In Europa rimbalza tra dichiarazioni pubbliche e ponderose analisi di “esperti” (di solito maschi, bianchi, anziani) il motto “si vis pacem, para bellum“, se desideri la pace, prepara la guerra.
Detto in latino suona più fine, oltre a stabilire una distanza rispetto al volgo incolto, ma in pratica ci stanno dicendo: abbiate pazienza, la guerra andrà fatta, con un pretesto o con l’altro.
Forse è vero quello che diceva Tucidide, quasi 25 secoli fa, sulla costanza delle dinamiche umane:
Il tono severo della mia storia, mai indulgente al fiabesco, suonerà forse scabro all’orecchio: basterà che stimino la mia opera feconda quanti vogliono scrutare e penetrare la verità delle vicende passate e di quelle che nel tempo futuro, per le leggi immanenti al mondo umano [κατὰ τὸ ἀνθρώπινον], s’attueranno di simili, o perfino d’identiche.
(La guerra del Peloponneso, I, 22)
Sembra che prima o poi, in qualsiasi epoca, la nostra specie debba arrivare al conflitto violento su larga scala. È successo così tante volte, nel corso del tempo, che davvero questa si può considerare una costante storica. A sorprendere non è solo la reiterazione del conflitto in quanto tale, bensì anche la somiglianza delle circostanze, delle giustificazioni, delle retoriche, del tipo di rapporti di forza sociale che entrano in gioco.
C’è però un fattore che differenzia il nostro tempo da quelli precedenti: siamo otto miliardi di esseri umani, sull’unico pianeta abitabile, e ogni dinamica storica assume di conseguenza proporzioni inedite, con possibili esiti mai sperimentati. Senza contare la terrificante capacità distruttiva delle armi odierne, anche di quelle ordinarie, senza scomodare le testate atomiche.
Nel nostro pianeta, oggi, non ci sono più molti spazi di manovra, mancano aree cuscinetto e paesi non coinvolti, niente vie di fuga o scappatoie. Le scelte che si fanno, su questo terreno, possono avere conseguenze definitive per la nostra specie.
Che le leadership mondiali non si pongano affatto questo problema è a sua volta IL problema. È come se i gruppi umani che governano il mondo stessero scommettendo sul tanto peggio tanto meglio (per sé). Che abbiano già a disposizione un piano B? Secondo me no.
I più ottusi, in questo gioco folle, mi sembrano i ceti dirigenti occidentali, e quelli europei soprattutto. Abituati per secoli a piegare il resto dell’umanità alle proprie ambizioni e alle proprie necessità, non riescono a orientarsi in un mondo che è ormai totalmente sfuggito al loro controllo. Ed è sfuggito al loro controllo anche a causa della stupidità con cui hanno pensato di governarlo a proprio vantaggio, imponendo come verità indiscutibile una superstizione a cui hanno finito per credere loro stessi.
La demente ideologia cosiddetta neo-liberale è una componente decisiva della perdurante presunzione occidente-centrica e ne è anche la più evidente contraddizione. I famosi valori dell’Occidente, pretesto per ogni forma di aggressione imperialista e colonialista, si è logorata sull’altare dell’avidità, finendo per auto-denunciarsi per l’impostura che è.
La disgregazione individualista delle nostre collettività, l’ossessione consumistica e bulimica per il possesso materiale, la pretesa di continuare a consumare e sperperare a proprio piacimento, scaricando le “esternalità” su qualcun altro, l’istupidimento dilagante, che, da arma di controllo delle masse, non ha risparmiato nemmeno chi pensava di controllarle: tutto questo ha contribuito a dissodare il terreno per le crisi generalizzate del nostro presente. E ha tolto ogni residua, plausibile superiorità morale alla civiltà europea. Che è sempre meno democratica e liberale, a dispetto della retorica ancora egemone.
All’inizio del nuovo millennio, a un decennio dalla proclamata fine della storia, si reprimeva manu militari ogni possibile forma di dissenso organizzato e di potenziale alternativa politica (vedi Genova 2001). Lo “stile di vita” occidentale era sacro e non emendabile.
Per un caso forse fortuito o per una necessità storica profonda (non saprei), nel giro di pochi mesi, in quello stesso 2001, l’Occidente, e in particolare il suo centro di gravità economico-politica, gli USA, subì un attacco spropositato e scioccante. Anziché rifletterci su, le élite statunitensi e, appresso a loro, quelle europee, pretesero di precipitare il pianeta in una nuova guerra santa. (I fanatici sono sempre gli altri, no?)
Nonostante gli esiti fallimentari di tali scelte, non se ne è tratto alcun insegnamento.
