Il tempo della vita pubblica in Sardegna è scandito da ricorrenze e celebrazioni per lo più tributarie dell’impianto narrativo istituzionale e nazionalista italiano. Ma ci sono altre ricorrenze, molto più significative per la storia dell’isola, che, pur non avendo alcun rilievo pubblico e istituzionale, possono indurci a ragionare sia sul nostro passato sia sul nostro presente.
Una di queste è senz’altro l’anniversario della concessione, da parte di re Carlo Alberto, della Fusione Perfetta, nell’autunno del 1847.
Una delegazione informale e illegittima degli Stamenti (i “bracci” del parlamento sardo) si era sobbarcata il viaggio fino a Torino per richiedere al sovrano di unificare dentro un unico ordinamento giuridico tutti i suoi possedimenti. Significava rinunciare alle istituzioni e più ancora alle prerogative dell’antico Regno di Sardegna, facendolo cessare dunque di esistere.
La risposta affermativa di Carlo Alberto e la successiva concessione dello Statuto, nella primavera dell’anno seguente, decretarono il passaggio della Sardegna da parte cospicua del regno, nonché depositaria della titolarità monarchica, a porzione oltremarina marginale di uno stato più grande e ormai molto diverso anche nei suoi tratti giuridici fondamentali. Di lì a tredici anni questa nuova condizione sarebbe stata definitivamente certificata dal cambiamento del nome dello stato in Regno d’Italia.
Fin qui, niente che le persone appassionate già non sappiano. Il problema caso mai è che si tratta di una minoranza della popolazione dell’isola. In realtà c’è di più, in questa storia, ed è tramite questi altri aspetti della vicenda che possiamo utilizzarla come proficuo strumento di interpretazione non solo del passato ma anche del nostro tempo.
Gli anni in cui si gioca questa partita decisiva per l’isola, diciamo tra il 1846 e il 1849, sono anni importanti anche per l’Italia e più in generale per l’Europa. Sono gli anni in cui in tutto il continente monta un disagio diffuso per il neo-assolutismo scaturito dalla stagione della Restaurazione post-napoleonica (in Sardegna, post-rivoluzionaria o post-angioyana). La prima rivoluzione industriale, che aveva favorito grandemente il Regno Unito, era andata estendendosi, in modo non lineare ma continuo, anche in altre regioni europee. Le ideologie di matrice illuminista erano state in larga misura soppiantate dalla sensibilità romantica, dai crescenti nazionalismi, dalle aspirazioni confliggenti tra loro ma comunque eversive dell’ordine costituito maturate nelle borghesie e nei ceti popolari. Emergeva il pensiero socialista. C’era una pretesa largamente diffusa di de-assolutizzazione degli ordinamenti giuridici, di riforme liberali, di concessione di costituzioni.
In questo clima c’erano state le prime aperture dello stesso re Carlo Alberto, nel 1846, con l’attenuazione della censura e del controllo sulla stampa. Ma non bastava. La Sardegna versava in una condizione estremamente precaria per via delle contraddizioni sociali e politiche in cui la costringeva l’occhiuto governo sabaudo. Non esisteva più un’opposizione politica e d’opinione, essendo stata fatta tabula rasa delle istanze nate alla fine del Settecento. Mancava, per scelta e azione consapevole dell’amministrazione sabauda, una nuova generazione di politici, intellettuali, borghesi sufficientemente autonoma, economicamente forte e consapevole del proprio ruolo.
La classe dominante sarda era composta dalle grandi famiglie ex feudali, arricchitesi tramite il riscatto vantaggioso dei loro titoli alla fine del decennio precedente, nonché dalla grande borghesia parassitaria, votata alla conquista di rendite improduttive, ai facili guadagni con commerci più o meno leciti e all’ottenimento di benemerenze a corte. Mentre nelle campagne e nei quartieri delle città il malcontento popolare cresceva e già circolavano parole d’ordine sediziose, come ci viene segnalato dagli osservatori – preoccupati – del tempo, alcuni gruppi di questa nuova classe dominante concepirono il proposito di chiedere al re la fusione giuridica dell’isola con i possedimenti di terraferma, onde lucrare vantaggi per sé sia in termini politici, sia in termini commerciali.
