Lo sguardo altrui e il rifiuto di noi stessi

Cosa avrà fatto di male la geografia, per essere così bistrattata? Appena fa cenno di voler mettere becco in qualche faccenda, viene subito cacciata fuori dalla porta in malo modo. Evidentemente c’è qualcosa di profondamente torbido e inquietante, nella tettonica a placche, tanto che gli spiriti più sensibili se ne sentono turbati.

Così, capita di leggere articoli come quello dedicato alla Sardegna dal Corriere della Sera, nella sua versione online, a firma di Giuseppe Galasso, storico di vaglia. A leggerne il titolo, sembra che il fatto di essere un’isola sia qualcosa di estremamente sconveniente, a cui, in un impeto di benevolenza, si possono solo cercare attenuanti.

Ne viene fuori così un articolo accondiscendente e dall’impianto storico estremamente debole, il cui senso, sinceramente, è difficile da comprendere. Ma vale la pena di analizzarne il contenuto, perché si tratta di un esempio istruttivo sia di ciò che pensa di noi l’establishment storico e intellettuale italiano, sia degli stereotipi a cui la stessa storiografia sarda ufficiale si è dovuta nel tempo adeguare, per poter essere legittimata nell’ambito accademico italiano.

L’articolo comincia con la stupefatta constatazione di quanto poco sia conosciuta ancora oggi la Sardegna in Italia, tanto da dare l’impressione di essere “un mondo a sé”. Già qui si evidenzia il tenore generale e la cornice dentro cui la questione sarà affrontata. La Sardegna “da l’impressione” di essere un mondo a sé. Si sottintende che non lo sia, in realtà.

L’emersione della Sardegna dall’oscurità dell’oblio storico è fatta coincidere con le gesta della Brigata Sassari sul fronte della I Guerra Mondiale e poi col conferimento del premio Nobel a Grazia Deledda. Prima di allora sull’isola non era successo niente, evidentemente.

Galasso deve però precisare che nemmeno questi eventi hanno rotto del tutto la cappa di inconoscibilità dell’isola in Italia:

Non che la storia sarda sia diventata oggi familiare in Italia come quella di altre regioni. Alla separatezza storica ha corrisposto una sconveniente separatezza storiografica, per cui perdura la convinzione che l’isola sia vissuta in un sostanziale isolamento storico, a mala pena interrotto da questo o quell’episodio […].

La Sardegna alla stregua di “altre regioni”. Primo equivoco. Confondere le attuali regioni, entità amministrative dello stato italiano, con entità storiche dotate di una storia propria è sbagliato. Considerare la Sardegna in quest’ottica come una di esse è altrettanto sbagliato.

Il perché è stato già argomentato in questa stessa sede. L’isolamento storiografico, invece, chiama in causa pesantemente la storiografia sarda, più di quella italiana. È una faccenda più volte affrontata, quella dell’inadeguatezza dei nostri storici accademici, che qui trova un’inaspettata conferma. Lo stesso Galasso deve comunque ammettere che il presunto isolamento della Sardegna è solo un luogo comune senza fondamento storico. È già qualcosa.

Questa rivelazione viene però subito ridimensionata:

Certo, l’isolamento dell’isola è un dato storico innegabile. Ritenere, però, che esso abbia significato una vera segregazione da ciò che si pensava e si faceva in Italia e in Europa è un errore. Latente o no, non cessò mai la comunicazione dell’isola col mondo circostante, anche se come una lontana (nel pensiero più che nello spazio) periferia. I tempi suoi non furono quelli europei e italiani, ma essa seguì sempre, in una qualche misura, gli sviluppi della «grande storia» d’Italia e d’Europa.

Cioè, non è vero che la Sardegna sia sempre stata isolata però in realtà è sempre stata isolata. I conti non tornano. Non tornano nemmeno nel prosieguo.

