Ogni tanto, a caso e spesso en passant, si ripropone una questione che ormai meriterebbe qualche analisi più approfondita e meditata.
Che la forma romanzo stia vivendo una sua fioritura particolare, in Sardegna, è ormai dato acquisito, a volte citato a mo’ di fenomeno sorprendente o come motivo di vanto “etnico”. Ma mai che si riesca a sistematizzare il tema, cercando continuità e discontinuità, mettendo in campo ipotesi ricostruttive che diano conto del fenomeno, buttando qualche idea articolata nell’agone del dibattito culturale nostrano. Che rimane un po’ fiacco a dire il vero.
Certamente, non sarà qui che diremo l’ultima parola sulla questione. Nondimeno proverei a darle un’inquadratura generale, dentro cui muovere qualche passo.
La tesi che vorrei argomentare è che esiste ed è sempre esistita una letteratura sarda, in quanto letteratura propriamente nazionale (nel senso che questa locuzione può avere in epoca moderna e contemporanea). Il fermento odierno non è che la manifestazione della definitiva acquisizione in Sardegna degli strumenti della Modernità (come già ipotizzato altrove).
Infatti, non è congruo meravigliarsi del fatto che in Sardegna si producano tante storie. Le storie le si è sempre prodotte, ed anche copiosamente, come sottolinea spesso Michela Murgia. E’ la forma romanzo in cui le si racconta oggi ad essere relativamente nuova.
Effetto, questo, della alfabetizzazione di massa cui i sardi, attraverso la scuola e ancor di più attraverso i mass media, sono stati sottoposti negli ultimi sessant’anni. Un’alfabetizzazione di massa avvenuta attraverso la lingua italiana. Sottolineo questo fatto, perché ci sarà utile più avanti per affrontare un aspetto particolare della questione.
Dunque, cosa può dare credito alla tesi di una letteratura sarda nazionale? Intanto c’è una costante che lega tutti i narratori sardi moderni e contemporanei. La Sardegna è sempre presente, non solo come sfondo neutro, nelle loro opere.
E’ una presenza spesso ingombrante, a volte per certi versi feticistica, in qualche misura forzata. Un personaggio in più, in tanti casi, sia pure implicito e apparentemente muto. La Sardegna comunque è sempre un orizzonte, nel senso di limite e nel senso di centralità del punto di osservazione da cui lo sguardo si apre sul mondo.
Questo, pur con tutte le sue articolazioni, è un esito che non si riscontra facilmente in altri ambiti culturali sardi. Il nostro stare al mondo qui, in questo luogo, o essere partiti verso il mondo da qui, la sua assiomatica centralità, il suo essere primo termine di paragone tra un noi e un alterità spesso indistinta, ma concepita come tale, ci da il senso di quanto sardocentrica sia la visuale della letteratura sarda moderna.
Sardocentrismo mai xenofobo, isolazionista o etnocentrico. Anzi, in gran parte il senso di tale visuale è la sofferenza di chi si sente altro pur non desiderandolo affatto, l’ansia della distanza incolmabile, la tensione tra il rifiuto e l’irrinunciabilità a se stessi. Anche questo un indizio di un processo identificativo profondo, che si riconferma nel momento stesso in cui si tenta di superarlo.
Tant’è vero che anche coloro che tra gli autori sardi hanno compiuto il grande balzo oltre il mare e dalla Sardegna – a volte temporaneamente, a volte definitivamente – se ne sono andati, non hanno rinunciato a parlare di Sardegna, ad ambientarci le proprie narrazioni, a considerarla nel bene e nel male il centro del proprio orizzonte. Un po’ la stessa sindrome manifestata da un altro scrittore isolano, James Joyce.
