Un’estate pre-elettorale: ciò che c’è, ciò che servirebbe

Sono iniziate le grandi manovre pre-elettorali, in Sardegna. La prossima scadenza della legislatura regionale (febbraio 2024) sollecita attori politici e sociali al risveglio e all’azione. Ma il quadro rimane desolante, sia per la deficitaria condizione democratica dell’isola, sia per la sua precaria condizione materiale.

Prima di tutto è da vedere se le elezioni avverranno alla data “naturale” o se le frizioni politiche in atto ne decreteranno un anticipo. Improbabile, ma non impossibile. Rinunciare a pochi mesi di lauti compensi per giovarsi di un vantaggio tattico momentaneo potrebbe convincere buona parte dell’attuale consiglio regionale a far cessare prima del previsto la legislatura. Per altro va tenuto presente che è venuta a mancare quella decisiva figura di raccordo e ricomposizione tattica che è stato a lungo Giorgio Oppi.

La presidenza di Christian Solinas, mai stata popolare, è debolissima e sballottata tra mille problemi. Lui, Solinas, sembra disposto a tutto per garantirsi un atterraggio confortevole alla fine di una caduta che appare ormai certa. Gli altri – sodali di maggioranza e oppositori di minoranza – sono decisi a conquistare posizioni di vantaggio in vista del voto, a qualsiasi costo.

Ma il problema non è né è mai stato (solo) Christian Solinas. Che la sua presidenza non sarebbe stata memorabile se non in negativo, era ampiamente prevedibile. Campione di opportunismo e di furbizie democristiane (vecchia scuola a cui si è formato, all’ombra di Mariolino Floris), non ha mai mostrato scrupoli, nella sua ormai lunga carriera a Palazzo, e invece ha mostrato molta abilità nel ritagliarsi ruoli e percorsi vantaggiosi, a prescindere dal vento che tirava. Certo, ha molto da farsi perdonare, ma non da solo.

L’intera compagine di destra che governa la Regione e detiene la maggioranza in consiglio regionale è una congrega di figure tra il mediocre e il furfantesco, selezionate dentro forme di relazione opache e percorsi politici che valorizzano la sfacciataggine, l’a-moralità, il trasformismo e la cura ossessiva del proprio interesse personale e di clan.

Ma è una caratteristica propria delle destre (nostrane e/o affiliate a bande forestiere), o se ne rinviene traccia anche nel matzamurru chiamato benevolmente centrosinistra? A ben guardare, se si fa la tara, eliminando dalla scena slogan, riferimenti culturali (a volte solo esibiti, a volte sinceri ma desolanti) e proclami astratti, il nucleo solido della presunta controparte di Solinas e soci tende a sembrare fin troppo simile, sia nei metodi, sia negli scopi reali, agli avversari. Solo, più ipocrita.

Il collasso dell’autonomia (e dell’autonomismo) in Sardegna è un dato di fatto almeno da trentacinque anni, diciamo dal fallimento dell’esperienza della giunta sardista e di sinistra guidata da Mario Melis. Da allora siamo andati sempre peggiorando. Non tanto perché non ci siano stati tentativi di provare nuove strade (e qui ne cito almeno due: la giunta Soru fino al 2006 e l’esperienza di Sardegna Possibile del 2013-14), quanto perché nel suo insieme la Sardegna non è riuscita a vedere compiuta una democrazia degna di questo nome e al contempo tutti i processi economici e sociali si sono incancreniti e ripiegati su uno stato di crisi permanente.

Unica prospettiva svincolata dall’egemonia culturale e politica dell’ultimo trentennio è stata quella dell’indipendentismo. Prima, nell’epoca di Angelo Caria (primo lustro degli anni Novanta del secolo scorso), poi nel primo decennio del nuovo secolo, l’indipendentismo, ormai maturo dopo i suoi esordi alla fine degli anni Sessanta, ha sollevato temi e proposto nuove prospettive che sono lentamente diventate senso comune. Spesso senza che se ne riconosca l’origine.

