Un articolo sul giornale (un tempo) progressista La Repubblica parla dell’imminente campagna elettorale sarda e in particolare della rottura di Renato Soru col centrosinistra a guida PD. E, come per magia, spuntano fuori paternalismo fuori luogo, ignoranza crassa e stereotipi razzisti. Non è un caso e non è un caso isolato.
Neanche finito di dire che non mi sarei occupato della campagna elettorale sarda, e mi ritrovo qui a smentire me stesso. In realtà, però, non parlerò della campagna elettorale. Ma la campagna elettorale sarda, non per la prima volta, offre spunti di ragionamento su tematiche in questo caso collaterali, ma che in generale fanno parte integrante dell’irrisolta “questione sarda”.
Sul giornale Repubblica si sono accorti che in Sardegna sono avviate le manovre preliminari in vista della prossima scadenza elettorale, ma anziché spiegare appunto che ci saranno le elezioni in Sardegna e analizzare le questioni aperte e i movimenti in corso, preferiscono dedicarsi a quella che loro vedono come una spaccatura nel fronte del centrosinistra a guida PD.
È legittimo. È il loro campo politico di riferimento. Poi però dipende da come lo fai.
Inevitabilmente, lo sguardo è quello esterno (rispetto all’isola), centrato sull’Italia e sugli interessi del suo establishment politico-affaristico, della cosiddetta classe dirigente italiana (o di una sua parte). Come vede la Sardegna la classe dirigente italiana? Be’, sarebbe tema per uno studio approfondito e per un saggio ben documentato e referenziato. Del resto, c’è materiale in abbondanza. Io ne ho già accennato qualcosa, su SardegnaMondo (per esempio, qui e qui).
Nella circostanza presente, il cronista Stefano Cappellini si dedica a raccontare a lettrici e lettori lo strano caso del “derby” (gergo calcistico, mai manchi!) o, per meglio dire, della “faida” (si parla di Sardegna, dopo tutto) tra Renato Soru e Alessandra Todde.
Lascerei stare i contenuti politici (che comunque nell’articolo non ci sono) e analizzerei il taglio e il lessico del pezzo.
È nel titolo che si descrive lo scontro come “derby”, ma, dato che appunto si tratta di un “derby sardo”, non può che essere “feroce”. Ed è un fatto rilevante perché tale dissidio può “regalare l’isola alla destra”.
Lasciamo stare la faccenda della destra e della sinistra, su cui ci sarebbe da discutere. Faccio solo notare che inquadrando così la vicenda già si nega in radice ogni possibile soggettività alla cittadinanza sarda, si sottrae qualsiasi agency (per dirla in termini politologici) all’ambito politico locale e all’elettorato isolano. Non contano niente i problemi concreti, le istanze ideali in campo, le aspettative, i conflitti sociali e culturali aperti. Tutto ruota intorno allo schema – fallace e tossico – del bipolarismo all’italiana.
Nel sommario del pezzo, altre cose degne di nota:
Si vota il 24 febbraio. Tredici liste al fianco dell’ex viceministra: “Solo uniti si può tornare a vincere”. Il comizio in dialetto stretto del fondatore di Tiscali agli indipendentisti
Ci si riferisce a Soru come al fondatore di Tiscali (vero), ma si precisa subito che fa “un comizio” rivolto “agli indipendentisti” e soprattutto lo fa in “dialetto stretto”.
Ora, non so cosa sia, se esiste, un dialetto largo, a meno che non si intenda dire che Soru, nell’occasione dell’assemblea di presentazione della lista “Vota Sardigna” a Oristano, domenica scorsa, ha parlato nel suo sardo di Sanluri. Ma non credo che il senso sia questo. È solo che evidentemente risulta spontaneo associare un termine denigratorio come “dialetto” a un “comizio” rivolto agli “indipendentisti”. Tutte cose brutte, sporche e cattive. Che non fosse nemmeno un comizio in senso stretto e che Soru non si rivolgesse (solo) agli indipendentisti poco importa.
Nel pezzo vero e proprio sono rilevabili diversi ulteriori elementi significativi. Il taglio è piuttosto ironico, al limite della satira, a dispetto della serietà delle questioni in ballo e anche della drammaticità della situazione in cui versa la Sardegna attuale.
Nel primo paragrafo c’è già praticamente tutto (grassetti miei):
Prima di introdurre i protagonisti di questa storia va detto che, nel pur ricchissimo repertorio di divisioni della sinistra italiana, la vicenda sarda svetta per il livello della faida, più intricata della trama d’un cesto di pane Carasau: partiti contro partiti, pezzi di un partito contro pezzi dello stesso partito, figlie contro padri, amicizie interrotte, tessere stracciate, alleanze rimescolate con il criterio della legge del beduino: il nemico del mio nemico è mio amico.
