Una mattina qualsiasi d’autunno, su un canale radio RAI la trasmissione di servizio Ondaverde comunica che sono segnalati dei rallentamenti sulla Strada Statale 131. Dove, di preciso? Tra “San Lussorio e Abba(s)santa” (così, con la “s” sorda). Sull’errore di pronuncia possiamo sorvolare. Sulla fantomatica esistenza di un posto denominato San Lussorio, no, dato che appunto non esiste. Chiaramente ci si riferiva a Santu Lussurgiu, non proprio l’ultimo paese dell’isola, per varie ragioni, ma tant’è.
Perché tiro in ballo quest’episodio davvero minimo? Proprio perché minimo, banale, inserito in un contesto per nulla problematico. Eppure, come per altre cose più ingombranti e complesse, anche qui emerge una certa qual inconciliabilità tra la Sardegna, le sue cose, le sue lingue, la sua stessa esistenza come luogo reale, e il contesto italiano.
La mania di tradurre in italiano tutto il traducibile – specie i toponimi, ma anche gli antroponimi – data ormai da ben più di un secolo, in Sardegna. È come se, per l’apparato burocratico e istituzionale italiano, ivi comprese le istituzioni culturali, la Sardegna non fosse proprio Italia, ma qualcosa da ricondurre comunque, in un modo o nell’altro (e soprattutto… nell’altro), all’italianità. Del resto, è un po’ quello che suggeriva a metà Ottocento Carlo Baudi di Vesme (e parafraso): la Sardegna non è italiana, ma proprio per questo va estratta dalla sua condizione di barbarie facendola italiana.
Questa faccenda mi sembra collegata ad altre notiziole apparse nelle cronache quotidiane in questi giorni.
Una è che – a quanto pare (se ne sarebbe parlato sulla Nuova, andate a verificare) – il governo Conte intenderebbe ridiscutere, in termini restrittivi, gli accordi già sottoscritti con la Regione Sardegna a proposito della famigerata vertenza entrate. Accordi che erano già estremamente penalizzanti, rispetto alla mole del credito vantato dall’isola verso lo stato centrale. Che adesso qualcuno intenda ridurne ulteriormente la portata appare davvero per quello che è, ossia una brutale prepotenza di una parte sull’altra, dentro un rapporto di forza totalmente sbilanciato.
Per ora non ho letto alcuna reazione particolare e anche la notizia è da approfondire. In ogni caso, anche se fosse confermata, potremmo stupirci? E potremmo stupirci dell’inerzia della classe politica isolana in proposito?
Classe politica che in questi giorni sta dando al solito un pessimo spettacolo, completamente spaesata davanti all’emergenza sanitaria da covid-19, con la maggioranza a occuparsi di nomine e clientele varie e l’opposizione a fare comunicati e dichiarazioni del tutto inutili e persino penosi, davanti alla cruda realtà dei fatti.
Ma c’è un’altra cosa su cui l’intero arco politico rappresentato in Consiglio regionale sembra schierato compattamente. È un’iniziativa di quei geni del male che rispondono al nome di Riformatori. Un partito di cui sfuggono dimensioni, attività, peso reale, ma che non per questo rinuncia a lanciarsi di tanto in tanto in qualche iniziativa fantasiosa.
Come ricorderete, c’è il loro zampino nella faccenda fallimentare dei referendum sull’abolizione delle province (ossia, degli organi democratici delle medesime, meglio) e sulla riduzione del numero dei consiglieri regionali (che agli occhi di questi signori evidentemente non era abbastanza oligarchico).
Poi si erano anche cimentati con il mito di Atlantide, proponendo iniziative promozionali che presentassero internazionalmente la Sardegna come la unica e vera Atlantide, insieme alle altre cento proposte da qualche secolo in qua. Un’idea che prevedeva anche esborso di denaro pubblico, sia chiaro, ché qua non si muove nulla se non si possono carpire un po’ di quattrini dalle casse regionali.
Poi è venuta la gloriosa stagione dell’insularità. Sì, perché anche in questa faccenda i Riformatori hanno messo il loro zampino. Sono tra i grandi promotori della bislacca richiesta di far riconoscere allo stato italiano la natura insulare della Sardegna (una scoperta recente, in effetti) e su questo basare la pretesa di una maggiore e più incisiva tutela. La dipendenza e la subalternità non sono mai abbastanza, sembrerebbe di capire.
Dall’archeologia (sia pure fantastica) alle questioni costituzionali il passo sembrerebbe lungo, ma non per chi disponga di una buona dose di immaginazione e di una sfacciataggine indomita a sorreggerne le azioni.