Se pensiamo ai grandi problemi di oggi (dalla scuola ai trasporti, dal saccheggio energetico allo sfruttamento militare, dal turismo straccione e/o coloniale al disastro sociale e ambientale del comparto industriale, ecc. ecc.), non possiamo non riconoscere che sono stati individuati, spesso in modo estremamente lucido e precoce, dall’indipendentismo, nelle sue diverse incarnazioni. Eppure, oggi, anche questo patrimonio politico sembra inerte, inservibile, tanto che le numerose mobilitazioni suscitate dai grandi problemi ancora aperti vedono gli indipendentisti – intesi come formazioni organizzate e come leadership riconosciute – assenti o a traino.

L’incapacità di tradurre una visione chiara dei problemi e delle loro cause storiche in un’offerta politica consistente e robusta, con effetti concreti anche a livello elettorale e amministrativo, ha prodotto il disastro dell’indipendentismo organizzato. In un momento storico in cui invece i temi dell’indipendentismo e la sua prospettiva hanno più che mai ragioni a proprio favore. Esiste una larghissima sensibilità popolare verso il tema dell’autodeterminazione, ma pochissima fiducia e scarsa voglia di partecipare direttamente alla politica e ancor meno di dare il proprio sostegno a sigle che dicono poco o niente alla stragrande maggioranza dell’elettorato.

È una situazione su cui da qualche tempo si ragiona e si discute, quasi sempre fuori dalle formazioni indipendentiste ancora attive. La percezione diffusa è pessimista, la militanza attiva pressoché evanescente, quasi solo relegata nelle “bolle social” in cui si fa esercizio di retorica e ognuno recita la propria parte; e tuttavia non è certo venuta meno la chiara sensazione di impellenza e di necessità storica che sta alla base dell’orientamento indipendentista.

Solo che non basta più. Incatenarsi a un discorso puramente identitario, fare professione di purezza ideale e di “sardità”, reiterare slogan ormai abusati, fissarsi su pochi temi ma senza alcun aggiornamento teorico e soprattutto programmatico, hanno chiuso l’indipendentismo odierno in una sorta di vicolo cieco. Un angolo di comfort per chi vi si è stabilito e vi trova conferme sul proprio status (“essere” indipendentista), ma uno spazio senza sbocchi, autoreferenziale e difficile da frequentare (e anche da capire) per molte persone (specie se hanno meno di trent’anni).

Claudia Zuncheddu traccia un quadro della situazione in un suo recente intervento sul “manifesto sardo”. L’analisi della situazione è condivisibile. La condanna della scandalosa legge elettorale ancora in vigore è sacrosanta. La valutazione severa su eventuali accordi “di minoranza” con le forze egemoni, specie del centrosinistra e soprattutto col PD, ha un fondamento solido. Rimane il problema del “che fare?”, che non può ridursi all’ennesimo tentativo di riunire tutte le debolezze dell’indipendentismo attuale per provare a chiedere il consenso dell’elettorato. Un tipo di operazione non certo inedito e che non ha mai portato risultati significativi.

Il raduno pan-indipendentista di domenica scorsa (25 giugno), di cui girano foto su Facebook, restituisce un’immagine poco rassicurante. Non per il valore soggettivo di chi vi ha preso parte, ma per ciò che esprime verso l’esterno. Un’età media ormai piuttosto elevata, tante sigle dietro cui è difficile scorgere veri partiti organizzati e l’esistenza di una base sociale consolidata, le cui differenze sono difficilissime da cogliere anche per chi abbia frequentato l’indipendentismo e i cui obiettivi, oggi, appaiono incomprensibili.

Lo dico mettendomi dalla parte di una persona sarda qualsiasi che si imbatta in queste immagini e nelle dichiarazioni social che le accompagnano.

L’indipendentismo deve essere uno o più passi avanti rispetto al resto della politica sarda, se ne vuole essere un elemento rilevante. Lo è stato, a tratti. Oggi non più. Gran parte delle persone sotto i quarant’anni che pure si professano indipendentiste o hanno simpatie per questa prospettiva NON milita in alcuna formazione. In questo senso, è già una gran cosa che esista un’entità a sé stante come ANS (Assemblea Natzionale Sarda), che almeno fa tesoro del fatto di NON essere un partito e garantisce la convivenza e la comunanza di azione tra attivisti e attiviste di età e provenienze diverse.