Per sostenere questo disegno politico, tutt’altro che progressivo, vennero anche inscenate delle manifestazioni di piazza a Cagliari e Sassari, onde poter simulare una sorta di spinta diffusa a sostegno di tali intendimenti. La situazione tuttavia era ambigua e non scevra di pericoli. Si mescolavano aspettative e parole d’ordine diverse, non senza qualche fraintendimento. Fuori dalle due città principali, questi movimenti propagandistici e la stessa notizia che ci fosse gente che scendeva per le strade in diversi casi furono interpretati come un segnale di possibile, nuova rivolta anti-piemontese.
È largamente testimoniato che in questo periodo il sentimento prevalente nella popolazione fosse di astio verso l’amministrazione sabauda e verso la presenza soffocante e autoritaria di tanti stranieri nei ruoli più importanti, sia in ambito istituzionale sia in ambito produttivo (pensiamo solo agli appalti delle miniere o delle saline). Il timore di un nuovo Novantaquattro (e per Novantaquattro si intendeva il 1794 e il 28 aprile di quell’anno in particolare) era forte tra gli osservatori e nei vertici dell’amministrazione sabauda.
I gruppi dirigenti sardi, sfruttando gli umori emergenti e facendosi forti di una rappresentanza che non avevano affatto, né in termini di mandato popolare né in termini istituzionali, si presentarono a Torino con le carte giuste per ottenere udienza dal re. L’ottennero e ottennero anche ciò che avevano chiesto.
La Fusione Perfetta fu dunque anche un tentativo di incanalare le energie politiche montanti dentro una cornice di fatto regressiva, favorevole solo agli interessi dei gruppi dominanti sardi e, in fin dei conti, soprattutto alla stessa corte torinese. Una sorta di “rivoluzione passiva” ante litteram.
Tuttavia, non raggiunse lo scopo di calmare le acque. Il 1848, l’anno delle rivoluzioni, l’anno dello Statuto albertino e della Prima Guerra d’Indipendenza italiana, fu anche in Sardegna un anno di sollevamenti popolari, di rivolte contadine, di malumori non più celati tra il popolo minuto delle città.
Per risolvere la situazione fu inviato nell’isola Alberto La Marmora, con l’aspettativa che, avendo egli una certa familiarità con i luoghi e con la gente di Sardegna, potesse venire a capo del pasticcio più facilmente di altri. E in qualche misura questo avvenne. Lo stato d’assedio dichiarato sull’isola si tradusse tra 1848 e 1849 nella repressione di tutte le manifestazioni di ribellione popolare. L’azione del “commissario straordinario” La Marmora suscitò le proteste di Giorgio Asproni, deputato sardo poco amante dei piemontesi (specie in privato).
In realtà, come puntualizzò lo stesso La Marmora in una sua replica pubblica, la sua azione era stata sì di ripristino dell’ordine pubblico, ma non così feroce e anti-sarda come lasciato intendere da Asproni. Ci sono buoni motivi per non dubitarne, se non altro sul piano delle intenzioni del generale sabaudo, che non era un nemico dell’isola (al contrario della maggior parte degli altri funzionari piemontesi).
Ultimato il servizio, La Marmora lasciò la Sardegna nel 1851. L’anno successivo scoppiarono nuove rivolte, specie nel Sassarese e in Gallura, e fu necessario decretare un nuovo stato d’assedio. Questa volta a gestire la situazione fu Giovanni Durando, nuovo comandante militare, meno propenso del suo precedessore a usare la diplomazia.