Altro elemento indicativo è il riferimento ad una matrice culturale specifica, ad una semiosfera ancestrale non coincidente col sistema linguistico prevalentemente usato, quello italiano. Benché la letteratura sarda contemporanea in forma romanzesca sia in gran parte (ma non esclusivamente, come vedremo) scritta in italiano, mostra quasi sempre una tensione interna data dal costante intersecarsi di questa lingua con strutture sintattiche, lessemi e armamentario culturale basati sul sardo.
Fenomeno che negli scrittori contemporanei, a partire da Sergio Atzeni, ha assunto i caratteri di una scelta esplicita, anche se forse non del tutto consapevole. Anche nella dialettica tra sfera linguistica italiana e sfera linguistica sarda, prevale in generale la simbologia tratta dall’ambito culturale sardo. Non sempre con esiti estetici apprezzabili. Ma con indubbia e significativa ostinazione.
Quando si cerca di inquadrare il romanzo sardo nell’ambito della letteratura italiana si manifestano tutte le difficoltà dell’operazione.
Qualche anno fa, presentando un libro di Mariangela Sedda nella trasmissione radiofonica Fahrenheit, il conduttore Felice Cimatti cadde all’improvviso in una notevole esitazione. Intendeva sottolineare la peculiarità della produzione letteraria sarda contemporanea, così evidentemente denotata da un’appartenenza esplicita. Ma non trovava i termini che soddisfacessero quella che era un’intuizione di fondo abbastanza banale. Alla fine usò la locuzione “regionalismo forte”.
Per chi sia abituato, per scolarizzazione e studio, a ragionare nei termini pesantemente nazionalisti e italianocentrici tipici della cultura italiana, concepire l’esistenza di una letteratura nazionale altra pure espressa in lingua italiana è praticamente impossibile.
Se apriamo lo sguardo sul mondo, questo è un falso problema. Tuttavia, è un problema alquanto persistente, a cui si stenta a trovare una soluzione. Proprio in virtù del fatto che la nostra stessa alfabetizzazione, l’idea della scrittura e della scrittura in prosa, del romanzo, è fortemente condizionata dalla lingua italiana come lingua della nazione italiana. Ciò che è scritto in italiano deve essere in tutto per tutto italiano, appunto.
Viceversa, a nessuno verrebbe in mente di negare che esista una letteratura irlandese o sudafricana, benché scritte in inglese. O brasiliana, ancorché scritta in portoghese. La sistematizzazione sulla base della lingua è una forma di tassonomia di stampo bibliotecario (nelle biblioteche quasi sempre si ordinano e si collocano i romanzi secondo la lingua, non per nazionalità).
Ma ovviamente tale sistema non attiene ai processi di identificazione, né – tanto meno – a questioni di cittadinanza o di appartenenza a questo o a quell’ordinamento giuridico. Così, il fatto che molta letteratura sarda sia in italiano, non toglie niente alla sua collocazione in una sfera prettamente e chiaramente nazionale sarda.
Qui possiamo passare a un altro aspetto della questione. La letteratura sarda non è solo letteratura in italiano. Tradizionalmente, la produzione poetica in Sardegna è in sardo. Così anche molto teatro popolare. Sull’appartenenza di tale patrimonio ad una sfera nazionale sarda probabilmente sarebbe più facile concordare anche per un osservatore estraneo.
Tuttavia, in ambito italiano ciò è sempre risultato impossibile, a causa del rifiuto congenito e assoluto di un riconoscimento culturale così forte per una produzione che è sempre stata relegata nel comodo e inoffensivo ambito del folclore, o della letteratura “dialettale”. Il che, tra l’altro, a prescindere da qualsiasi valutazione estetica o qualitativa.
Ma questo è appunto un problema connaturato alla sfera culturale italiana, così fragile e malfondata da avere necessità per giustificarsi di un criterio di validazione fortemente nazionalista e monolingue (il monolinguismo isterico di cui parla Roberto Bolognesi). A scompaginare le cose interviene poi, almeno negli ultimi trent’anni, la produzione romanzesca in sardo, difficile da inquadrare nell’artificiosa sistematizzazione acquisita attraverso scuola e università (italiane).
