Transizione storica conflittuale e scenari prossimi venturi, dalla prospettiva dell’autodeterminazione democratica

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Dice: il mondo va a rotoli e non si intravvede nemmeno una possibile alternativa a questa deriva.

Non lo so. L’alternativa secondo me si intravvede pure. Ma si vede ancora meglio lo scenario verso cui le forze storiche dominanti ci stanno conducendo.

Se prestiamo orecchio al rumore di fondo, alla confusione organizzata che impera sui media, ci illudiamo di essere informati puntualmente e tempestivamente su tutto, quando invece siamo solo prigionieri di una trappola.

Di cosa parliamo quando parliamo degli eventi macroscopici che ci accadono intorno? E cosa vuol dire transizione storica?

Al di là del dibattito sui mutamenti climatici, alimentato ad arte dai negazionisti, è evidente che l’impatto umano sul pianeta sta producendo effetti distruttivi su una scala inedita e con tempi non assimilabili dalla biosfera.

Il riscaldamento globale c’è, ma non è l’unico fattore di rischio.

Basti pensare alla drastica e repentina – su scala geologica e biologica – riduzione della biodiversità (sentite qui). Basti pensare all’inquinamento, ai problemi di reperimento e distribuzione dell’acqua potabile, al consumo di suolo fertile.

Tutto ciò ha effetti su scala storica. Le migrazioni, che tanto atterriscono xenofobi, sovranisti, fascisti e altro ciarpame analogo, sono giusto il minimo che ci possiamo aspettare.

E ci andrebbe di lusso se si trattasse solo di quello.

Ricollocare qualche milione di esseri umani in aree del pianeta abitate da *centinaia di milioni* di persone, aree che ormai presentano una natalità bassissima o negativa, non sarebbe davvero un grande problema, se fossimo davvero una specie *sapiens* come ci piace definirci.

La questione è più complessa di così, purtroppo.

Ci sono tanti fattori da considerare, tante variabili di cui tenere conto e alcune persino non del tutto conosciute o prevedibili.

Quel che mi pare certo è che i gruppi dirigenti planetari – e quelli europei in primis – non stanno affatto cercando di capire cosa fare per scongiurare gli esiti peggiori, ma molto più prosaicamente stanno cercando di garantire se stessi, sia pure ai danni della maggioranza dell’umanità, magari avvantaggiandosi proprio di questi esiti peggiori.

Caso mai i dubbi, dentro quelle combriccole di privilegiati, riguardano quanta parte della restante umanità preservare per servire ai loro scopi.

L’enfatizzazione dell’ideologia liberista porta a conseguenze drammatiche, sul medio termine. E non possiamo sentenziare, pilatescamente, che nel medio termine saremo comunque tutti morti, perché non è nemmeno del tutto vero.

Sia chiaro, non voglio fare il complottista da quattro soldi. Certe dinamiche storiche non dipendono dalla volontà cosciente di questa o quella persona. E chi tira in ballo Soros ogni tre per due (ma mai Zuckerberg, per dire) è solo un imbecille funzionale alla sua stessa sottomissione.

Tuttavia è ovvio e direi evidente che le classi dominanti del pianeta ragionino in termini – espliciti o impliciti – di lotta di classe.

Lo fanno sempre e lo fanno anche ora, che pure la lotta di classe sembrerebbe vinta definitivamente. Da loro, s’intende.

La responsabilità dei maggiori guasti ecologici ricade sulla minoranza umana detentrice della più grande fetta di ricchezze.

Ci sono studi, dati, tabelle che lo raccontano, a volte con una certa dose di cinismo.

Ed è abbastanza scontato. Il nostro modello di consumo è deleterio di suo, ma necessariamente chi usa e consuma più mezzi e risorse è chi ha maggiore disponibilità economica.

I guasti climatici ed ecologici del pianeta sono direttamente riconducibili al nostro modello economico (con tutte le sue varie articolazioni concrete) e di conseguenza alla politica.

