stagione dei governi Thatcher e della presidenza Reagan, ha stabilito i paradigmi politici e le dinamiche sociali dei decenni successivi, fino ad oggi.
Tali processi hanno imposto una polarizzazione accentuata della distribuzione della ricchezza e la mercificazione di tutto, dai beni di consumo ai servizi alla persona, dalla sanità all’istruzione e fino ai beni comuni, e hanno facilitato il definitivo successo dell’economia estrattiva, di cui l’economia delle piattaforme – nel settore della logistica transnazionale e della schedatura personale di centinaia di milioni di utenti – è un’applicazione decisiva. Il disastro ambientale in cui siamo pienamente coinvolti non è un caso: è una conseguenza diretta e pressoché inevitabile di tali premesse. Cosa che per altro era già stata segnalata per tempo da singoli intellettuali, da centri di ricerca indipendenti (basti pensare al Club di Roma) e da movimenti d’opinione. Molto meno o per nulla dalle principali organizzazioni politiche.
Se pensiamo a come immaginavamo il futuro all’inizio degli anni Settanta e a come invece si è realizzato, emergono con una certa chiarezza le strategie perseguite dalle classi dominanti planetarie. Anziché un futuro alla Star Trek – viaggi spaziali, tecnologia sofistica, diffusa e posta al servizio del genere umano, progresso civile e culturale, sconfitta del nazionalismo e del razzismo, ecc. – ci siamo trovati in uno scenario cyberpunk, fatto di diseguaglianze accentuate e crescenti, degrado ecologico, potenti gruppi economici sovranazionali che condizionano la politica, controllo capillare di comunicazione, abitudini di vita, consumi e relazioni.
Tutto ciò non è fortuito né è dovuto a un processo di sviluppo lineare e per così dire obbligato, come pure viene spesso presentato da letture ideologiche semplicistiche, tanto in politica quanto nella comunicazione mediatica e persino negli ambiti degli studi sociali ed economici.
L’idea che non ci fosse né possa esserci alternativa (la famosa massima TINA, There Is Not Alternative, di thatcheriana memoria) è un costrutto ideologico imposto egemonicamente, ma che non ha nulla di storicamente veritiero.
La democrazia liberale, anche laddove abbia avuto temporaneo successo, ha visto progressivamente ridursi la sua componente rappresentativa e ha visto prevalere i governi, gli apparati centrali dello stato, le aspettative e l’influenza dei gruppi di pressione economica, a discapito del controllo democratico, della concreta possibilità di opposizione, della realizzabilità di strategie politiche diverse. L’illusione che basti mantenere il diritto di voto perché sussista ancora una democrazia si scontra ormai con l’evidenza di quanto poco conti il voto, anche dove le regole del gioco non siano volgarmente truccate.
Nel contesto italiano, così fragile e abborracciato di suo, questa tendenza storica produce effetti più profondi che altrove.
In Italia non si sono mai create le condizioni sociali e culturali per una maturazione endogena di un modello democratico rappresentativo realmente radicato e bilanciato. Sono mancate fin da subito le premesse indispensabili, a cominciare dall’omogeneità culturale tra le varie popolazioni coinvolte e una generale solidarietà territoriale. L’unificazione dello stato, avvenuta sotto forma di rivoluzione passiva, basata più su classismo e militarismo e su una dinamica di colonialismo interno, ha prodotto scompensi duraturi, di cui il fascismo è solo un esito particolarmente efferato, ma sostanzialmente connaturato nella forma delle relazioni sociali e politiche storicamente impostasi.
La democrazia rappresentativa, per essere qualcosa di diverso da una banale soluzione oligarchica appena appena mascherata, deve fondarsi su dinamismo sociale, vivacità economica, bilanciamento di tutti i poteri (non solo formali ma anche informali), libertà dell’informazione, solidità culturale, welfare. Tali condizioni in Italia si sono presentate in modo episodico, involontario o preterintenzionale (da parte delle classi egemoni) e per brevi periodi. Oggi non sussistono affatto. La cervellotica legge elettorale con cui si andrà alle urne il 25 settembre prossimo non è un incidente di percorso, ma l’attestazione di quanto l’Italia, come stato, come compagine politica storicamente realizzata, sia allergica alla democrazia e cerchi di scongiurarla a ogni costo. Ormai sta venendo meno anche lo sforzo di salvare le apparenze.