Tra gli stessi promotori della Fusione cominciò fin da presto a serpeggiare una certa delusione per un esito che non sembrava affatto dare i risultati sperati. Il coinvolgimento della classe dominante sarda ai vertici degli affari di stato non avvenne se non in minima parte. I vantaggi economici e commerciali, se ci furono, furono sapientemente incamerati da speculatori e centri di interesse forestieri. Da tale delusione nacque il primo pensiero autonomista. Ed è solo da questo momento che si può legittimamente parlare di autonomismo in Sardegna.
Alla classe dominante sarda non restò che il proprio ruolo di intermediazione tra il centro del potere – ormai unico e lontano, a Torino – e l’isola. Un ruolo di intermediazione complicato ma non reso inutile dall’abolizione delle istituzioni regnicole (non solo la carica viceregia, ma anche lo stesso parlamento degli stamenti e la Reale Udienza) e dal rapido processo di unificazione italiana.
Su questi aspetti della vicenda siamo ben informati. Le fonti non mancano di certo. Quel che invece manca è lo studio sistematico e una ricostruzione adeguata dei moti popolari dell’isola e del loro contesto sociale e culturale, al di là degli episodici fatti di cronaca.
I molti momenti di opposizione popolare sono sempre stati liquidati rapidamente dalla storiografia. Considerati alla stregua di mere jaquerie, di episodi di insofferenza irriflessa, senza alcuna visione politica, senza altro scopo che l’immediato sottrarsi a qualche misura governativa non gradita, in realtà segnalano uno stato permanente di disagio e malcontento che già solo per la sua durata – diverse generazioni – dovrebbe suscitare qualche interrogativo in più.
C’è un filo rosso che lega le vicende di fine Settecento con le continue manifestazioni di protesta e ribellione del secolo XIX e arriva fino alla vigilia della Prima Guerra mondiale. Tuttavia, per un secolo, dalla fine del periodo rivoluzionario (1812, con la repressione della cosiddetta “congiura di Palabanda”) al primo conflitto mondiale, quando dalle trincee e dalle file dei reduci emergerà la leadership sardista, i movimenti popolari, i momenti di protesta e ribellione, le istanze di emancipazione sociale, pur così ostinati e duraturi, resteranno senza una direzione, senza un orizzonte ideale e politico definito. Non per questo vanno cancellati dalla narrazione storica. La storia non è – o non dovrebbe essere – solo la narrazione delle cronaca politica e dei giochi di potere. Non è la “storia delle classi dominanti”. Eludere o elidere l’esistenza delle masse popolari e tutto ciò che le riguarda non è un buon servizio alla conoscenza dei fatti.
Da quanto precede discende che non furono le esperienze nelle trincee della Grande guerra a generare nei sardi la sete di riscatto, poi emersa e politicizzata con la nascita del PSdAz. Caso mai, viceversa, la nascita del sardismo e del PSdAz fu l’effetto della forte tensione sociale e politica accumulata nei decenni precedenti. Basti pensare alla crisi economica di fine Ottocento, ai moti di Buggerru del 1904 e a quelli di Cagliari e di quasi tutta l’isola degli anni 1905-6. A loro volta queste rivendicazioni sociali si legavano all’insofferenza per la condizione subalterna e dipendente dell’isola.
Se la storiografia fosse più attenta ai fenomeni culturali popolari, rinverrebbe facilmente dei segnali piuttosto chiari di questo sommovimento profondo nella produzione poetica del secondo Ottocento e del primo Novecento. Stiamo parlando di un fenomeno dalla diffusione enorme, sostanzialmente di massa.
Da Su triunfu d’Eleonora d’Arborea di Franciscu Dore, del 1870 (ma ristampato nel 1910), ai versi più politici di Pepinu Mereu e Bustianu Satta (che provò a pubblicare un’Ode a Giovani Maria Angioy nel 1896 ma gli fu censurata dalla Nuova Sardegna), per arrivare a Sa mundana cummedia di Bore Pòddighe e alle poesie “sardiste” di Montanaru, è un susseguirsi di produzioni, pubblicazioni, gare poetiche, canti diventati patrimonio condiviso di buona parte delle persone sarde. Una produzione varia, eterogenea, non sistematica, ma proprio per questo indicativa di un sentire comune molto diffuso, di notevole durata, che esprime e a tratti espone lucidamente il disagio e la critica verso una situazione sociale e politica disastrosa e tutt’altro che accettata passivamente.