È un problema sistemico e strutturale, collettivo insomma, non una responsabilità individuale. Al contrario di quanto pretende la propaganda colpevolizzante che domina la scena.

Sono un poveraccio che deve far campare una famiglia con un reddito penoso e/o precario, ma dovrei dissanguarmi per mangiare solo prodotti bio, usare solo mezzi ecologici, selezionare accuratamente usi e consumi; mentre il riccone del quartiere bene può spostarsi in suv, viaggiare in aereo anche tutti i giorni, farsi consegnare la mozzarella fresca dell’isola di Chiloe a tremila Km di distanza, intanto che investe contemporaneamente in incendi amazzonici (o australiani) e in imprese di antincendio.

Oggi è in prima pagina la crisi tra Iran e USA. E sembra un fatto contingente, nato in un contesto specifico e tradizionalmente problematico.

La maggior parte di noi sente di non poterci fare nulla e al massimo si limita a schierarsi in una delle tifoserie sugli spalti.

Ha a che fare questa crisi con le questioni ambientali e socio-economiche? Non si direbbe, a leggere gli editoriali e le analisi degli esperti (veri o sedicenti tali) di geo-politica.

Ha a che fare con i guasti del nostro modello produttivo, con la diseguaglianza patologica, con lo sfruttamento rapace di esseri umani e risorse? Ma quando mai!

Invece credo e temo che la connessione tra tutti questi fenomeni esista e sia più forte e diretta di quanto appaia (o di come ce la raccontano).

Così come sono connessi tutti i fenomeni di protesta popolare, di sommovimento sociale in corso nel mondo.

Parlo di transizione storica proprio perché in questo periodo della vicenda umana si sono accumulate forze e contraddizioni che non è più possibile tenere a freno dentro forme di convivenza e di controllo politico stabili.

Nulla è mai davvero stabile (è colpa del secondo principio della termodinamica e dei suoi corollari), ma a volte vengono meno anche quei labili punti di riferimento – nel nostro modo di procurarci e distribuirci le risorse, nelle forme con cui regoliamo relazioni e conflitti, nel nostro rapporto con l’ambiente, nel nostro modo di occupare uno spazio geografico, ecc. – che nelle epoche più statiche ci fanno apparire grosso modo ordinate e comprensibili le vicende umane.

Oggi per noi è molto più facile, rispetto a cinquanta, quaranta e anche trent’anni fa, capire come si sentissero gli abitanti dell’impero romano verso tra la fine del IV e gli inizi del V secolo e nei decenni seguenti.

Teniamo conto che la transizione dall’Antichità propriamente detta al cosiddetto Medioevo è durata secoli.

E anche la transizione tra il cosiddetto Medioevo e la nostra contemporaneità – il periodo che siamo abituati a definire Era Moderna – è stata anch’essa lunga e complicata.

Non si tratta mai di singoli eventi o di momenti puntuali, con un prima e un dopo netti e ben stagliati sullo sfondo della storia.

La nostra transizione storica, che avviene al momento del trionfo globale della civiltà di stampo europeo e capitalista, sia pure con interpretazioni diverse a seconda della longitudine, non si presenta facile né promette di essere breve.

E non è nemmeno detto che avrà un esito storico verificabile. Puta caso che ci autodistruggiamo come specie prima di vedere come va a finire.

Intanto però qualcosa dovremo pur fare.

Per esempio, in Sardegna, potremmo rassegnarci al nostro ruolo di spettatori dello spettacolo in corso a reti unificate, facendo finta di non essere una pedina sacrificabile e un mero oggetto storico facilmente maneggiabile.

Ci sono molte forze sociali e politiche che lavorano a mantenere viva questa illusione. Con efficacia decrescente, ma ancora con considerevoli mezzi a propria disposizione per trovare alla bisogna diversivi e scappatoie.

Oppure possiamo provare a immaginare un ruolo diverso per noi, come collettività storica; non da soli, ma in collaborazione con altri.

Dopo tutto, siamo “al centro della civiltà europea” (cit.), non proprio così lontani e isolati come amiamo dipingerci.

