Interessante articolo sulla Nuova online di pochi giorni fa. Una sorta di intervista a più voci in tema di federalismo e di riforme istituzionali a più livelli. Coinvolti nel dibattito lo storico Gian Giacomo Ortu e i noti politici sassaresi di lungo e lunghissimo corso Gianfranco Ganau e Beppe Pisanu.
Tutti e tre molto critici sul regionalismo italiano, ma con accenti diversi e prospettive distinte. Lo storico, più propenso a una grande evoluzione federalista sia dell’Italia sia dell’Europa; i due politici, persuasi della necessità di un nuovo centralismo statale e di una trasformazione dell’UE in Stati Uniti d’Europa.
Nell’articolo non si chiariscono i punti più controversi, specie dove sembra che le posizioni siano coincidenti e invece vengono presentate come sostanzialmente opposte. Per esempio: che differenza c’è tra gli Stati Uniti d’Europa di Pisanu e Ganau e la Federazione Europea di Ortu?
Ma anche sul resto è tutto abbandonato a una assertività e a una schematicità che non consentono la comprensione profonda a un lettore non informato (ossia, alla gran parte dei lettori): come si dovrebbe realizzare una riforma interna dello stato italiano e in riferimento a quali forze storiche e a quali obiettivi a livello europeo e globale? Su quali studi e acquisizioni si basano le prese di posizione esposte? E così via.
In questo modo, si offre solo l’impressione di un dibattito, magari addirittura vivace e animato, mentre in realtà si costruisce una narrazione parziale, largamente deficitaria, su una questione invece molto rilevante e molto meno astratta di quel che si potrebbe pensare. Una questione che in Sardegna dovrebbe essere al centro dell’agenda politica e intellettuale già da anni, con una prospettiva di medio e lungo termine, ma non lo è.
Il guaio è che un’operazione giornalistica come questa non serve a nulla, se lo scopo è informare l’opinione pubblica delle posizioni in campo e della loro consistenza tematica e teorica. Serve di più a orientarla dentro cornici interpretative predeterminate verso un certo esito, ideologicamente schierate, ma senza dichiararlo esplicitamente.
Sono limiti oggettivi, che però non è detto siano attribuibili esclusivamente alla mano che ha materialmente redatto il pezzo, specie quanto a taglio complessivo e a limiti di spazio.
Sia come sia, l’estromissione della questione sarda, l’esclusione radicale di qualsiasi voce dell’indipendentismo e dell’autodeterminazionismo democratico, la reticenza sui contenuti del dibattito in corso da anni, restringono il campo delle questioni e ne sterilizzano il senso e le connotazioni. Tutto si riduce a una serie di dichiarazioni poco consistenti, ferme a un livello molto arretrato e molto debole dell’elaborazione in materia.
A leggere l’articolo, si ha l’impressione molto forte che gli interpellati non abbiano che una vaga idea dei problemi sollevati e dei contenuti che il dibattito in merito ha raggiunto da tempo, a livello internazionale. Si salva almeno in parte solo Gian Giacomo Ortu, storico affermato che nel tempo ha mostrato una certa evoluzione del suo pensiero su questo terreno. Non sorprende invece, ma va sottolineata, la perfetta concordanza tra Pisanu e Ganau, esponenti di schieramenti nominalmente avversari, ma in realtà del tutto allineati sulle medesime posizioni di fondo.
La debolezza e l’arretratezza delle posizioni esposte stride con la constatazione che non si tratta affatto di affrontare questioni nuove. Se non da prima, quanto meno a partire dal referendum scozzese del 2014, e poi con l’emersione delle forze populiste-sovraniste, e ancora con la questione catalana, il confronto a tutti i livelli su queste tematiche si è vivacizzato ed è andato molto avanti, in Europa. La stessa epidemia di covid-19 lo ha ulteriormente arricchito di spunti di ricerca e riflessioni.