Le successive batoste finanziarie, la pandemia e infine la guerra in Ucraina hanno finito per ridicolizzare gli assunti in base ai quali, a dispetto di tutto, l’Occidente pretende che sia riconosciuta la propria superiorità civile e morale. In realtà, com’è evidente, anche tali passaggi sono stati semplicemente tradotti in nuove forme di restringimento oligarchico dei rapporti politici e in occasioni di ulteriore, famelico accaparramento di ricchezza da parte dei ricchi.
La stessa crisi climatica si è rapidamente trasformata, da inaccettabile paranoia di minoranze dissenzienti (così era rappresentata), in un diversivo o in un nuovo pretesto, buono per giustificare soluzioni estrattive e speculative non migliori di quelle passate. Intanto la biosfera declina, l’inquinamento dilaga, il suolo fertile e l’acqua a uso umano scarseggiano, il consumo di risorse scarse è sempre più compulsivo e la sesta estinzione di massa è già avviata. Ma di tutto ciò non è elegante parlare.
L’Europa, al momento, è la porzione di Occidente messa peggio, per tanti versi. Stupidamente arroccata nelle proprie ideologie nazionali, ottusamente succube dei suoi deboli stati e staterelli, un tempo padroni del mondo ma da un pezzo ai margini della politica globale, non è riuscita a darsi una fisionomia che assicurasse prosperità, dignità e pace alle sue popolazioni. Tre decenni di declino culturale e morale presentano il conto.
Davanti all’aggressione russa dell’Ucraina gli stati europei, specie i maggiori, si sono fatti trovare con la braghe calate, ognuno alle prese con le proprie meschinità. La Francia, in cerca di nuova affermazione sul suo ex impero coloniale africano (dove continua a fare danni); la Germania, in crisi di identità e colta con le mani nel vasetto della marmellata petrolifera russa; la Spagna, a gestire la propria (ennesima) crisi interna; il Regno Unito, alle prese con le conseguenze della Brexit (colpo di genio, non c’è che dire); l’Italia, chiusa in se stessa e nelle sue ossessioni provinciali, sempre più piegata verso un destino autoritario tragicomico (ma molto violento). Gli altri, in ordine sparso, a cercare di non perdere il proprio posto al banchetto.
Non una presa di posizione politica solida e onorevole, non scelte chiare con obiettivi limpidi e condivisi. Un po’ a traino – obtorto collo – degli USA (che ovviamente ora mollano il giocattolo), un po’ a fare melina, con la coscienza tutt’altro che pulita. Aiutiamo l’Ucraina a difendersi e proclamiamo che la Russia di Putin è il male (dopo averci fatto lauti affari ed averne legittimato il regime fino a ieri), ma sempre con una scappatoia aperta (molto illusoria).
Come si capiva fin dall’inizio, questa vicenda sancisce la morte dell’Unione Europea così come è stata conformata dall’egemonia neo-liberale, padronale e tecnocratica che l’ha partorita trent’anni fa. Lo spauracchio delle destre populiste serve solo a legittimare quest’obsoleto modello di governance oligarchica, salvo quando le stesse destre non sono surrettiziamente favorite (sovraesponendole mediaticamente), perché facciano il lavoro sporco che le nostre ipocrite democrazie liberali si vergognano a sbrigare apertamente.
Anche adesso, con le retoriche belliche in prima pagina un giorno sì e l’altro pure, il nuovo spauracchio reazionario (specie se negli USA Trump vincesse la competizione presidenziale) sarà usato in modo strumentale. Col rischio però di doversene servire per ricompattare, in senso nazionalista e bellicista, le sfilacciate opinioni pubbliche del Vecchio continente.
Di questi giorni è l’allarme sulla presunta propensione alla diserzione delle gioventù europee (e nord-americane), poco persuase ad accettare un possibile arruolamento prossimo venturo, tanto meno a trovarlo nobile e desiderabile. Non ci sono più i bravi-giovani-da-sacrificare-in-trincea di una volta, signora mia!
Come altri hanno fatto notare, non è che ci volesse molto a prevedere che una società profondamente disarticolata, atomizzata, costretta alla competizione al ribasso, ridotta in molte sua parti alle mere necessità di sopravvivenza, fatichi a fare fronte comune e sentirsi di colpo una collettività coesa e bellicosa, sensibile al richiamo patriottico.
C’è anzi da riflettere sul fatto che tutta la potenza mediatica di cui dispongono i principali centri di potere economico e politico non è riuscita comunque a silenziare il dubbio e il dissenso. Forse questo è uno dei pochi, veri esiti positivi della civiltà “democratica” occidentale.