Se la democrazia, nella sua forma rappresentativa, ossia mediata e filtrata, non ha mai messo solide radici in Italia, nell’appendice oltremarina sarda (“una periferia”, come l’ha definita solo pochi giorni fa in una trasmissione radio l’attuale ministro dell’Istruzione) ha avuto una vita ancora più problematica. Sia nel suo funzionamento formale ed elettorale, sia nelle premesse necessarie al suo pieno dispiegamento.
La Sardegna, dentro lo stato prima sabaudo poi italiano, è sempre stata una realtà lontana e subalterna, da tenere sotto controllo. La sua classe dominante ha sempre e solo puntato strategicamente all’integrazione dentro il sistema di potere italiano, assumendo una funzione di intermediazione verso l’esterno e parassitaria all’interno. Ai ceti dirigenti italiani questa situazione è sempre andata benissimo, garantendo la messa a disposizione dell’isola per qualsiasi necessità dei gruppi di potere e di interesse della penisola o anche stranieri.
La formazione in Sardegna di una borghesia locale autonoma rispetto alla politica e lo sviluppo di un’economia articolata e interconnessa sia all’interno sia verso l’esterno sono possibilità sempre frustrate dall’apparato di potere dominante. Difficile, altrimenti, mantenere l’isola, per così tanto tempo, in stato di soggezione.
Incanalare ogni problema sociale e ogni istanza culturale e politica di matrice popolare dentro le cornici dell’arretratezza (dunque della necessaria modernizzazione calata dall’alto) e del disagio criminogeno (con la lotta al banditismo come strumento di regolazione dei rapporti politici e sociali) è stata la strategia prevalente fin dall’epoca pre-unitaria.
Dopo la Fusione Perfetta e l’unificazione italiana, questo apparato ideologico e mitologico ha fornito le coordinate fisse del rapporto asimmetrico tra Italia e Sardegna. Funziona ancora oggi. Con il pieno avallo della classe politica sarda (si veda il capolavoro dell’insularità in costituzione). Il militarismo – prima per lo più subito, sotto forma di repressione violenta, poi enfatizzato come principale fonte di integrazione dell’isola nel contesto italiano – è un’altra delle cifre distintive della condizione storica della Sardegna contemporanea.
Questo rapido riepilogo di cose già scritte e argomentate sia qui sia in altre sedi serve solo a chiarire che il degrado politico, così evidente nella presente campagna elettorale, non è un caso, non è un passaggio contingente. Né ha a che fare con lo spauracchio della vittoria elettorale dei neo-fascisti di Giorgia Meloni.
Per inciso, inviterei a considerare con quanta enfasi e quanta disponibilità di spazio e attenzione questo personaggio mediocre e il suo seguito di guitti fascisti siano stati legittimati negli ultimi anni dai media ipoteticamente schierati dall’altra parte dello spettro politico. In particolare il Gruppo GEDI, con Repubblica in testa. Senza parlare delle televisioni, sia pubbliche sia private. L’intero panorama mediatico li ha resi popolari e fatti entrare nel mainstream comunicativo, offrendoli al senso comune dell’elettorato come soggetti credibili e delegabili. Un po’ come prima avevano fatto con Salvini. Io mi farei delle domande in proposito.
Cosa rappresentino, in questo scenario, le prossime elezioni politiche italiane forse è più evidente, alla luce di quanto precede. Sostanzialmente una mera formalità, che avrà come unici effetti in Sardegna un incremento della sua periferizzazione, una perdita ulteriore della già debole rappresentanza politica a Roma, un’accentuazione della sua subalternità. E l’ulteriore distacco della popolazione dalla politica.
Ha senso per l’elettorato sardo interessarsi alla campagna in corso? E ha senso votare? Non sono interrogativi oziosi e sono molto meno qualunquisti di quanto possa sembrare. È un problema serissimo, perché la percezione diffusa nell’isola è che la politica sia una cosa sporca, da evitare il più possibile e di cui al limite servirsi per ottenere qualche episodico vantaggio personale. Ciò significa che anche proporre qualcosa di diverso, magari di radicalmente diverso, ottiene per lo più, specie in prima battuta, reazioni scettiche e poco o nulla volontà di partecipazione.
In ogni caso, nessuna delle proposte elettorali in campo oggi ha alcun significato per chiunque viva in Sardegna. Nessuna. Se avete tempo, magari dotandovi di una robusta riserva di gastroprotettori, provate a dare un’occhiata ai vari programmi proposti. Non c’è niente che riguardi direttamente e in termini realmente utili l’isola. Persino dove essa viene chiamata in causa emerge la profonda ignoranza della realtà sarda da parte della politica italiana, anche quando sia rappresentata da esponenti sardə. Che del resto sono selezionatə sulla base di un criterio di fedeltà ai capi e di innocuità politica, non certo per la loro capacità propositiva e il loro spirito di iniziativa.
