Nei giorni scorsi sui social c’è stata qualche discussione – a tratti accesa – a proposito del festival letterario di Gavoi e della sua presunta ostilità verso il sardo e la letteratura in lingua sarda.
È una polemica che si ripropone ormai da anni e nessuno si offenderà se dichiaro che la trovo noiosa e inutile, se non proprio dannosa.
Le argomentazioni pro e contro continuano a ripetersi infatti come in un dialogo tra sordi, senza che si arrivi ad altro che ad esacerbare gli animi e a creare inimicizie insensate.
C’è più di un equivoco di fondo, in questa faccenda.
Per esempio riguardo alla percezione di cosa sia un festival letterario, di cosa comporti organizzarne e farne sopravvivere uno per anni in un contesto poco ricettivo come quello culturale italiano (a cui il festival di Gavoi fa riferimento). Oppure su cosa sia la letteratura sarda (posto che esista) e quale sia il ruolo della lingua sarda in questo ambito.
Contestare un festival pretendendo che i suoi organizzatori aderiscano a una prospettiva che non appartiene loro è come minimo inutile, uno spreco di energie.
Magari il festival di Gavoi è particolarmente bersagliato in quanto arbitrariamente ascritto – in senso antropologico, più che geografico – a una Sardegna “interna”, presuntamente depositaria della “vera sardità”. Uno dei guasti della mitologia identitaria a cui soggiaciamo da troppo tempo.
Sia come sia, per quanto possa dispiacere, il festival di Gavoi è un festival che, come detto, si iscrive pienamente nel contesto culturale italiano e tramite questo in quello internazionale.
Per quanto spazio venga dato lì ad autori sardi (cosa che avviene in realtà con una certa costanza), non ha senso rimproverare ai suoi organizzatori una pretesa anti-sardità.
Per altro niente vieta a chi voglia dedicare occasioni e risorse alla letteratura sarda, e nello specifico a quella in lingua sarda, di organizzare convegni, rassegne e momenti di confronto e/o di commercio librario destinati a tale ambito culturale.
Mi pare però che si sottovalutino sempre, e da entrambe le parti, le condizioni reali della questione linguistica. Si ragiona in astratto e ognuno dentro un proprio schema ideologico, senza calare le proprie posizioni dentro le relazioni concrete e dentro le dinamiche sociali e culturali così come esse sono.
Il problema della letteratura in lingua sarda (o nelle lingue minoritarie dell’isola) non si risolve creando artificiosamente spazi appositi dentro manifestazioni culturali destinate ad altro. Non servono le “riserve indiane” o le “quote” predefinite.
Non serve nemmeno pretendere dagli autori sardi più noti che “scrivano in sardo”. Questa onestamente mi sembra una richiesta pretestuosa e in una certa misura anche offensiva e spero che non ci sia nemmeno bisogno di spiegare perché.
La questione di fondo è che nessun sardo, mai, è stato alfabetizzato in sardo.
Nessuno di noi, né dei nostri genitori, nonni e antenati, ha mai compiuto un corso di studi regolare in sardo, ha imparato a leggere e scrivere in sardo, ha avuto a disposizione una lingua scritta convenzionalmente definita che servisse a tali scopi.
Aspettarsi che si formi uno stuolo di lettori di testi in sardo senza che esistano le basi concrete perché tale fenomeno si sviluppi è peggio che utopistico, è proprio assurdo.
Non illudiamoci di poter sfuggire a questa faccenda. Non serve a niente la scappatoia retorica usata da chi sostiene che il sardo vada prima di tutto parlato, magari in famiglia, se si vuole che cresca la letteratura in sardo.
Questa argomentazione non ha senso, oggi meno che mai.
Primo perché il sardo sta pian piano (ma forse nemmeno tanto piano) perdendo spazio di utilizzo, trovandosi relegato in una penosa condizione di dilalia.
Poi perché non è mai esistita una letteratura narrativa che si basasse esclusivamente sulla pura e semplice esistenza di un idioma.
La letteratura come la intendiamo noi è un prodotto culturale moderno, che discende da precise condizioni storiche, una delle quali è l’esistenza di un lingua codificata e diffusa in forma scritta e che detenga anche uno status di un certo prestigio. Funzione di tale condizione particolare è l’insegnamento scolastico di tale lingua e in tale lingua.
Finché il sardo è stato la lingua di prima socializzazione e di uso quotidiano di una larga parte degli abitanti dell’isola era anche un mezzo potente di creazione poetica. La poesia, come è noto, ha una possibilità di fruizione più immediata rispetto ad altre forme letterarie, specialmente al romanzo.
Ma non siamo più in quella situazione e non stiamo parlando di poesia popolare o gare poetiche (che in Sardegna soffrono ormai anch’esse i problemi della marginalità).
Se estendiamo il ragionamento alla pubblicistica, alla saggistica e alla produzione giornalistica, il discorso si complica ulteriormente.
Nessuna lingua minoritaria e minorizzata potrà mai accedere facilmente e stabilmente a forme d’uso così codificate, senza possedere, a monte, uno status ufficiale e didattico pienamente riconosciuto e dispiegato.