Così, ecco che i due ambiti possono addirittura connettersi più strettamente in un’altra mirabile iniziativa: richiedere all’UNESCO che la Sardegna tutta, col suo “paesaggio culturale”, sia proclamata Patrimonio dell’Umanità.
La mozione è stata apprezzata dall’intero Consiglio regionale ed è passata all’unanimità, venendo subito sposata dal presidente Solinas. Cosa può esserci di meglio che un bel diversivo immaginifico e suscettibile di creare accese discussioni per distrarre l’opinione pubblica dalle questioni pressanti e concrete che ci affliggono?
Dal sito di news Cagliaripad riporto uno stralcio della notizia, con tanto di dichiarazioni del primo firmatario della mozione, il Riformatore Michele Cossa:
L’Aula ritrova l’unità sulla mozione per il riconoscimento da parte dell’Unesco del paesaggio culturale della Sardegna e la definizione del suo territorio quale “museo aperto”. Il provvedimento, sottoscritto da tutti i consiglieri regionali, è passato all’unanimità ed impegna la Giunta a rappresentare al Governo l’esigenza del riconoscimento.
“Si tratta di un progetto ambizioso, irto di difficoltà ma non velleitario – ha spiegato il primo firmatario Michele Cossa (Riformatori) – su cui si è creata una maggioranza simile a quella che si è creata attorno all’insularità”. Tra le due battaglie, sostiene, ci sono due legami: “Identitario perché il tema del patrimonio culturale sardo nuragico e prenuragico investe direttamente la nostra identità, economico perché il riconoscimento Unesco di un patrimonio millenario di questa portata costituirebbe un potentissimo attrattore turistico in grado di far salire il Pil”.
Il collegamento tra riconoscimento UNESCO e insularità è dunque esplicito. Che si tratti di un nesso molto labile e persino intimamente contraddittorio, per molti versi, non è un problema, per questa gente.
Ma al di là di questo, ciò che dovrebbe attirare la nostra attenzione critica è soprattutto il merito di tale iniziativa.
Come si può constatare, si fa riferimento al lontano passato della Sardegna, all’epoca pre-nuragica e nuragica, e si auspica dichiaratamente la trasformazione dell’isola in un grande museo a cielo aperto, o in un enorme parco a tema.
Non poteva mancare l’accenno all’identità, classico feticcio “tana-liberi-tutti” che ci sta bene sempre. Puoi fare qualsiasi porcata, persino cercare di impedire il soccorso a bambini in balia del mare, ma, se ha anche solo un vago sapore identitario, allora nessuno può trovarci da ridire.
Che la Sardegna, nella sua interezza, possa diventare una sorta di grande parco per turisti è un’idea non solo banalmente idiota, ma anche profondamente pericolosa. Come se fosse una terra disabitata, in cui non c’è nulla di significativo se non le vestigia di un lontano passato. E a chi sarebbe destinato questo grande parco tematico? Ovviamente ai turisti. La Sardegna come luogo che ha un senso solo in funzione del godimento del visitatore occasionale. Sempre a patto che paghi, sia chiaro.
Una visione puramente estrattiva, ma in termini passivi e subalterni, della nostra terra, della sua storia, della sua stratificazione culturale.
Una storia e una stratificazione culturale, che – mi spiace dare questo dolore ai Riformatori e a quelli che li seguono – non si sono arrestate tremila anni fa. Da quando è stato costruito l’ultimo nuraghe a oggi sono successe un sacco di cose, anche molto significative e persino… “identitarie”. Più identitarie di un tempio a pozzo o di un bronzetto, se vogliamo.
Il paradosso ulteriore di questa bislacca iniziativa è che viene da una parte politica a cui allo stesso tempo preme molto e da sempre la possibilità di riempire di cemento, senza tanti vincoli, coste e campagne.
Speculazione edilizia e paesaggio culturale evidentemente a costoro non sembrano in contraddizione. Misteri della politica affaristica isolana.
E non parliamo nemmeno della sproporzione tra l’entusiasmo unanime per queste iniziative senza senso e la totale acquiescenza, per non dire complicità, nella devastazione del territorio sardo ad opera di siti industriali obsoleti e inquinanti, speculazioni energetiche di ogni sorta e attività militari fuori controllo.
Se questi sono i nostri rappresentanti istituzionali e se queste sono le loro principali iniziative, possiamo stupirci che per lo stato italiano, la sua classe dirigente, il suo ambito culturale, la Sardegna sia un luogo periferico, miserevole e senza storia, a cui dedicare giusto un pensiero in prossimità dell’estate?
Posso davvero prendermela con una speaker della radio di stato che sbaglia un toponimo sardo o lo traduce indebitamente?