C’è anche qui un dibattito latente, mai portato a compimento con la necessaria dose di pazienza ed equanimità. Esiste una visione nazionalista sarda contrapposta a quella dominante italiana. Se questa vede qualsiasi espressione letteraria in sardo come una sotto-categoria dialettale della cultura italiana, quella attribuisce il crisma della identificazione sarda solo alla produzione in sardo.
In proposito, è da tempo in corso una polemica volta a rivendicare al romanzo in sardo la medesima visibilità mediatica e la stessa distribuzione nella rete di vendita che possono vantare gli autori sardi che scrivono in italiano. Questo non è più nemmeno un dibattito, ma una specie di guerra per bande che tende a distruggere il presunto avversario e a considerarlo un nemico irriducibile.
La questione poi si intreccia con ragioni politiche e, spesso, di appartenenza a più o meno dichiarate consorterie e colleganze tra chi gestisce ruoli decisionali (specie di natura… elargitiva di denaro pubblico) e chi opera in campo letterario (autori ed editori). Insomma, anche qui spesso la serietà, oltre che la serenità, della discussione è frustrata da questioni materiali non sempre elegantissime.
Ma alla base rimane un fraintendimento decisivo. Gli autori di romanzi in sardo vivono la loro condizione marginale come una condanna ingiusta inflitta loro da chi controlla il settore da posizioni di potere. Una sorta di esilio, tanto più odioso in quanto subito “in casa propria”.
Nell’affrontare questo tema si trascura invece il suo fulcro, il vero nodo culturale e storico dell’intera faccenda. Ossia, come detto, il processo di alfabetizzazione dei sardi, avvenuto appunto in italiano. Processo di alfabetizzazione che è andato saldandosi con la sfera strettamente italiana degli studi superiori e universitari, in una continuità didattica che ha di fatto escluso il sardo e le altre lingue della Sardegna da qualsiasi processo di bilinguismo, relegandole in una condizione di diglossia o, come sta avvenendo in questi anni, di dilalia.
Questo esito ha avuto più conseguenze sul lato della fruizione letteraria che su quello della produzione. Che a sua volta però ne è inevitabilmente condizionata. Il fatto che il romanzo sardo in sardo abbia meno spazio e meno visibilità della produzione in italiano è dovuto in gran parte al fatto che i sardi non imparano a leggere e scrivere in sardo.
I processi di acquisizione delle nozioni e il percorso di istruzione in Sardegna avvengono pressoché esclusivamente in italiano. In più, la produzione romanzesca in sardo soffre inevitabilmente, e più della poesia, della mancanza di una uniformazione grafica, di una standardizzazione, che la lingua sarda, per diversi motivi, specialmente politici, non ha ancora acquisito.
Il che prescinde dal grado di diffusione delle parlate sarde e dal livello di competenza linguistica dei sardi nelle medesime. Anche se, per usare una metafora di Mialinu Pira, una lingua avrebbe bisogno di due gambe per camminare da sola e coprire tutti i registri e le funzioni comunicative: a) l’uso quotidiano e diffuso, b) lo studio e l’uso scritto come lingua veicolare.
In definitiva, tornando al tema principale, l’esistenza di un bilinguismo, sia pure imperfetto, non contraddice affatto la natura prettamente nazionale della letteratura sarda. Tutt’altro. Sollecita caso mai altre considerazioni e attiene ad un discorso diverso, ulteriore e tutto interno al suo ambito.
L’attribuzione di una appartenenza culturale nazionale alla letteratura sarda, e in special modo, nel suo contesto, al romanzo contemporaneo, sgombra il campo da molti equivoci, ma allo stesso tempo suscita inevitabilmente interrogativi più ampi, anche di matrice politica. Il che spiega la resistenza ad affrontare serenamente e obiettivamente il tema. Ma, posto che sia mai stata legittima, ormai non la giustifica più.