La scelta lessicale non è fortuita né accessoria. Se c’è un dissidio politico in Sardegna non può che degenerare in una faida. Se devi usare un’ardita allegoria, non puoi rinunciare a tirare in ballo, anche a sproposito, il pane carasau (con una maiuscola reverenziale fuori luogo, forse usata erroneamente invece del corsivo, chissà). E le divisioni politiche sono etichettate in modo spregiativo – e razzista – come effetti di una pretesa “legge del beduino”.
Faccio solo notare che il cronista accenna anche nel testo al sardo usato da Soru in pubblico (sommo scandalo), ma definendolo “lingua sarda” (bontà sua). Salvo poi incorrere nel solito vezzo da italiani ammiccanti (quelli che “io amo la Sardegna: ci vado in vacanza e ho anche amici sardi”): una frase in sardo buttata lì, più o meno a caso. La frase, come quasi sempre, è scritta in modo scorretto: asibiri a tottusu. Troppo sforzo preoccuparsi dell’ortografia.
(Che poi, se pure il cronista avesse chiesto lumi in proposito, a seconda dell’interpellato/a locale la risposta potrebbe essere stata: “scrivilo come ti pare, tanto non esiste una norma ufficiale”. E va be’, siamo messi così. Ma è un altro discorso.)
Sempre a proposito di lingua sarda, nel prosieguo dell’articolo il cronista precisa quanto segue:
Per raccontare cosa Soru ha detto agli indipendentisti è necessario aspettare la traduzione a cura di giornalisti indigeni.
Chiaro, che altro aggettivo puoi usare per definire persone native di un luogo esotico come la Sardegna, dove si parla addirittura una lingua incomprensibile, se non “indigeni”?
Il resto della lettura è del tutto perdibile, non fosse altro che per la sua inutilità. Non serve a chiarire nulla di quello che sta succedendo in queste fasi preparatorie della campagna elettorale. Serve solo a piegare l’intera faccenda dentro le cornici predeterminate della propaganda di parte a cui ormai è patologicamente votata la cronaca politica anche dei maggiori organi di stampa italiani.
Quel che intendo far notare, però, al di là del contenuto informativo e della scarsissima qualità giornalistica dell’articolo, è proprio la postura del cronista verso l’oggetto di cui tratta il suo testo.
Ripeto, non è un fatto occasionale e nemmeno eccezionale. Esiste una casistica mastodontica di esempi analoghi, a volte anche peggiori. Non da oggi. I luoghi comuni razzisti e colonialisti a proposito della Sardegna e delle vicende sarde sono una costante di tutta la storia italiana, da che esiste lo stato italiano.
A ciò si aggiunge, coerentemente, il fastidio e, oltre un certo livello, la preoccupazione suscitati nei gruppi dominanti italiani da qualsiasi proposta politica e/o culturale sarda realmente autonoma, non eterodiretta, che irrompa sulla scena normalizzata e sedata del nostro dibattito pubblico.
Tanto più se appare, anche solo vagamente e/o impropriamente, come “indipendentista”. Quindi, minacciosa. Non tanto per questioni teoriche o ideali, ma perché rischia di minare corposi interessi materiali e, in generale, il fondamento stesso della necessaria (per loro) subalternità della Sardegna. In tali casi, ecco scattare immediatamente l’allarme “pensiero indipendente” (che non vuol dire necessariamente indipendentista, mi tocca precisarlo).
Ne abbiamo avuto assaggi in molte occasioni. Una soprattutto, in cui ero coinvolto direttamente, è stata la campagna elettorale (guarda un po’) del 2014, con Michela Murgia e Sardegna Possibile. Non mi stupisce se le stesse reazioni, interne e esterne, comincia a suscitarle questa proposta politica, pur differente e nata in un contesto a sua volta diverso, della Coalizione Sarda di Renato Soru.
A tale atteggiamento generalizzato e sistematico dei media e dell’establishment italiano non risponde mai – MAI! – una vera reazione compatta e forte dell’intellighenzia, del mondo politico e dei mass media isolani. La mancata reazione e, a monte, la mancata assunzione di responsabilità in queste evenienze è conseguenza della storica attitudine dei gruppi dirigenti sardi a volersi integrare negli omologhi gruppi italiani. Quasi sempre senza molto successo, ma con ostinazione e, non di rado, imbarazzante sfoggio di opportunismo e servilismo.
Anche questo è un problema consolidato con cui dobbiamo fare i conti. Prima di tutto acquisendone coscienza. Perciò, a parte l’indignazione momentanea, in realtà, in casi come questo, bisognerebbe in un certo senso essere grati. Sono occasioni in cui è più facile far risaltare l’evidente necessità storica di un affrancamento collettivo che va oltre la contingente lotta politico-elettorale. E che resterà sul tappeto comunque vadano le prossime elezioni.