In Sardegna, come e più che altrove, se ne è parlato e scritto diffusamente, da varie angolazioni, anche al di fuori dei ristretti circoli indipendentisti, con acquisizioni, connessioni, consonanze di ampio respiro. Basterebbe anche solo ricordare, tanto per dirne una, il dibattito sul referendum costituzionale del 2016.
Ma la Sardegna stessa, negli ambiti di studio che si occupano degli sviluppi teorici, pragmatici, sociali, culturali della dialettica tra i vari nazionalismi europei e delle relazioni politiche nel Vecchio continente, sta acquisendo finalmente un minimo di visibilità e di presenza non puramente passiva.
In proposito si possono chiamare in causa due spazi di elaborazione e confronto tra i più attivi e più seri del settore, come Ethnos & Demos o il Centro Studi Dialogo (per restare tra le esperienze in lingua italiana), spazi in cui la questione sarda ha da tempo conquistato legittimità e considerazione, anche in relazione a tematiche di indole sovra-locale*.
Solo l’ambito politico istituzionale e quello accademico nell’isola sembrano non essersene accorti. Il che li condanna alla sclerosi teorica e anche strategica, con conseguenze negative ad ampio spettro.
Tale esito potrebbe non dispiacere a chi in quegli ambiti ha costruito il proprio percorso e ottenuto qualche successo personale. Non smuovere troppo le acque, non pestare troppi piedi, non apparire come dei piantagrane che sputano sul piatto in cui mangiano: tutti atteggiamenti comprensibili, sul piano umano, del resto favoriti dalle circostanze, ma nondimeno poco edificanti sul piano intellettuale e politico.
Esiste una forte pressione selettiva a mantenere debole e subalterna la “grande narrazione” pubblica e il senso comune da essa costruito, a proposito della Sardegna. Escluderne la natura problematica dal dibattito storico, teorico e politico, rimuovere i tentativi di sostenere il dibattito stesso e di renderlo vitale, legittimare solo le voci meno conflittuali e più passivamente organiche agli assetti politici e socio-culturali dominanti, sono tutte opzioni non accidentali e che non discendono da un destino ineluttabile a cui siamo atavicamente assoggettati.
Su questo terreno i mass media sardi hanno una responsabilità enorme. Questione su cui mi è già capitato di soffermarmi anche qui su SardegnaMondo ma che è doveroso evocare ancora una volta, sia pure di passaggio.
La consonanza deleteria tra conservatorismo e subalternità, sia in ambito accademico e intellettuale, sia in ambito mediatico, sia in quello politico, costituisce una pesantissima zavorra storica, che ci condanna a un respiro corto e a una distorsione dello sguardo con cui osserviamo noi stessi e il mondo.
Pretendere una maggiore apertura e un’articolazione più vivace del dibattito pubblico mi pare necessario, anche e soprattutto sui temi più delicati e controversi. Non ci siamo abituati, ed è un problema. Auspicare che anche su questo piano facciamo qualche passo avanti in termini emancipativi e democratici mi pare il minimo. Dovremmo farcene carico tutti, a ogni livello, dai mass media alle università, dall’ambito politico alla scuola.
Irrobustire la discussione pubblica (possibilmente non sui social media), educare i giovani e i meno giovani all’ascolto e alla partecipazione informata, moltiplicare le voci: sono tutti obiettivi non utopistici e tutto sommato meno “costosi” di altri, da perseguire collettivamente. Certo, il rischio è di finire per mettere in discussione assetti politici, di potere e anche sociali che la classe dominante sarda, nelle sue varie fazioni, preferirebbe non mettere in discussione. Ma non è questo stesso un buon motivo per farlo?
*Sul n. II, anno IV di “Dialogo”, rivista del Centro Studi Dialogo, uscito a giugno 2020, è stato pubblicato un mio articolo, intitolato Una ricetta contro i nazionalismi di stato, dedicato proprio all’impatto dell’epidemia da SARS-CoV-2 sul dibattito relativo alle forme politiche in Italia e in Europa e sulle prospettive di questo processo storico.