Fantalinguistica, fantarcheologia, fantastoria: risposte metodologicamente errate a un problema reale

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Quando si parla di ricostruzione del nostro passato, così come di qualsiasi altra pratica di ricerca basata sul metodo scientifico, è appunto il metodo la vera questione fondamentale.

Di solito, dalle nostre parti, ci si accapiglia fin troppo sui contenuti, sulle conclusioni, concentrandosi sulla delegittimazione dell’interlocutore, con argomentazioni ad hominem e/o fallacie “dello spaventapasseri”.

Si perde così di vista il vero nodo. Che è appunto metodologico. Riguarda le premesse non dichiarate, le cornici concettuali usate, l’articolazione del discorso.

Questa è una delle ragioni per cui il dibattito pubblico in Sardegna vuoi sui media tradizionali, vuoi sui social media, è così faticoso e così sterile.

Tanto più su temi estremamente sensibili e condizionati più di altri (ma lo sono tutti) dalle posizioni politiche, etiche, valoriali di chi partecipa al dibattito.

Ora, sulla debolezza del nostro ambito intellettuale istituzionale ho già speso qualche parola e non vorrei tornarci su.

Non mi è mai interessato delegittimare questa o quella persona (che sarebbe appunto una modalità errata di impostare il discorso), quanto piuttosto evidenziare carenze di metodo, sclerosi delle cornici interpretative, conformismo verso la narrazione egemonica.

L’attenzione sugli esiti e sui contenuti arriva dopo, la loro critica è una conseguenza.

Come sappiamo, in ambito storico-archeologico, esiste da tempo una feroce diatriba tra studi istituzionali, per così dire ufficiali, e letture alternative del nostro passato.

Ho parlato anche di queste ultime, inevitabilmente.

Cercare di mantenere uno sguardo obiettivo e intellettualmente onesto non è facile. Non è facile di suo e in più di solito ti procura antipatie presso tutte le parti in causa.

Nondimeno occorre insistere nel segnalare gli errori di impostazione e le magagne nelle teorie proposte, nella loro confezione, nella loro comunicazione.

Non esistono zone franche o ambiti che possano pretendere di essere sottratti alla critica e alla verifica.

Alle tematiche storico-archeologiche è spesso connessa – direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente – quella linguistica.

Per esempio una delle pietre dello scandalo da anni sono le tesi sulla presunta scrittura “nuragica” teorizzata dal prof. Gigi Sanna.

Ultimamente sta riscuotendo una certa popolarità la tesi di Bartolomeo Porcheddu circa una derivazione del latino dal sardo.

Popolarità garantita anche da una certa copertura giornalistica.

Apro un inciso su questo aspetto, anch’esso estremamente delicato.

È vero che non possono essere i mass media a risolvere i problemi della nostra ignoranza storica e le questioni di metodo e di merito aperte dal pubblico dibattito in proposito. Tuttavia i mass media hanno un ruolo estremamente rilevante e delicato.

Pensiamo ai danni che fa la divulgazione televisiva quando – come purtroppo accade spesso – è inaccurata o, peggio, ideologicamente orientata.

Idem per i giornali e gli altri organi di informazione.

La cattiva qualità della nostra stampa e dei nostri mass media è un grave problema che attiene alla sfera dei diritti, alla democrazia, non solo all’ambito deontologico e/o a quello dei contenuti.

Chiudo l’inciso, ma era indispensabile per contestualizzare uno degli aspetti del caso che mi accingo a discutere.

Si tratta di una notizia che ha a che fare appunto con le tesi di Bartolomeo Porcheddu circa la relazione tra latino e sardo, notizia circolata su vari organi di informazione e lanciata da titoli di tono sensazionalistico.

Riguarda un oggetto molto noto ai linguisti che si occupano di latino: il “vaso di Dueno”, una delle più antiche attestazioni del latino arcaico. Non c’è bisogno di sottolinearne la rilevanza.

