Che si tratti di barbarie non c’è dubbio e ci siamo ben dentro. Non mi riferisco in particolare al “terrorismo” o ad altre emergenze occasionali, appositamente enfatizzate (se non create ad arte).
Che il mondo non sia da tempo il migliore dei mondi possibili penso che in pochi potrebbero negarlo. Quei pochi sono coloro che in questo mondo ci vivono benissimo, a spese altrui, o sono degli stolidi panglossisti in servizio permanente effettivo (ce ne sono sempre).
Difficile dire qualcosa che non sia stato detto. E forse è proprio qui uno dei nodi. Bisognerebbe cominciare a guardare lo scenario con lenti diverse e trovare parole nuove non solo per descriverlo, ma anche per cambiarlo.
Cento anni fa esisteva una grande dialettica grosso modo schematizzabile nel conflitto tra capitale e lavoro, tra conformismo borghese trionfante e aspettative di mutamenti radicali incarnate dal vasto movimento socialista e anarchico.
Questo, non ovunque, sia chiaro. È uno schema valido soprattutto per l’Europa. In un secondo momento esteso ad altre porzioni di mondo, specie nei processi di de-colonizzazione.
Era una dialettica feconda, perché esistevano forze sociali dinamiche, riflessioni sistemiche e profonde, visioni generali, forme organizzative di massa (sia nel funzionamento della produzione economica, sia in ambito politico).
Oggi cosa abbiamo? Le ideologie sono morte, sostiene qualcuno, con soddisfazione. Qualcun altro a suo tempo aveva teorizzato la “fine della storia”.
La sola idea che possa esserci un pensiero politico strutturato, complesso, sistematico fa storcere il naso a molti. Ci siamo ripiegati sul “qui e ora” consumistico a cui ci ha condotto il sistema economico dominante, grazie al suo apparato egemonico.
Uno dei problemi è che le dinamiche sociali in corso conducono dritte dritte verso una nuova forma di autoritarismo globale, ben più pericoloso e pervasivo di quanto immaginato dagli autori distopici novecenteschi (Orwell e Huxley soprattutto).
Tante ciance sulla globalizzazione hanno nascosto una realtà decisamente più complicata.
La globalizzazione, così come è stata creata narrativamente, non è che un feticcio ideologico, buono per nascondere rapporti di forza sbilanciati, violenti, distruttivi. Che le élite mondiali intendono perpetuare e radicalizzare.
Invece una globalizzazione vera, responsabile, onesta, libera, sarebbe necessaria, nel momento in cui il pianeta che ci ospita rischia di presentarci il conto dei nostri bagordi incontrollati.
Le sfide a cui dobbiamo rispondere sono enormi e generalizzate. Pensare di affrontarle con i mezzi, le parole e le idee di cento anni fa è ridicolo.
Non perché non si possano trarre buone idee e efficaci strumenti di analisi dal pensiero di qualsiasi epoca dell’umanità, e tanto più quanto più è vicina tale epoca, ma perché è ancora prevalente la tendenza all’affidamento acritico, alla fede in dogmi indiscutibili.
Un atteggiamento puerile, ma molto molto diffuso. Che viene alimentato dalla paura serpeggiante in tutti gli strati sociali, specialmente delle società ricche, dominatrici del pianeta.
È un terreno fecondo per qualsiasi avventura totalitaria.
Il fascismo e il nazismo non hanno avuto successo perché erano buone idee, né perché sono stati sostenuti dalle masse subalterne.
La radice del loro successo è stato il conformismo borghese e piccolo borghese, il timore dei ceti medi di precipitare in basso nella scala sociale, l’appoggio della classe intellettuale istituzionale (burocrazie, scuola, università, mondo della cultura).
Oggi le classi medie europee e occidentali in genere (ma forse non solo) vivono attanagliate dalla percezione del proprio declino e non sanno a che santo votarsi.
Odiano i populismi (ma ne sono attratte), odiano la possibilità di rivolgimenti radicali dello status quo, detestano il dubbio, la brutale vitalità delle circostanze reali.