Un ruolo significativo potrebbe e dovrebbe averlo anche Corona de Logu, l’assemblea degli amministratori e delle amministratrici indipendentist*. Mi pare che sia un po’ venuta meno al sua spinta propulsiva, ma potrebbe essere un’impressione momentanea. La mancata sottoscrizione della recente proposta di modifica della legge elettorale regionale è stato un errore oggettivo di cui non conosco le ragioni, ma che tale rimane. Certo è che se l’indipendentismo vuole avere ancora senso deve mirare a dotarsi di una ampia classe politico-amministrativa formata sul campo. Che al contempo si mantenga esente dai peccati caratteristici dei partiti di provenienza italiana e dai loro satelliti: clientelismo spinto, tatticismo eretto a regola di comportamento universale, trasformismo, vaghezza etica, carrierismo.

Il discorso però va allargato. Il processo di conquista democratica, in Sardegna, passa necessariamente per un percorso di autodeterminazione ma tale percorso va riempito di obiettivi concreti. Prima di tutto quello strategico generale di mutare radicalmente di segno tutti i dati e le tendenze socio-economiche e demografiche attuali. Ossia, deve puntare a generare la possibilità di vivere bene in una Sardegna prospera, sana, libera e connessa col mondo. Il progresso politico deve essere connesso a quello sociale e entrambi non possono non tenere conto del dissesto ecologico e climatico del pianeta.

In questa prospettiva l’indipendentismo rischia di essere non solo e non tanto inerte, vecchio e muto, ma più che altro inutile. La necessaria conquista di forme di autodeterminazione e di autogoverno, così indispensabile per la Sardegna, non passa più necessariamente per l’indipendentismo come lo abbiamo concepito tra gli ultimi trent’anni del XX secolo e il primo ventennio di questo.

In tal senso ha probabilmente avuto un’intuizione felice Maurizio Onnis quando, a proposito del progetto politico Sardegna chiama Sardegna, ha parlato di “post-indipendentismo”. Non nel senso di una liquidazione definitiva di una lunga e ricca esperienza teorica e pragmatica qual è stata quella dell’indipendentismo sardo contemporaneo, quanto piuttosto nel senso di una sua evoluzione, di un suo superamento in avanti.

Partiamo dalla presa d’atto – storica, oltre che politica o ideologica – dell’incompatibilità tra un futuro positivo per la Sardegna in termini economici, sociali, demografici e la sua appartenenza allo Stato italiano, che invece la pone inevitabilmente in una condizione subalterna e dipendente. Questo dato empirico, ormai evidente a chiunque (se si valuta in buona fede), non basta da solo a generare un processo virtuoso di ri-civilizzazione. Non basta rivendicare diversità, non basta più un nazionalismo di stampo novecentesco, non basta avere come obiettivo la realizzazione di uno stato sardo indipendente. Ed è deleterio fare di queste premesse e della loro strenua difesa un fattore di ostilità verso l’esterno e di appartenenza settaria al proprio interno.

Il fine dell’indipendenza non può essere svincolato dalle conquiste politiche e sociali che la renderebbero un esito finale di un processo di conquista democratica. Non ha senso il motto “indipendèntzia e bo’!”.

Sia chiaro, se domani ci fosse un referendum per decidere la separazione dallo stato italiano io voterei senz’altro “sì”. Perché comunque sarebbe una svolta storica importante e ci costringerebbe a fare i conti con la realtà. Tuttavia sono conscio che i problemi della Sardegna sono talmente grandi e di tale portata che lo sforzo di fantasia e le energie necessarie ad affrontarli (non dico a risolverli) eccedono di gran lunga le forze dell’indipendentismo attuale, organizzato o no che sia, ed eccedono anche l’obiettivo di uno stato sardo indipendente, perché attengono a questioni che esulano da discorsi di sovranità statale e di mera conquista del potere locale. La scala di molte delle questioni urgenti di questo tempo è planetaria o come minimo continentale. Lo stato-nazione otto-novecentesco è sempre più uno strumento inadeguato ad affrontarle (come ho argomentato altre volte: per es. qui).