La vicenda storica dei Sardi sembrerebbe destinata ad assumere un valore e un significato solo in funzione di quanto succedeva altrove. Come se nel corso dei secoli i Sardi, nella loro composizione sociale, nella loro produzione culturale, negli esiti politici, giuridici, socio-economici che i vari fattori storici hanno prodotto sull’isola, dovessero prima di tutto e sempre preoccuparsi di quel che “si pensava e si faceva in Italia e in Europa”.

In Italia? E perché mai? L’Italia non esisteva fino al 1861, almeno in termini politici e giuridici. C’era il papato, c’era stata Pisa, due entità con cui la Sardegna ha avuto a che fare a suo discapito. Ma c’era anche il regno di Aragona e c’era il ducato d’Angiò, c’era Genova, c’erano gli Arabi e poi le basi saracene del Nord Africa, con cui fare i conti. C’erano, come sempre ci furono e ci sono ancora, vari soggetti storici, vari ambiti culturali, vari spazi geografici contigui con cui la Sardegna, in virtù della sua posizione centrale, da sempre interagisce.

I tempi della Sardegna furono in tutto e per tutto gli stessi del resto d’Europa e del Mediterraneo, solo, declinati in modo peculiare, a volte anticipando soluzioni che altrove si svilupperanno in seguito, altre volte procedendo parallelamente, secondo modalità proprie; qualche volta pagando il pegno della dipendenza, altre volte esercitando una soggettività forte, precocemente sulla breccia degli sviluppi storici. Basti pensare, in questo senso, alla civiltà giudicale e alla sua originalità, così evocativa di una modernità ancora di là da venire, a quei tempi. O alla Rivoluzione sarda, anticipatrice applicazione sull’isola di forze e ideali altrove portati solo dalle armi francesi, negli anni successivi.

Ma la parte davvero sorprendente, in termini negativi, dell’articolo di Galasso, è quella che arriva dopo. Un’esaltazione della Sardegna risorgimentale del tutto fuori luogo e fuori dalla storia. Introdotta per giunta dalla definizione del ministro Bogino come “illuminato governatore dell’isola”.

Questa è una topica clamorosa, in quanto Bogino non fu mai governatore di un bel nulla, ma caso mai ministro degli affari sardi, a Torino, e tuttavia va anche detto che la sua figura è stata bistrattata in modo strumentale proprio dalla storiografia sabauda, attribuendogli colpe non sue.

Nemmeno l’Emanuele Pes di Villamarina, evocato come altro illuminato governatore della Sardegna, lo fu mai. Fu segretario generale degli affari sardi, a Torino. Il suo parente don Giacomo fu invece – lui sì – viceré, dal 1816, succedendo a Carlo Felice di Savoia, dopo essere stato il più spietato oppressore di rivoluzionari sardi: un personaggio tragico e funesto, che meriterebbe di essere ricordato come esempio deleterio, nell’ambito della storia sarda di quegli anni.

Ma è proprio la pretesa adesione della Sardegna al Risorgimento, che fa suonare l’allarme panzana a tutto spiano. È ampiamente documentata la risibile partecipazione emotiva e numerica dei sardi alla vicenda risorgimentale. Non solo, ma si sa perfettamente che quando Cavour, intorno al 1859, progettò di cedere l’isola alla Francia in cambio di Nizza e della Savoia, i Sardi dimostrarono una tale indifferenza da allarmare gli esponenti più in vista della politica sarda di allora (in primis Giorgio Asproni) e gli osservatori italiani meno succubi del governo sabaudo (come Giuseppe Mazzini). Accostare i due termini “Sardegna” e “Risorgimento” è un’operazione avventurosa, e rischia sempre di finire male per chi la intraprende.

Galasso non scende in particolari, ma arriva poi a scrivere quanto segue:

Decisivo emerge sempre il momento della fusione con gli altri Stati sabaudi, unificati sotto il nome di Regno di Sardegna, nel 1847. È allora, già prima dell’unità italiana, che sorgono pure la «questione sarda» e l’autonomismo dell’isola. Quella fusione rese più subalterna l’isola rispetto a Torino e, in specie, a Genova? È vero, ma non fu un prezzo eccessivo per la rottura del suo precedente, tradizionale assetto, benché sia significativo che sorgano proprio allora gli interrogativi che ancora aleggiano nell’isola.