Può suonare paradossale, ma il sardismo servì più a tenere sotto controllo e a normalizzare questo fermento sociale e culturale, che a tradurlo politicamente in azione risolutiva. La prima vera forma di politicizzazione delle istanze delle masse sarde fu dunque anche una sorta di tradimento.
Non è difficile comprendere il perché. Non si trattava di mala fede o di intenzioni opache dei vertici sardisti; non sempre, almeno. Semplicemente i leader del sardismo erano figure di estrazione medio-alta, intellettualmente legati alla scolarizzazione italiana, a un’ideologia nazionale (italiana, appunto) molto forte e pervasiva, già entrata egemonicamente nel senso comune delle classi istruite e della classe dirigente sarda. La loro idea della Sardegna era debitrice verso questa ideologia. La Sardegna, anche per loro, era una terra barbarica, arretrata, non auto-sufficiente.
L’ostinazione con cui Camillo Bellieni, pur ammettendo, quasi con dolore, che i sardi non potessero dirsi, per geografia, storia e lingua, italiani, rivendicava la necessità di affidarsi alla superiore civiltà italiana per riscattare l’isola dalla sua miseria. E Bellieni era il più lucido e preparato della congrega (basti vedere con quale rapidità individuò nel fascismo un pericolo e un nemico).
Perché è importante, oggi, in concomitanza dell’ennesimo anniversario della Perfetta Fusione, rammentare e provare a mettere sotto un’altra luce tutti questi fatti, fuori dalle cornici retoriche e a dispetto della rimozione istituzionale e mediatica?
Il motivo principale è che il nostro presente, pur così diverso dalla Sardegna ottocentesca e del primo Novecento, ci mette ancora davanti a questioni e contraddizioni che restano inevase e irrisolte fin da quei tempi. Comprendere quei fatti può servire a comprendere ciò che ci succede adesso.
La Fusione Perfetta, come espediente almeno in parte vantaggioso per chi lo promosse, ma alla fine deleterio per l’isola, non è solo un episodio nodale del nostro passato: deve essere anche un ammonimento per il nostro presente.
La campagna ostinata e pervasiva a favore dell’insularità in costituzione, molto amata dalla nostra classe politica, ma poco considerata dalla maggioranza delle persone sarde, è una nuova Fusione Perfetta. È un diversivo che può sfociare nell’ennesima forma di rivoluzione passiva, sia pure a un livello infimo e cialtronesco. Il contesto in cui si situa – una crisi globale ed epocale su più fronti – non lascia sperare nulla di buono. Per l’isola la minaccia è estremamente seria e attardarsi dietro a queste operazioni può servire sì a un momentaneo vantaggio per la nostra scalcinata e squalificata classe dominante, ma avrà come effetto l’aggravamento dei problemi attuali e futuri.
Le manovre speculative sul territorio sardo e su tutti i beni pubblici e comuni (fonti energetiche rinnovabili, acqua, aeroporti, sanità, attività turistiche, ecc. ecc.), di stampo a tratti paternalistico ma di natura autoritaria, sono una nuova forma di rapina come quella subita dall’isola nel XIX secolo e denunciata dai poeti (oltre che da Antonio Gramsci).
L’insofferenza popolare, oggi espressa principalmente sotto forma di rassegnazione e fatalismo, non manca. Serve una nuova forma di politicizzazione del dissenso e del disagio, il più possibile autonoma, basata sulle reali dinamiche in corso nell’isola e rappresentativa delle forze popolari più aperte e votate all’emancipazione collettiva. E che la classe politica sarda e i suoi mandanti comincino ad avere di nuovo paura di un altro Novantaquattro.