L’iscrizione che vi si può leggere, tuttavia, non ha un’interpretazione unanime né sicura. Come spesso capita in questi casi.

Bartolomeo Porcheddu, presentato un po’ anodinamente come “linguista” e come “esperto”, propone una sua traduzione, a partire dalla sua tesi secondo cui il latino sarebbe nient’altro che un’evoluzione di un proto-sardo, lingua di matrice “mediterranea”.

Cosa c’è che non va in questa notizia?

Direi diverse cose.

Sul piano strettamente giornalistico – e qui mi riferisco soprattutto al lancio dell’agenzia ANSA – è mal confezionata.

A parte il tono sensazionalistico di cui sopra, si accolgono le affermazioni dell’esperto in questione senza fare mai la “seconda domanda”.

Eppure di motivi per cercare di chiarire i vari aspetti e i presupposti di cotante asserzioni ce ne sarebbero parecchi.

Per esempio quando si accenna a un presunto proto-sardo come alla lingua dominante nel Mediterraneo antico.

Questa defaillance giornalistica si intreccia con la questione principale, quella di metodo.

Lasciamo stare la qualità dell’informazione su questa presunta scoperta.

Anche in questo caso, come in altri, quel che è da rimarcare è appunto la debolezza metodologica delle tesi proposte.

Non basta a rendere credibile un’ipotesi o una tesi l’enfasi con cui viene proposta, il suo fascino, il fatto che solletichi la nostra immaginazione, o il nostro amor proprio, o persino che sembri plausibile di suo.

Per poter sostenere che sia esistito un proto-sardo, che questa lingua fosse la lingua principale del Mediterraneo all’inizio del primo millennio a.C. e che da essa sia derivato il latino occorrono non solo solidi passaggi logico-deduttivi ma prima di tutto fonti, riscontri, un quadro di riferimento teorico e documentale robusto e validato da studi e dall’ampio consenso tra gli esperti.

Prima ancora che accapigliarsi sulle conclusioni finali, la cui novità o sensazionalità non esclude in partenza una possibile veridicità, bisognerebbe soffermarsi su questi aspetti, su queste pre-condizioni.

Pre-condizioni che qui mancano.

Voglio essere chiaro. Non ho motivo alcuno per dubitare della buona fede di Bartolomeo Porcheddu, tuttavia considero irricevibile la sua tesi.

Sul sardo non mancano i documenti. Abbiamo attestazioni di questa lingua abbastanza precoci, rispetto all’area delle lingue neo-latine, e possiamo osservare con una certa facilità il suo sviluppo storico, le sue connessioni con il latino volgare e con le altre lingue romanze.

Non c’è nulla di misterioso, in tutto ciò, perché esiste una certa mole di documenti ben noti (senza escludere che se ne possano trovare altri) e gli studi che li riguardano costituiscono un corpus di conoscenze ormai vasto, articolato, consolidato.

Con tutto questo ci si deve confrontare, prima di cimentarsi in una proposta innovativa. Specie se tale proposta falsifica l’intero corpus di studi e di conoscenze date per acquisite.

La verifica del metodo e delle premesse è decisiva. È ciò che distingue una teoria credibile, meritevole di essere vagliata, criticata, convalidata o falsificata con tutta l’attenzione e l’acribia del caso, da un assemblaggio posticcio di ipotesi, indizi eterogenei, esiti arbitrari, fallacie argomentative.

Ogni premessa deve essere suffragata da attestazioni o almeno indizi consistenti e dalle premesse vanno fatte discendere conseguenze non solo logiche ma anche validate da ulteriori conferme fattuali, documentali.

Assumere come fondative di una teoria delle premesse indimostrate o puramente ipotetiche (se non del tutto fantasiose), legarle in un ragionamento arbitrario traendone una concatenazione di conclusioni non necessarie è un modo di procedere che somiglia poco a un sano esercizio della nostra ragione e molto di più alla superstizione.