Tifano Rodham Clinton contro Trump, come se si trattasse davvero di una scelta tra due alternative opposte. Osannano Obama, rimpiangendolo. Sostengono le guerre umanitarie.
Confidano nella democrazia liberale e nella legalità, salvo desiderare di escluderne qualcuno, all’occorrenza, a seconda di quel che succede.
Detestano le manifestazioni di piazza, le istanze radicali, le presunte sindromi NIMBY di minoranze etniche e territori toccati da speculazioni e grandi affari (a meno che non sia qualche popolazione abbastanza esotica e lontana da non chiamarli in causa direttamente).
Scindono ottusamente i diritti civili individuali dai diritti sociali e dalle questioni politiche generali.
Le élite mondiali hanno gioco facile ad alimentare tali sentimenti. Tutta la retorica della “lotta al terrorismo”, tutta l’attenzione puntata ad arte sui nemici esterni di turno hanno una funzione normalizzatrice.
Che sia Putin, o l’ISIS, o l’islam in quanto tale, la Cina o qualche regime additato dai mass media come anti-democratico, o le stesse masse incolte da cui ci si vorrebbe distinguere, è facile sventolare uno spauracchio al quale attribuire ogni abiezione, mentre si decide come spartirsi le risorse e come mantenere il potere.
Purtroppo a cascare in questa trappola non sono solo, o tanto, le masse incolte che votano “sbagliato”, ma appunto soprattutto i ceti medi, istruiti ma impauriti.
Sono coloro che, in nome della democrazia, vorrebbero togliere il diritto di voto a chi non risponde al proprio identikit del bravo cittadino.
In Italia questo fenomeno è molto evidente, data la sua congenita fragilità politica, sociale e culturale.
Lo vediamo nell’ossessione con cui si discute dell’analfabetismo funzionale, che naturalmente è sempre quello altrui.
Un’altra spia, molto preoccupante, è l’entusiasmo con cui persone istruite e normalmente consapevoli hanno accolto l’emanazione del decreto legge sull’obbligatorietà vaccinale, senza coglierne affatto la pericolosità politica.
Ed anche la complicità con cui si guarda favorevolmente alla decretazione in materia di “degrado urbano”, o si mal tollerano le manifestazioni radicali contro le Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte.
In tutto questo gioca il suo ruolo il sempiterno conformismo borghese, l’ottusa sicumera di chi si sente superiore alle masse incolte e irrazionali, ma non abbastanza distante da esse da potersene infischiare.
È su questo tipo di atteggiamento che allignano facilmente i sentimenti reazionari su cui si basa poi qualsiasi regime autoritario di successo.
È drammatico che questa cosa passi inosservata. Ed è pericoloso che non esista oggi un contraltare forte, strutturato, attrattivo come poteva essere il movimento socialista di cento anni fa.
Perché, se nella barbarie ci siamo già dentro, quel che non possiamo prevedere è se e quando potremo uscirne. E nemmeno come.
Affidarci alle illusioni della democrazia rappresentativa di stampo europeo, che sia liberale o socialdemocratica, è un lusso che non possiamo permetterci.
Limitarsi a sperare che le cose non precipitino non ha senso.
È dunque indispensabile dotarci di un nuovo orizzonte politico, basato su una visione della convivenza umana che non scenda troppo a patti con i meccanismi deleteri del sistema economico dominante e del suo apparato ideologico.
Un nuovo socialismo, ma scevro di dogmatismi e di illusioni leniniste. Non si tratta di “prendere il potere” e poi col potere in mano costruire il migliore dei mondi possibili.
Abbiamo già visto che non funziona. Qualsiasi modello politico, per quanto virtuoso, finisce per essere tradito quando si prova ad imporlo. A meno che non sia in partenza un modello criminoso (come il fascismo, appunto).
Occorre tornare ai fondamentali. Ai principi regolatori della vita sul pianeta, all’accettazione della complessità e della diversità, ma perseguendo l’equilibrio.
Che non vuol dire “troviamo la formula magica, la applichiamo e tutto andrà a meraviglia”. L’equilibrio, in un sistema dinamico, vivo, è sempre transitorio, è un momento di un processo, non uno stato raggiunto il quale ci si possa semplicemente fermare.