Oggi come oggi è impossibile una diffusione della letteratura in sardo tale per cui l’editoria possa trovarla appetibile.
L’industria editoriale è un’impresa economica. Per quanto possa godere di incentivi e finanziamenti (che io reputo non solo necessari ma doverosi), se non dispone di un pubblico sufficientemente vasto da alimentare una congrua domanda del prodotto “libro in sardo”, non avrà mai alcuna possibilità di sopravvivere. Non ha nemmeno senso discuterne.
Bisogna essere coscienti di questo lato della faccenda, perché ha evidenti implicazioni politiche, oltre che pratiche.
Il sardo (così come il gallurese o l’algherese o il tabarchino) non esiste nelle scuole dell’isola, se non accidentalmente e come risultato di sforzi individuali, non organici e non sistematici.
Non esiste un insegnamento del sardo a scuola strutturato, formalizzato, riconosciuto. Tanto meno esiste un insegnamento in sardo.
Non solo non esiste, ma alle condizioni attuali non può esistere. La scuola sarda è una scuola italiana in Sardegna. Pensare che dentro questo contesto possa inserirsi un riconoscimento e un’applicazione del sardo come materia rilevante di studio e addirittura come lingua veicolare è puramente velleitario.
Ciò significa che non se ne debba parlare e che ci si debba rassegnare? Direi proprio di no. Ma è indispensabile essere onesti politicamente e intellettualmente, su questo punto.
Ci sono tante cose che si possono e si devono fare, già ora. E in parte si stanno facendo. Anzi, da questo discorso non si può escludere un doveroso riconoscimento ai tanti che in questi anni stanno lavorando a un uso finalmente “contemporaneo” – ossia non folkloristico né “dialettale” – del sardo.
La polemica sui finanziamenti che riceve, in varie forme, ma mai in quantità cospicue, la lingua sarda è capziosa, se non del tutto in mala fede. Specie se fatta da chi vorrebbe che i sardi si rassegnassero alla italoglossia, come se l’italiano non fosse esso stesso una lingua artificiosa quant’altre mai e per di più imposta storicamente in forme autoritarie, classiste e razziste, a tratti apertamente colonialiste.
Allo stesso modo sono irricevibili le critiche mosse alle numerose traduzioni in sardo di grandi e meno grandi opere letterarie scritte in altre lingue. Un lavoro prezioso che contribuirà a creare una base solida per un utilizzo didattico e scolastico del sardo, quando ce ne saranno le condizioni.
In quest’ambito basterà ricordare due esempi relativamente recenti, di cui si è parlato abbastanza, ma a volte in termini ostili: la traduzione dall’arabo al sardo dei racconti di Zakaria Tamer (autore siriano), fatta dall’arabista Alessandro Columbu, e la traduzione dal castigliano al sardo del Don Quijote di Cervantes, realizzata da Giovanni Muroni, a cura del Coordinamentu pro su Sardu Ufitziale (con importanti riconoscimenti da parte delle istituzioni culturali spagnole, per altro).
Entrambe le opere sono state edite da Condaghes, che da anni si cimenta meritoriamente in quest’ambito, nonostante le oggettive difficoltà.
Sono solo pochi esempi di un movimento culturale pure non marginale, né estraneo a una sensibilità popolare diffusa, benché spesso inespressa. Sensibilità popolare che cozza con l’organizzazione del sapere dominante e che indubbiamente minaccia dal basso gerarchie sociali e politiche acquisite.
In definitiva va sempre riportato il focus sulla natura strettamente politica della questione linguistica. Non c’è nemmeno bisogno di scomodare Antonio Gramsci o altre personalità di rilievo che si siano espresse in materia per riconoscere questa evidente verità storica.
Come tale è una questione complessa e inevitabilmente conflittuale. Ridurla a fenomeno folkloristico o a feticcio ideologico non sarà mai un buon servizio al fine della sua risoluzione.
Ignorarne l’esistenza o relegarla nel novero delle questioni secondarie ed eventuali non servirà a cancellarla dallo scenario (ci hanno già provato, e a lungo, del resto, ma siamo ancora qui a parlarne).
Usarla come strumento polemico per screditare avversari veri o presunti è un pessimo torto che si fa a una parte così significativa e preziosa del nostro retaggio culturale.
Non è dunque colpevolizzando un festival letterario (tra i tanti che si svolgono annualmente sull’isola) o cercando di screditare gli scrittori sardi in lingua italiana che si farà mai un solo passo avanti in questa faccenda.
Ci vorrebbero meno muretti a secco, anche qui, e più ascolto. Meno difese corporative e faziose e più riconoscimento reciproco.
Ho la ragionevole certezza che tante tra le persone che oggi appaiono posizionate da parti opposte di una ipotetica barricata potrebbero invece trovare, volendo, un comune terreno di confronto e persino arrivare a conclusioni non dico coincidenti ma quanto meno conciliabili.
In tutto questo naturalmente brilla per la sua assenza il livello politico e culturale istituzionale, ma da quella parte, nelle attuali condizioni storiche, non potrà che venire sempre indifferenza o più facilmente implicita o esplicita ostilità.