In tanti decenni la classe politica sarda nel suo complesso non è stata mai in grado di far valere nemmeno la nostra peculiare condizione linguistica per trarne qualche vantaggio nei rapporti con lo stato centrale.
Eppure quella è una risorsa reale, storica, vera. Non ci sarebbe bisogno di inventarsi campagne dispendiose per una scempiaggine come l’insularità in costituzione o questa baggianata della Sardegna come grande museo a cielo aperto certificato dall’UNESCO.
Ma è chiaro che la questione linguistica avrebbe un sapore troppo pericolosamente politico, per la nostra oligarchia clientelare e coloniale (ivi compresa quella parte di essa che controlla e governa l’università).
Non in termini identitari, come viene speso dichiarato (per intorbidare le acque), ma in termini emancipativi e democratici. Una battaglia, dunque, che rischierebbe di rimettere in discussione non tanto lo status linguistico del sardo, il suo posto tra le lingue europee, o chissà quale altra faccenda giuridica o accademica, bensì proprio gli assetti sociali e politici consolidati negli ultimi due secoli e mezzo nell’isola.
Non ci trasformeremo in un parco divertimenti tematico per turisti danarosi e boccaloni, né avrà successo la richiesta di far inserire l’insularità nella costituzione italiana come fonte di trattamenti più benevoli. Tutto questo è solo una perdita di tempo, un modo per attrarre l’attenzione della cittadinanza e far finta di fare qualcosa. E tuttavia queste azioni hanno la nefasta conseguenza di contribuire a costruire il senso comune delle persone sarde, a infettare egemonicamente, in termini subalterni, la nostra percezione di noi stessi nel tempo e nello spazio. In più concorrono a confermare i peggiori stereotipi razziali/culturali sul nostro conto anche presso l’osservatore esterno.
Smascherarle come grotteschi inganni e combatterle sul piano culturale e politico, a partire tra le altre cose da una più seria e sana riappropriazione del nostro passato e della nostra ricchezza culturale, è doveroso per chiunque aspiri a un riscatto storico reale, collettivo, democratico per la Sardegna.
Ricevo da Francesco Masia e copio qui:
Omar, sbaglierò, ma secondo me ti sfugge il buono della cosa.
Tanti sardi, anche malgrado i tuoi sforzi (e malgrado quelli di non pochi altri), non conoscono ancora (che) una briciola della storia della Sardegna e dei Sardi; e di quello che (a volte) sanno, o che hanno visto, troppo spesso non conoscono il valore.
Questa iniziativa, che arrivi pienamente in porto o (come puoi augurarti) meno, può attivare tante azioni che certamente possono aiutare a procedere anche verso quanto più ti preme; per averne un’idea, aspettiamo di conoscere il progetto e il comitato scientifico che vi daranno gambe (non penso risulteranno persone asservibili a un partito insulso o compatibili con un parco di divertimenti per turisti).
Sbagli, secondo me, a leggere il passo come una cristallizzazione auutoconclusiva del cammino.
Del resto, idealizzare tale cammino senza riuscire a muovere un passo altrettanto importante ed efficace (quanto, naturalmente, lo dirà il tempo) non sarebbe, alla lunga, questo grande merito. Certo, da soli è difficile, ma questo può essere un alibi, quanto non riuscire a mettersi insieme una colpa (all’insegna del “ben altro” e del “meglio”).
Non apprezzi i Riformatori, è parso, ma non è detto che chi trova l’accordo di (pressoché) tutti debba avere sempre e comunque torto (poi, com’è noto, si può sempre concedere una possibilità di ragione anche a un orologio rotto).
E del resto non dovrebbero esserci parti che tengano il proprio cappello sull’iniziativa (altro sarebbe spingerla qualora venisse lasciata languire), per cui attaccarla squalificandone chi, a ben vedere, l’ha portata dalla “società civile” all’abbraccio dell’assemblea dei Sardi può sembrare, in una certa misura, un argumentum ad hominem, un po’ fuori fuoco.
Non è un argumentum ad hominem o… ad partitum. Contesto precisamente la forma, il merito, la tempistica, le connotazioni politiche implicite e anche le connessioni esplicite di questa iniziativa che è di suo evidentemente velleitaria e destinata a un nulla di fatto. Ho argomentato la mia contrarietà, mi piacerebbe che si contestassero quelle argomentazioni, senza scappatoie di comodo.
Poi, sì, è vero, dei Riformatori, come forza politica, ho una pessima considerazione. Non a priori, però, ma in conseguenza delle loro scelte, delle loro prese di posizione, delle loro iniziative. Non siamo “sulla stessa pagina” in nessun senso, ma soprattutto non abbiamo la stessa concezione commerciale e consumistica, e direi anche padronale, del nostro patrimonio storico-culturale.