La subalternità e la dipendenza come un prezzo che valeva la pena di pagare. Rispetto a cosa? E perché? Diventare italiani è tanto fondamentale, per i Sardi, da poter sacrificare a tale scopo qualsiasi altra cosa? E perché l’estraneità dell’isola alla “grande storia” sarebbe negata solo da un evento equivoco e fondamentalmente penalizzante come la Perfetta Fusione e gli annessi malumori autonomisti? Non è dato avere risposte. È tutto affidato a un registro apodittico, come se non ci fosse nulla da spiegare. Mancano argomentazioni serie, manca una corretta ricostruzione storica, manca qualsiasi accenno al rigore necessario quando si maneggiano tali materiali narrativi.

In questo articolo non c’è praticamente nulla della Sardegna. Non c’è la sua gente, non ci sono le sue vicende, non c’è la sua cultura, non c’è il suo complesso patrimonio storico. Perché mai dovrebbe essere importante Vincenzo Brusco Onnis e non invece Melchiorre Murenu, ad esempio? E le ribellioni contro le chiudende e contro il fisco rapace, o tutta la questione linguistica, o la depredazione delle risorse dell’isola, o – per altri versi – la sua vivacità culturale, la sua ricchezza musicale, sono o non sono fenomeni storici degni di essere studiati e raccontati? Evidentemente non lo sono solo perché non si incastrano nella narrazione nazionalista, italocentrica e provinciale tipica della storiografia italiana, ma non perché si tratti di fenomeni di per sé privi di significato.

Il tentativo di normalizzazione della storia sarda dentro la cornice della storia italiana anche in questo caso mostra tutta la sua debolezza teorica e metodologica. La Sardegna non sarà “solo un’isola”, come vuole il titolo dell’articolo, ma prima di tutto è un’isola. Più precisamente, è una grande isola del Mediterraneo, un polo di civilizzazione dentro un contesto geografico e storico tra i più ricchi e fecondi che la specie umana abbia mai creato. Niente di quanto è accaduto in questa porzione di pianeta ha visto l’isola estranea. L’unico fattore che ne ha sempre tarpato le energie sono state, nel corso delle epoche, la dipendenza, la subalternità e l’adesione a tali situazioni da parte dell’élite dominante sull’isola, esattamente come oggigiorno, non certo la condizione geografica o altre presunte magagne insuperabili.

Sarebbe bello che una volta tanto gli storici accademici sardi prendessero esplicitamente le distanze e precisassero adeguatamente i termini della questione. Farebbero un ottimo servizio alla storia sarda e anche alla storia italiana ed europea. Temo che invece nessuna voce si solleverà a contestare questa ennesima operazione manipolatoria, solo parzialmente attenuata dalla ipotizzabile buona fede di Giuseppe Galasso. Finché non ci libereremo da queste catene di nonsenso storico, da questa prigionia di ignoranza, saremo esposti a subire qualsiasi cosa di brutto altri decidano per noi. Senza nemmeno avere le parole per opporci.

3 Comments

  1. A parte un’azione culturale generale, mi domando se la Regione non dovrebbe dotarsi di un Ufficio per la difesa del nostro buon nome da queste sparate qua…

    1. Mi domando, Alessandro, se la Regione sia guidata da una classe dirigente realmente estranea a questo tipo di ricostruzioni storiche. L’impressione è che le nostre istituzioni siano esattamante quelle descritte da Onnis. La sensazione è che si tratti di quella classe accademica che si legittima con il resto del mondo intellettuale italiano sostenendo le medesime blasfemie. Forse sono prevenuto, ma il fatto che a Monte ‘e Prama manchi una guardia notturna, che ci si trovi davanti all’assenza di politiche di introduzione della storia della sardegna a scuola o alla scarsissima lungimiranza nell’affrontare la questione linguistica, mi induce al pessimismo.

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