E tutto intorno a noi o appena più in là succedono cose.

Chiaro, non mi azzardo nemmeno per scherzo a immaginare prese di posizione sensate o addirittura scelte politiche di spessore internazionale – e figuriamoci storico! – da parte della nostra miserrima classe politica.

Che, dal canto suo, mi sembra fin troppo impegnata a spolpare l’osso finché c’è ancora qualche brandello di ciccia da strappare, e al domani ci penseremo… domani.

Ma la politica si può e si deve fare anche fuori dal Palazzo, come ci diciamo tante volte.

Una delle cose che succedono intorno a noi è la forte pressione storica esercitata dai popoli senza stato europei sulle strutture politiche di cui sono cittadini.

Un’altra è la crisi dell’Unione Europea, tramortita dalla propria debolezza politica, dalla Brexit e dalle spinte contraddittorie dei processi in corso su scala globale, che essa non è in grado di contenere né di cavalcare.

E il tutto a stretto contatto con aree geografiche percorse da conflitti, trasformazioni rapide, fenomeni migratorii di massa.

(L’Italia non possiamo onestamente prenderla in considerazione data la sua natura fittizia e meramente diversiva. Poco divertente, per altro. Prima di tutto per gli italiani stessi.)

Nel dibattito sul futuro dell’Europa e, in Europa, delle sue cosiddette nazioni senza stato dovremmo a mio avviso inserire la questione della democrazia e della pace come elementi connaturati nel nuovo processo di autodeterminazione in corso.

I movimenti autodeterminazionisti, sia per virtù proprie, sia per le circostanze in cui si trovano ad agire, sono più avanti di altre forze politiche e sociali su alcuni temi strategici.

Per esempio sul tema del monopolio della forza, su quello della rappresentanza politica, sul terreno dei diritti fondamentali, sulle questioni socio-economiche e ambientali, sulle stesse ideologie nazionaliste, sulle relazioni internazionali.

Non a caso si stanno già verificando convergenze con alcuni movimenti sovranazionali, come Frydays For Future o Non Una di Meno (ed esperienze di lotta analoghe), e sono da tempo in corso relazioni con contesti conflittuali ma significativi per l’apertura di una possibile prospettiva democratica generalizzata come il Rojava (vilmente abbandonato dai governi europei alle mire imperiali e oscurantiste di Erdogan).

Ai movimenti autodeterminazionisti sono associabili anche movimenti popolari più circoscritti, ma che hanno maturato modalità di azione, riflessioni e obiettivi molto simili, come il movimento NoTAV della Val Susa in Piemonte.

Manca, è vero, una cornice concettuale e ideologica unificante, una dogmatica di riferimento. Che può essere per alcuni versi un fattore utile, ma secondo me non necessario e, per altri versi, potenzialmente distruttivo, sul medio/lungo periodo.

La dogmatica, il fideismo, la battaglia per l’egemonia interna hanno devastato il socialismo e più in generale l’ambito della sinistra in Europa: non è il caso di ripercorrere le stesse strade e di ripetere i medesimi errori.

Vero però che un apparato concettuale di riferimento e una qualche forma di consonanza ideale devono esserci.

Secondo me ci sono, in effetti. Per questo all’inizio dicevo che qualche barlume di alternativa possibile si intravvede.

Non è niente di semplice, di lineare o di strutturato, è chiaro. Ma non siamo del tutto sprovvisti di strumentazione teorica, di esperienza pragmatica e di memoria.

Se i movimenti autodeterminazionisti democratici sapranno assumere un ruolo di lievito emancipativo, dentro il più ampio cotesto delle lotte intersezionali e delle rivendicazioni sociali e ambientaliste, potranno essere nei prossimi decenni uno degli elementi forti dell’alternativa alla distopia a cui siamo destinati.

È una possibilità, non un esito già scritto. Bisogna lavorarci e lottare. Contro di essa giocano molti fattori. Ma chi ha mai detto che sarebbe stato facile? E varrebbe davvero la pena di provarci, se lo fosse?

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