Quello che una certa parte degli appassionati di archeologia, storia e/o linguistica in Sardegna non vogliono capire è che questi aspetti di metodo sono decisivi e che senza la doverosa accuratezza su questi aspetti nessuna tesi innovativa potrà mai essere anche solo presa in considerazione.

Se si presume che esista una cappa di oscurantismo conservatore nel mondo dell’archeologia, della linguistica e della storiografia ufficiali e la si vuole squarciare, a maggior ragione si deve puntare sull’inappuntabilità metodologica, sulla credibilità del lavoro di ricerca e ricostruzione.

Gli appassionati, le persone che per interesse intellettuale e/o per militanza si fanno affascinare dalle tesi alternative a quelle ufficiali, devono accettare il fatto che una tesi non è vera in proporzione a quanto essa soddisfi le nostre aspettative.

È un punto di partenza sbagliato, quello di assumere come false le risultanze della ricerca ufficiale in quanto ufficiali. Ed è altrettanto erroneo reputare più veritiere le tesi che ci piacciono, solo perché ci piacciono.

Il meccanismo della megalomania e della mitopoiesi auto-consolatoria, come risposta a vere o presunte lacune nella nostra conoscenza del passato e/o a una politica culturale orientata alla minorizzazione e alla subalternità, è un meccanismo noto e facilmente comprensibile; ma non per questo risulta più giustificabile.

Si tratta di una risposta sbagliata a un’esigenza legittima.

Non possiamo fare delle tematiche storiche, archeologiche e linguistiche un campo di battaglia tra petizioni di principio o tra opposte confessioni religiose. Non si tratta di una questione di fede.

È certamente anche una questione politica e le scelte politiche hanno il loro peso. Ma esse non possono determinare aprioristicamente quale sia la verità (la verità storica, scientifica, umana a cui abbiamo accesso con i nostri mezzi, naturalmente).

Ribadisco una cosa già detta: è necessario appropriarsi di una modalità di dibattito pubblico che sia scevra delle fallacie più diffuse e orientata tanto alla socializzazione del sapere quanto al libero confronto.

Pretendere un ruolo più responsabile e più consapevole da parte dei mass media è un lato del medesimo problema, come abbiamo visto.

In definitiva, c’è tanto da fare. Ma prima di tutto è fondamentale uscire da un costosissimo stato di minorità culturale e politico, che emerge anche e soprattutto in queste faccende. Ciascuno deve metterci del suo.