Naturalmente, se qualcuno di loro vorrà rispondere, magari precisando motivazioni e prospettive di questa loro ennesima alzata d’ingegno (perché tale resta, a mio avviso), prenderò in considerazione tale risposta e la vaglierò con la massima onestà intellettuale possibile.
Ricevo da Francesco Masia e copio qui:
Omar, la tua contrarietà (perdonami) mi sembra poggiare in larga parte su giudizi apodittici, addirittura estesi al preconizzato insuccesso dell’iniziativa quale prova della sua evidente velleità.
Ma sarò io che non sono all’altezza delle tue analisi (dico sul serio), per cui magari prendo davvero scappatoie di comodo.
Quello che in generale mi sento di dire, però (intanto che nessuno dei Riformatori ti risponde; si sa come vanno queste cose, interpreteranno tu cerchi il riconoscimento di un ruolo e, ammesso ti leggano, troveranno non sia il caso di agevolarti), è che la tua posizione (so che te ne farai una ragione) mi dispiace.
Ho i tuoi libri (romanzo a parte, ammetto) nella mia libreria; letti, come non tutti gli altri. Li considero importanti, ciascuno dei quattro; utili alla causa di una Sardegna più consapevole di sé stessa (gradino salito il quale tante cose prenderebbero una piega migliore).
Quindi mi dispiace che nei tuoi articoli mi sembri emergere, non di rado, quello che invece direi l’elitarismo di un certo (nostro) indipendentismo colto, dove davvero sembra che il meglio tenda a uccidere (per come può) il bene.
Ti leggo (non sempre, ci vuole tempo, già la mole può scoraggiare e seleziona) perché trovo ci sia comunque qualcosa da imparare dai (senza offesa) “grilli parlanti”; ma nell’insieme ricavo qualche sconforto per l’idea che plasticamente trovo rappresentata di come potremmo non farcela mai a essere uniti, tutti, su qualcosa (qualsiasi cosa).
Toccherà che anch’io me ne faccia una ragione, imparando (anche da te) che questa “irriducibilità” (a uno) non è una caratteristica speciale di noi Sardi; per cui va accettata e tollerata, senza farsene paralizzare.
Cosa vuoi che ti dica, Francesco? Devo davvero rispondere a questo che – sì, in questo caso è vero – è un argumentum ad hominem?
Ti ringrazio per il titolo di “grillo parlante” (me lo metto in curriculum) e per l’accusa di elitarismo (io sono elitarista, è notorio, mica i Riformatori e gli altri della stessa risma padronale e oligarchica!).
Spiacente di deluderti, ma non mi interessa l’unanimismo a tutti i costi, tanto meno se ci sono in gioco visioni politiche profondamente diverse e orizzonti pragmatici problematici, che non possono essere liquidati con faciloneria in nome di un generico (e sempre pericoloso) “vogliamoci bene”. E vale anche per l’ambito indipendentista, tirato in ballo non so perché, ma direi piuttosto a sproposito, in questo caso.
Non è vero – non è MAI vero – che siamo tutt* sulla stessa barca, nemmeno in Sardegna. Fare distinguo, mostrare le linee di faglia, le separazioni, articolare il discorso sulle cose in base all’articolazione reale delle cose, mi pare un esercizio di onestà intellettuale, prima ancora che una presa di posizione di parte. Se poi mi pare di intravvedere abbastanza nettamente i contorni di un inganno politico, lo dico e lo argomento senza mezzi termini. Suonerà apodittico, ma la risposta non è dire “è apodittico”, bensì fare delle obiezioni nel merito, possibilmente sensate. Non è la prima volta che lo scrivo, spero che sia l’ultima (o una delle ultime, non sono così ottimista).
Resto in attesa di obiezioni nel merito.
Ah, di ricevere il “riconoscimento di un ruolo” da persone come quelle che animano la congrega dei Riformatori o simili mi interessa poco o nulla. A dire il vero, non mi interessa affatto, in generale. Non è un obiettivo sano. Il “ruolo” te lo conquisti sul campo, perché te lo riconoscono gli altri, è vero; ma se scrivi e discuti pubblicamente al solo scopo di arruffianarti un pubblico compiacente, credo che tale intento traspaia facilmente e in modo imbarazzante. Da quello che mi attribuisci tu, invece, sembrerebbe che la mia strada vada in tutt’altra direzione, ed è vero; perciò facciamo che questa, da parte tua, è stata una specie di trollata infelice e lasciamo cadere la cosa.
Grazie per aver partecipato.