Suo malgrado, però. Ossia, non è un esito voluto. Lo si capisce, specie nel contesto tossico italiano, dalle campagne mediatiche sui presunti “squadrismi” e le pretese “censure” che mobilitazioni occasionali, sicuramente non armate e nemmeno così massive, attuano verso voci rilevanti del mainstream mediatico e politico. Il caso del direttore di Repubblica Molinari, persuaso a rinunciare a un suo evento pubblico dalla contestazione di alcuni studenti, è esemplare. Il paradosso di gridare alla censura (dal basso) da parte di chi ha in mano le leve dell’informazione e della manipolazione dell’opinione pubblica è emblematico. Segnala la profonda, persistente allergia alla democrazia dei gruppi dirigenti italiani. Ma non è che altrove siano messi molto meglio.
Il dissenso è pericoloso. La mancata accettazione delle imposizioni di chi detiene il potere politico e/o quello mediatico, a loro volta direttamente o indirettamente al soldo dei ceti ricchi, viene respinta come eversiva in quanto tale. Che non sia bastata la lezione di Genova 2001 ad azzerare le voci dissenzienti innervosisce le combriccole oligarchiche. Certo, quell’evento è stato un test pienamente riuscito e ha generato uno standard (come dimostrano anche fatti recentissimi).
La pandemia ha dato modo di sperimentare ulteriori forme di controllo sociale e adesso la stessa guerra in Ucraina ha fornito l’occasione di irregimentare qualsiasi discorso pubblico e qualsiasi dibattito dentro cornici prestabilite e fittizie. In questo modo si è disarticolata ogni possibile alternativa politica a sinistra, con l’esito, forse non accidentale, di regalare il dissenso alla (presunta) controparte populista e di destra.
I più grandi amanti di Putin (o a suo tempo di Assad in Siria e persino del regime iraniano degli ayatollah o dei governi di destra israeliani oggi) sono i fasci e i reazionari di ogni tipo. Cioè, gente a cui non dispiacerebbe importare in casa propria un regime come quelli menzionati. Se c’è qualcosa di contraddittorio in questo, non è un problema loro. Quando mai i fascisti (in qualsiasi forma si presentino) si sono preoccupati della coerenza teorica e della linearità logica delle loro posizioni?
Del resto, importare in casa propria un bel modello autoritario, col suo rivestimento di “democratura” (vi facciamo anche andare a votare ogni tanto, cosa diavolo pretendete ancora?), sarebbe anche l’extrema ratio delle stesse élite occidentali, o di una parte non marginale di esse. Forse neanche così… extrema. C’è molta invidia nei commenti di politici e intellettuali “di regime” che stigmatizzano Putin e simili come nemici mortali del santo Occidente.
Il presunto liberalismo delle democrazie occidentali è solo retorico. Perlopiù, oggi significa solo la trasformazione di diritti, che credevamo acquisiti e consustanziali alla democrazia stessa, in servizi a pagamento; significa la legittimazione dell’arbitrio dei ceti ricchi ai danni del resto delle popolazioni; significa libertà limitata al consumo. La residua libertà di pensiero e parola va bene solo finché è strumentale al profitto e solo finché serve a dare l’illusione di una libertà più grande (che non c’è).
E dunque, oggi, in questo contesto sfilacciato, confuso, disgregato, si parla con naturalezza di guerra. Di preparare le popolazioni europee alla guerra. Ci siamo già passati: non è andata bene.
Sia chiaro, io penso che fosse giusto, e lo sia ancora, aiutare l’Ucraina in vari modi, non escluso quello di rifornirla di armi. Magari è un po’ meschino (andate avanti voi, intanto, che noi stiamo a vedere). Però non è che ci fossero alternative, dal momento che l’invasione è diventata un fatto compiuto.
Non per altro: una vittoria schiacciante di Putin sarebbe deleteria da troppi punti di vista, per poterla contemplare a cuor leggero come un’opzione tutto sommato accettabile. È su questo che dissento dai pacifisti a tutti i costi. Ve l’immaginate un Putin con i piedi sul confine polacco? O una Federazione russa che, annessa una parte consistente di Ucraina, stabilisce che tutto sommato vale la pena di fare lo stesso con Moldova e repubbliche baltiche?
Oddio, non è che la presenza NATO ai confini della Federazione russa sia molto meno impressionante. Ma La NATO è un’entità strana, non così coesa come potrebbe apparire. Certo, agli USA interessa provocare un po’ l’orso russo, intanto che si prepara il conflitto con la Cina. Non perché lo ritenga davvero una minaccia primaria, quanto perché fa comodo come diversivo e come anestetico per l’Europa. Lo si è visto benissimo proprio con la guerra in Ucraina.
Se l’Unione Europea avesse preso una posizione forte e autonoma sulla questione ucraina, almeno dal 2014, presentandosi come un soggetto politico a sé stante, avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo più credibile anche nell’auspicabile mediazione tra le parti. Senza il bisogno di nascondere il proprio sostegno all’aggredito, proprio in virtù dei principi democratici e pacifici che dovrebbero denotarne l’esistenza stessa. Non lo ha fatto. Sia perché appunto i suoi membri avevano scheletri nell’armadio e interessi divergenti da difendere, sia perché i gruppi dominanti europei non hanno particolarmente a cuore né la democrazia né la pace.