5 Comments

  1. Giusto, Omar: nella misura in cui “si presume che esista una cappa di oscurantismo conservatore nel mondo dell’archeologia, della linguistica e della storiografia ufficiali e la si vuole squarciare, a maggior ragione si deve puntare sull’inappuntabilità metodologica, sulla credibilità del lavoro di ricerca e ricostruzione.”
    Siamo d’accordo.
    Onestamente, però, non capisco perché (a quanto sembra) consideri le premesse della tesi di B. Porcheddu (per questo “irricevibile”, fatta salva la sua buona fede) “indimostrate o puramente ipotetiche (se non del tutto fantasiose), legate in un ragionamento arbitrario da cui viene tratta una concatenazione di conclusioni non necessarie (in un modo di procedere assai somigliante alla superstizione).”
    Circa i “documenti che non mancano sulle attestazioni abbastanza precoci del Sardo e sul suo sviluppo storico”, sarà certamente “consolidato” che sia il Sardo a derivare dal Latino (e ci mancherebbe che nell’ultima ventina di secoli influssi in questo senso non siano comunque avvenuti), ma Porcheddu sposta il focus della discussione molto più indietro, e naturalmente lo illumina “come può”, forse addirittura “come oggi si può”.
    I documenti cui alludi (quanto allo sviluppo storico del Sardo) non potevano che essere letti nel senso dell’uovo nato dalla gallina, non ci piove: chi mai avrebbe potuto sognare di interpretarli in senso inverso quando la Sardegna pre-fenicia era considerata un nulla (i nuraghi si dovevano a Dedalo, non si navigava, figuriamoci se si poteva lontanamente essere gli Shardana, i bronzetti ancora li si aspettava da fuori, chissà se esisteva una lingua parlata, di sicuro non scritta)? Non dovrà stupire troppo che la storia via via riconosciuta alla Sardegna antica, dico per gli avanzamenti degli studiosi titolati, porti a concepire tesi prima impensabili; tesi che, appunto, solo chi aggiornato su questi avanzamenti potrà considerare “ricevibili”.
    Vero, anche con questo discorso siamo ancora solo al “wishful thinking” (al pensiero speranzoso, o alla fantasia velleitaria), ma stabilita questa cornice vorrei appunto chiederti (per capire meglio) quali errori metodologici imputi a Porcheddu. Perché, naturalmente, non ti starai fermando a come la stampa ha raccolto e diffuso la notizia dei suoi studi.
    Quanto scrivi, insomma, dovrebbe farci pensare (da una parte) che tu abbia letto le pubblicazioni di Porcheddu sull’argomento, dove è spiegata la sua interpretazione dell’origine del Latino con tanto di riferimenti bibliografici ad autori non liquidabili come appassionati. Come dicevo, fa quello che può, forse quello che oggi si può: forse qualcuno più bravo avrebbe saputo validare meglio il tutto “con ulteriori conferme fattuali e documentali”; o sarebbe giunto a capire che, a guardar bene, non rinunciare a questa intuizione portava solo a metter su “un assemblaggio posticcio di ipotesi, indizi eterogenei, esiti arbitrari, fallacie argomentative”.
    Ecco, mi sembra però tu giunga a dichiarare che gli errori di metodo di questo studio non rendono questa tesi “credibile, meritevole di essere vagliata, criticata, convalidata o falsificata con tutta l’attenzione e l’acribia del caso”: e allora dovremmo pensare che le pubblicazioni di Porcheddu sull’argomento tu non le abbia ritenute meritevoli di lettura; se così fosse, quindi, non so davvero su cosa potresti fondare una risposta alla mia domanda (che era: quali errori metodologici imputi a Porcheddu?).

    1. Il problema non è “le tesi di Bartolomeo Porcheddu”, che è solo un episodio di una questione più ampia.

      Il problema è quello che ho esposto e che tu riassumi con qualche citazione.

      Non ho letto in modo sistematico e completo il lavoro di Porcheddu. Giusto degli stralci. E ho letto le sue dichiarazioni, sui social e sulla stampa. Devo dire che mi hanno allarmato. E, come ho scritto, mi hanno allarmato in proposito il pressapochismo, il sensazionalismo e la totale mancanza di correttezza deontologica da parte dei mass media.

      Uno dei problemi di metodo – non solo di Porcheddu, ripeto – è che non basta costruire una tesi e suffragarla con una bibliografia di sostegno. L’accumulo di studi, teorie, pubblicazioni ormai è talmente vasto e stratificato che chiunque potrebbe sostenere qualsiasi tesi, in campo scientifico, storico, archeologico, linguistico, ecc., e reperire facilmente un po’ di bibliografia di riferimento.

      Non basta nemmeno che il lavoro deduttivo (ma più spesso induttivo), fatto a partire dalle premesse e appoggiato su fonti e testi scelti all’uopo, fili liscio e conseguente, perché il problema si annida appunto nelle premesse e nel mancato riscontro esterno al campo dell’ipotesi medesima.

      La ricerca e le acquisizioni teoriche e scientifiche sono molto più un processo di costruzione della conoscenza collettivo che il frutto del genio o del sudore di menti singole, per quanto geniali possano essere.

      Non è un sistema perfetto; sappiamo quanto la stessa ricerca accademica sia inquinata da dispositivi non sempre trasparenti di selezione, promozione, rifiuto, a cominciare dall’infernale mondo delle pubblicazioni e dalla sfrenata competizione quantitativa che ammorba ormai ogni ambito del sapere. Tuttavia gli anticorpi sono ancora robusti ed è insuperato quella sorta di impianto democratico e paritetico che prescrive il confronto continuo, il dibattito, il consenso della comunità degli esperti, per la validazione o la falsificazione di una tesi, di una teoria, di un esito sperimentale.