La sottomissione dell’opinione pubblica sarda all’apparato dei mass media italiani, non compensata da un sistema di informazione e comunicazione libero e pluralista nell’isola (che manca o è del tutto marginale) espone anche l’elettorato apparentemente informato a abbagli ed errori di valutazione esiziali. Soprattutto il ceto medio istruito è l’anello debole del contesto socio-politico isolano, per quanto quest’affermazione possa sembrare paradossale. I ceti popolari e quelli marginali e la generazione più giovane, anche dove non si siano rassegnati all’emigrazione, prevalentemente schivano la politica e anche le elezioni, preferendo l’astensione. Salvo che non siano presi da vincoli clientelari a cui è difficile sfuggire.
L’astensionismo di per sé non è mai un bel segnale, anche se è un sintomo che meriterebbe non stigmatizzazione ma analisi e risposte. Tuttavia un astensionismo di massa, organizzato e politicamente rivendicato, sarebbe un’opzione da considerare seriamente. Ci vorrebbe anche un progetto politico a sorreggerlo, cosa che però al momento manca.
La desolazione politica in cui ci ritroviamo è profonda, lo scoramento giustificato, ma non deve prevalere la rassegnazione. Non sappiamo che sviluppi ci siano oltre la prossima curva. A giudicare da come stanno andando le cose nel mondo, ci attendono mesi e anni ricchi di sfide e di pericoli, dunque anche di opportunità. Non sarà un’elezione del parlamento italiano a mutare radicalmente le dinamiche in corso. La politica italiana, quali che siano gli esiti elettorali, è ampiamente tributaria verso rapporti di forza e verso grumi di interessi sovranazionali. Lo spauracchio di una vittoria delle destre estreme, sventolato dalla destra “moderata” che ne è la presunta controparte (ossia PD e soci), è poco più di una rappresentazione scenica. Per la Sardegna è una sorta di fiction, di cui l’isola è solo spettatrice.
Più che uno sforzo di consapevolezza e di coraggio intellettuale e politico, oggi come oggi non possiamo fare. Eppure la consapevolezza e il coraggio intellettuale e politico sono ingredienti indispensabili di qualsiasi tentativo di riscatto e di conquista democratica.
Mutare il presente stato delle cose non dipenderà da un banale processo elettorale, ma richiederà molti passaggi a vario livello e in molti ambiti. Una sorta di rivoluzione, la cui natura e la cui articolazione concreta non possiamo prevedere, ma la cui necessità storica è palese. O altrimenti andremo rassegnati e passivi verso la drammatica conclusione del processo di spopolamento, impoverimento, neo-colonialismo e degrado culturale a cui, stando così le cose, siamo destinati.
Mi aspetto che su questi temi, in Sardegna, si sviluppi un ragionamento a largo spettro e a vario livello, a cominciare dal ceto medio istruito, dalle organizzazioni sociali, dal mondo della cultura, comprese le istituzioni accademiche (di solito organiche e anzi in una certa misura parte integrante dell’apparato di potere dominante). Ora come ora, siamo a un passo dall’essere travolti dalla crisi generale, senza voce in capitolo né punti di riferimento collettivi.
Rassegnàti mai! Ottimo intervento, Omar. Si diceva che, riavuta una “nuova” normalità, ci saremmo ritrovati per confrontarci e (provar a) mettere in piedi Qualcosa… Sì, ma chi dovrebbe farlo? A esempio, quei pezzi di società attiva spesso citati su queste pagine. Con un orizzonte possibile (magari inevitabile): l’elezione generale sarda del 2024. L’attentato (in corso) subìto dalla democrazia rappresentativa in Sardìnnia dovrebbe divenire un punto cardine del nostro concorrere. Farlo con un programma chiaro, pochi punti realizzabili (pure in fasi), specificando costi/coperture/agibilità. Solo così, io credo, ci si presenterebbe come ambizioso polo alternativo. E poiché, per l’appunto, conosciamo i nostri polli, sarebbe utile saggiare da subito le potenzialità di cui disponiamo – peraltro, non così poche -, dando a noi stessi il coraggio occorrente (qualora mancasse). Sardə, a no t’arrender! / Sardə, don’t give up!