Non che manchi una certa consapevolezza di questi problemi. Non manca nell’indipendentismo e non manca in una parte almeno della società civile sarda. I partiti dominanti semplicemente non se ne interessano, ma è ovvio che anch’essi siano coinvolti in questa transizione storica.

In ogni caso, non bastano a tirarci fuori dai guai nemmeno le nuove forme di mobilitazione della cittadinanza, o almeno della sua parte più attiva, sulle varie vertenze aperte. La mobilitazione è necessaria, beninteso, ma serve una politicizzazione delle lotte e un loro “salto quantico” verso un livello di azione politica più ampio, non contingente, non settoriale. Occorrono, insomma un forte intersezionalismo e un nuovo dinamismo politico, accompagnati e sostenuti da una produzione culturale varia e forte, e occorre che tutto ciò si traduca (non solo ma) anche in proposta elettorale e in rappresentanza istituzionale. Non come scopo ultimo e finale, ma come necessario passaggio strumentale.

Per far ciò, bisogna dotarsi di forme e metodi che valorizzino l’impegno e le competenze diffusi a livello locale, nei vari ambiti, e li traducano in azione politica forte, di peso, possibilmente egemonica. Bisogna arrivare a ridisegnare lo scenario politico sardo spazzandone via i rimasugli putrescenti della vecchia politica clientelare e “podataria”, al momento ancora dominante. Bisogna marginalizzarne i gruppi dirigenti e ridurne il consenso il più possibile, delegittimarli come attori politici primari, renderli inoffensivi e al contempo occupare la scena con una nuova offerta culturale e politica non occasionale e nemmeno solo basata su frustrazione e esasperazione.

Una nuova progettualità politica che non può prescindere dall’impegno delle generazioni giovani, diciamo quelle intorno ai trent’anni e più giovani ancora, e nemmeno su quella grossa fetta di popolazione sarda, spesso attiva e intraprendente, che lascia la Sardegna con la triste prospettiva, rare volte desiderata, di non tornarci più.

In generale bisognerebbe tramutare in un grande movimento popolare tutte le forze sociali e culturali sane e propense a forme di emancipazione collettiva che pure sono presenti in Sardegna, benché spesso in termini segmentati e non comunicanti.

Mi ha colpito, qualche giorno fa, ciò che ho letto su Giap (il blog del collettivo Wu Ming). Il post riguardava le lotte che a Bologna si stanno conducendo contro la cementificazione e le pratiche distruttive portate avanti dal ceto dirigente emiliano-romagnolo, inserite dentro la più vasta e generale vertenza ambientale. Il caso emiliano-romagnolo non è isolato. È nota la lunga lotta della Val Susa contro il progetto TAV Torino-Lione, ma in questo stesso periodo emergono altre lotte analoghe in altre zone d’Italia e d’Europa. Penso a Trento e alla mobilitazione contro l’assurdo e pericolosissimo progetto di “passante ferroviario”, ma penso anche alle lotte ambientaliste e sociali in corso in Francia e altrove, sempre più contrastate a colpi di repressione autoritaria dai nostri governi democratici (e dispensatori di patenti di democrazia al resto del pianeta).

Come si vede, le tante vertenze sarde non sono casi isolati e fuori dalla storia, bensì sono la declinazione locale di processi e conflitti diffusi e in certo modo globali. In Sardegna tali processi assumono contorni più drammatici che altrove, in Europa, perché si sommano a una storia di subalternità, marginalizzazione e sottomissione che dura da un paio di secoli.

Nel post su Giap, in conclusione, si passa dalla cronaca e dalla critica puntuale a una prospettiva più ampia, in cui si ridefinisce la forma e la qualità peculiare delle lotte del nostro tempo. Mi colpiscono le analogie tra le forme di lotta più durature e/o efficaci. Sono quelle che sono riuscite a mettere insieme molte anime e a trovare vari modi di perseguire obiettivi comuni pur partendo da posizioni non coincidenti. Una sorta di accettazione della pluralità e dell’eterogeneità che non diventa debolezza e frammentazione, ma al contrario conferisce forza e consapevolezza.