      Mi pare che tutto questo sia omesso, scartato a priori, addirittura rifiutato in molti casi relativi alle cose sarde, specie in ambito storico-archeologico e linguistico.
      Per altro, dobbiamo anche accettare la possibilità che su certe cose non solo non sappiamo nulla o sappiamo pochissimo oggi, ma potremmo anche non saperne nulla mai.

      Nel caso della tesi di Porcheddu non conta solo il fatto se il suo ragionamento sia suffragato da qualche testo o da un po’ di bibliografia, se faccia riferimento a qualche documento. Certo, questo non deve mancare. A patto di vagliare tutte le fonti e le conoscenze acquisite disponibili, senza selezionare appositamente quelle a favore e scartare quelle contro. Ma c’è anche un altro aspetto di peso. La sua tesi non riguarda solo la storia linguistica della Sardegna, bensì riguarda l’intero impianto di studi e di conoscenze della linguistica contemporanea. Ribalta e falsifica tutto ciò che è dato per acquisito nella storia linguistica dell’Europa e del Mediterraneo.

      Sia chiaro, è legittimo mettere tutto in discussione. La scienza procede proprio così, per continui aggiustamenti, per costante verifica degli esiti, senza zone franche, senza esclusione della falsificabilità di alcuna conoscenza. Altrimenti non sarebbe… scienza. Tuttavia, per mettere tutto in discussione, l’impianto di premesse, documenti, prove, studi e proposte teoriche innovative deve essere non solo robusto, ma anche passato al vaglio del confronto su scala internazionale, discusso, immesso nella circolazione delle idee e degli studi di quell’ambito specifico e di tutti gli ambiti con cui ha a che fare (l’interdisciplinarità è ineludibile, specie in questi campi di studi).

      Invece troppo spesso in Sardegna, dove già non brilliamo per apertura al mondo degli stessi studi accademici (quanta ricerca storica, archeologica, linguistica, sociologica fatta nell’isola trova ospitalità nel consesso internazionale? con quale peso?), anche la ricerca indipendente e le proposte alternative a quelle ufficiali (chiamiamole così) si auto-relegano in una dimensione provinciale, autoreferenziale, molto assertiva, a volte di indole profetica. Qualcosa di poco scientifico in partenza, insomma.

      Chi può escludere che di qui a qualche anno emergano riscontri, esiti di ricerca e ampio consenso a proposito di una nuova ricostruzione della storia linguistica europea? Per quanto possa apparire improbabile, nessuno può dichiararlo impossibile. Qualcuno ci ha già provato. Ma ci vuole tempo, ci vogliono studi, pezze d’appoggio solide, argomentazioni forti, confronto ad ampio raggio. In mancanza di tutto ciò, nessuno può pretendere che le proprie tesi innovative siano prese per buone sic et simpliciter. Tanto meno può rifiutare che siano discusse, che siano vagliate, sottoposte a tutte le prove possibili di falsificazione; e magari non accolte.

      E bisogna anche cominciare ad avere più rispetto delle competenze, del lavoro di apprendimento e di addestramento alla ricerca di chi ha fatto regolari corsi di studi, di chi ha maturato titoli ed esperienze professionali nei diversi ambiti. Senza rinunciare a fare domande, a muovere obiezioni, a vagliare criticamente e anche a proporre alternative, ma appunto sempre tenendo presenti le fondamentali questioni di metodo che ho richiamato nel post qui sopra.

    1. Francesco, lo dico a te ma vale per tutti i commentatori in questo spazio: non sono ammessi link diretti a Facebook. Non cancello il commento, perché non avevo ancora precisato questa regola. Ma da qui in avanti confido che vi si attengano tutti.

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