Il nucleo della questione è questo. Anche qui, come nel caso della guerra israelo-palestinese (altra partita in cui l’UE fa una figura meschina), a contare è la cornice con cui si inquadrano i fatti. La cornice che istituzioni e politica, con molti media compiacenti al seguito, ci stanno imponendo è ingannevole, perché ipocrita, parziale, manipolatoria.
È lecito condannare l’aggressione russa all’Ucraina senza sposare spensieratamente la narrazione dominante e occidente-centrica. È lecito condannare senza mezzi termini la politica del governo israeliano e i crimini dei coloni nei Territori occupati e stigmatizzare il razzismo e la componente colonialista del sionismo attuale, senza per questo essere chiamati in correità con Hamas e tanto meno essere accusati di anti-semitismo (argomentazione disgustosa).
Qui è necessaria un’altra precisazione. La propensione alla guerra, il richiamo a valori reazionari e le chiusure autoritarie, caldeggiate sempre più apertamente da una parte consistente dei gruppi dirigenti europei, sono spesso anche la cifra distintiva di molti dei nemici dell’Occidente. Distanziarsi criticamente dalle scelte degli uni non comporta necessariamente parteggiare per gli altri.
Molto dissenso verso le élite occidentali è diventato terreno fertile per dottrine campiste e devote della massima “il nemico del mio nemico è mio amico”, pericolosamente convergenti con posizioni chiaramente fasciste, o rosso-brune che siano. Ovviamente, ci vanno a nozze anche gli stalinisti e altri fanatici della stessa risma.
Per fortuna non tutta la sinistra più o meno organizzata, né tutte le componenti delle mobilitazioni sociali in corso, né i vari movimenti ambientalisti e nemmeno la maggior parte delle forze indipendentiste o rappresentantive di minoranze linguistiche ed etniche si è fatta trascinare nella convergenza – invero vergognosa – con tale gentaglia. Però il rischio di essere risucchiati nel gorgo semplificatorio è alto.
Per sfuggirgli, i distinguo sono importanti. Tutto il discorso della “difesa europea” cambia drasticamente di senso a seconda che lo si inserisca in una prospettiva nazionalista, autoritaria e di accentuazione delle disparità sociali consolidate o, al contrario, in un orizzonte di conquiste democratiche, di salvaguardia dei diritti e delle libertà, di giustizia sociale, di progresso tecnologico virtuoso, di cura dell’ecosistema e di solidarietà internazionale (tutte cose che non vanno disgiunte per forza, come invece ci viene costantemente ripetuto).
Distinguere prospettive, orizzonti, obiettivi e metodi è una chiave interpretativa indispensabile per non farsi risucchiare nelle dicotomie tossiche.
Perciò, piuttosto che dire banalmente e semplicisticamente “no alla guerra”, nostra e altrui (magari sorvolando sui ruoli di aggredito e aggressore, di vittima che cerca di difendersi e di carnefice), cominciamo a fare domande: vuoi che andiamo in guerra? chi dovrebbe andarci? a che scopo? in nome di che cosa? a quale prezzo? a vantaggio di chi? insieme a chi e contro chi? E via dicendo.
Sembra ormai che, a farsi delle domande, si debba per forza passare per teorici del complotto. Ma le domande raramente sono sbagliate. Possono esserlo le risposte, specie se ci distolgono dalla realtà. Dobbiamo difendere la libertà di fare domande e opporre obiezioni, e dobbiamo farla ritornare una libertà fondamentale, esercitata collettivamente, in modo attivo e consapevole.
Solo a patto di chiarire il senso e la prospettiva delle scelte, anche delle più drammatiche, se ne può discutere. Se siamo davvero così democratici, civili, progrediti e animati da nobili valori, bisogna dimostrarlo nei fatti. Nessuna persona sana di mente e in buona fede (quindi, non i fascisti) penserà mai che aver fatto la guerra ai fascismi europei sia stato un errore, a suo tempo. Perché c’era da contrastare un crimine terribile e di portata epocale. Viceversa, è molto meno accettabile essere trascinati in una guerra, che promette di essere devastante oltre ogni limite, solo per imporre la vittoria di una banda criminale su un’altra, o – se si preferisce – di un élite parassitaria su un’altra.
Qui c’è il nodo. Bisogna scioglierlo. Non è detto che, nel farlo, non sia necessario rivedere radicalmente il pessimo patto di convivenza a cui soggiacciono oggi le popolazioni europee. Per superarlo in avanti e in termini più democratici e condivisi, non certo per restringere ulteriormente diritti, libertà e solidarietà.