Viene citato un bel passaggio del filosofo brasiliano Rodrigo Nunes, tratto dal suo libro Neither Vertical nor Horizontal: A Theory of Political Organization, Verso, 2021 (lo riprendo direttamente da Giap):

Rodrigo Nunes invita a superare i dilemmi che ogni ondata di movimento si trova di fronte e su cui finisce per arenarsi, quelli riguardanti l’organizzazione. Nunes invita a pensare il movimento:

«ecologicamente: come un’ecologia diffusa di relazioni che attraversano e mettono insieme diverse forme d’azione (aggregata, collettiva), forme organizzative disparate (gruppi di affinità, network informali, sindacati, partiti), individui che ne sono parte o ci collaborano, individui senza affiliazioni che partecipano alle proteste, condividono materiali on line o semplicemente seguono con simpatia gli sviluppi su testate giornalistiche, pagine web, profili social, spazi fisici ecc. Qualunque cosa noi consideriamo come totalità del “movimento” è in realtà un network non afferrabile nella sua totalità, fatto di tanti network diversi, un’ecologia di network in evoluzione a sua volta incastonata dentro ecologie più vaste che si sovrappongono in vari modi […] Non c’è bisogno di alcun tipo di coordinamento o addirittura di alcun contatto diretto tra le diverse componenti di un ecosistema perché possano interagire tra loro: agendo nell’ambiente che hanno in comune, possono modificare indirettamente i loro campi di possibilità […] Non si organizza una totalità: ci si organizza dentro di essa.» (traduzione nostra)

La nuova politicizzazione del disagio e delle lotte collettive in Sardegna a mio avviso dovrebbe tener conto di questa nuova concettualizzazione, liberandosi di zavorre dogmatiche e tentazioni identitarie (nei vari sensi che può avere questo aggettivo), escludendo pratiche autoritarie e centralizzanti e ponendosi come contraltare strategico, storico, sia nei contenuti sia nei metodi, della politica politicata attuale.

Quanto siano distanti da questo approccio le miserevoli tattiche pre-elettorali a cui tutta la politica sarda si sta dedicando al momento, è evidente. Quanto sia aliena questa prospettiva di democrazia radicale e pluralista alla realtà concreta dei gruppi di potere che spadroneggiano oggi sull’isola è inutile sottolinearlo. Ciò non significa che dobbiamo fingere che non esistano i partiti italiani con le loro succursali coloniali e i loro satelliti opportunisti, bensì significa essere innanzi tutto consapevoli di chi siano e di cosa rappresentino.

Ma significa anche conquistare una coscienza più profonda delle necessità politiche della Sardegna di oggi ed essere disponibili a una maggiore generosità e a una più forte dedizione allo studio, alla creatività, al confronto e alla condivisione. Non vedo, onestamente, altre strade percorribili per tirarci fuori dal disastro epocale in corso.

2 Comments

  1. Mi dimando sempere, poite in custa mesa de importu, chine est “deputau” a faere “politica” po sa terra nostra, non chistionat ch’in tegus, ch’in Omar Onnis? Comente peri in sa mesa de su Manifestu Sardu? Custa puru est una de as cosas chi faent pagu isperare in bonu. Non mancu po ateru, ma po intennere ateras campanas, giustu po ischire eite andala pigare po as votatziones.

    1. Su problema no est a chistionare o non chistionare cun megus, chi no apo peruna importàntzia, ma a chistionare o non chistionare cun is sard*s, cun sa gente, cun is categorias sotziales, cun totu sa polìtica chi esistit in fora de s’agorru minoreddu de s’indipendentismu (prus o mancu) organizadu. E non sceti a chistionare, ma fintzas – e prus chi totu – a fàere cosa, a b’èssere in mesu a is cuntierras sotziales, in is mobilitatziones, in is arresonos a pitzu de is problemas mannos de custu tempus, e a b’èssere cun ideas noas e fortes.

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