Un nuovo socialismo, dunque, fondato sulla consapevolezza che l’esistenza stessa della nostra specie è dovuta alla nostra versatilità, alla capacità di far tesoro di caratteristiche diverse, la cui efficacia può non essere evidente sempre, ma che al momento opportuno si rivela decisiva.
L’intelligenza collettiva, la condivisione, il corretto rapporto con l’ecosistema e con l’ambiente, non visti come entità sacre e intoccabili, ma come parte della nostra esistenza, come il nostro contesto esistenziale necessario.
Modelli di produzione che non sacrifichino ogni altra cosa al vantaggio privato. Reti di distribuzione che non siano basate unicamente sul saggio di profitto degli intermediari. Sottrazione dei beni comuni alla logica dell’interesse individuale come unico criterio di validità di un modello economico.
La stessa autodeterminazione dei popoli rivisitata non come conflitto permanente tra nazioni – secondo la vecchia logica geo-politica ancora dominante, a cui purtroppo sono tanto appassionati anche molti marxisti o progressisti – ma come relazioni pacifiche e costruttive tra collettività umane dentro una rete di ampie autonomie.
Non siamo privi di riflessioni, proposte, soluzioni, per fondare un orizzonte politico del genere, sia dal lato strettamente economico, sia da quello culturale, sociale e politico.
Gli studi sui beni comuni e quelli sullo sviluppo su scala umana offrono una base di ragionamento solida, in questo senso.
Le riflessioni sulla tecnologia danno suggerimenti su come si possa farla diventare non un concorrente imbattibile rispetto al lavoro umano (esito inevitabile, dentro il meccanismo capitalista), ma un potente strumento di affrancamento dallo sfruttamento e dalla soggezione sociale.
Il mutualismo, lo scambio gratuito, la condivisione in rete di infrastrutture (penso a internet e al free software) e delle fonti energetiche, la ricerca pubblica (non “di Stato”, è una cosa diversa), la garanzia dell’accesso universale all’istruzione, la democratizzazione delle informazioni: sono tutte possibilità concrete a cui lavorare, non semplici astrazioni irrealizzabili.
Gli esperimenti liminali di porzioni piccole ma significative dell’umanità possono suggerirci modelli politici e sociali non utopici e nemmeno rassegnati. Penso al confederalismo democratico sperimentato nella regione del Rojava (Siria settentrionale).
(Il che per altro toglie anche molti alibi a chi sostiene che in Sardegna, in quanto “piccola, marginale e isolata”, non si possa fare nulla di diverso da quel che si è fatto finora, ossia schifo. Non è così, non accampiamo scuse.)
In definitiva, non c’è niente che ci vieti di pensare a un’alternativa sistemica, emancipativa, lungimirante allo stato attuale delle cose.
Quel che non è riuscito al socialismo nell’ultimo secolo e mezzo potrebbe riuscire, in un contesto largamente peggiorato, a una nuova prospettiva liberante.
Non è che ci sia molta scelta, a meno che non vogliamo rassegnarci al ruolo di pedine passive di scelte altrui, di vittime sacrificali sull’altare del vantaggio di pochissimi, di risorse da sfruttare e poi gettare via, insieme a gran parte della biosfera.
È una necessità a cui non possiamo sottrarci, se non in nome di uno stupido (in quanto autolesionista) egoismo. Quell’egoismo che ci fa sperare che i malanni tocchino sempre e solo ad altri, fossero anche i nostri vicini (che in fondo se lo meritano, perché mi stanno antipatici e poi sono degli analfabeti funzionali), purché noi ne rimaniamo esenti.
Mi aspetterei che coloro che hanno i mezzi per rendersi conto di come stanno le cose si facessero carico una volta tanto non di sostenere lo status quo ma di fomentarne la radicale distruzione.
Bisogna essere rivoluzionari. Soprattutto quando ogni rivoluzione sembra impossibile. Non vedo altra via di salvezza, per l’umanità.