Attribuirsi false generalità è un reato, per gli individui. Non lo è evidentemente per le collettività umane. Se lo fosse, i sardi, nel loro insieme, rischierebbero l’incriminazione immediata.
Bisognerebbe applicare a tutti noi una sana pedagogia dell’autoriconoscimento, un corso accelerato di corretta auto-identificazione. Troppo spesso, diciamo pure sistematicamente, i sardi si riferiscono a se stessi con locuzioni improprie, con definizioni non veridiche. Il che non è solo spiacevole e sostanzialmente scorretto verso gli altri, ma è anche causa di disfunzioni culturali, sociali e politiche per noi stessi.
Per esempio, uno dei sinonimi più ricorrenti per “Sardegna” è “regione”. La nostra regione, diciamo spesso, anche rivolgendoci a un interlocutore sardo. Ora, regione ha due possibili significati. Il primo è quello di “ampia estensione di superficie terrestre distinta per caratteristiche proprie che possono variare dalla conformazione del terreno alla posizione geografica, al clima, alla fauna, alla flora, fino a caratteristiche quali la cultura, la storia e la lingua” (wikipedia). Il secondo descrive la “regione” come “una tipologia di ente territoriale presente nell’ordinamento giuridico di vari stati del mondo” (sempre wikipedia).
Nel primo senso la Sardegna è certamente una regione in ambito europeo e mediterraneo, un ambito ampio, equivalente alla porzione di mondo in cui l’isola si trova. Non può essere però definita una regione “italiana”, in quanto la geografia e la geologia (ma anche la storia) contraddicono tale aggettivo. Nel secondo significato, invece sì: dal 1948, la Sardegna è certamente una “regione italiana”, in quanto il suo territorio corrisponde (anche) a un ente territoriale/amministrativo all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
Quel che risalta è però la qualificazione di regionale dato a qualsiasi cosa produca o esprima la Sardegna, senza tanti distinguo, dal carciofo spinoso ai mamuthones. Per esempio, chiamare “Festival regionale del folklore” una manifestazione dedicata esclusivamente alle tradizioni popolari sarde è del tutto improprio. O lo sarebbe se i sardi si rendessero conto che le proprie tradizioni popolari (così come la propria lingua e la propria storia) non sono un caso particolare (regionale, dunque, e dialettale) di un insieme culturale più ampio, cui si appartiene (che dunque sarebbe il livello nazionale). Il canto a tenore o le launeddas o il ballo tondo non sono espressioni culturali regionali italiane. Sono espressioni di una cultura propriamente sarda, storicamente definita come a sé stante.
Abbiamo così tanto bisogno di sentirci parte di qualcos’altro che, per fare un altro esempio macroscopico, è largamente in uso considerare la Sardegna una porzione dell’Italia meridionale. Senza tanto riguardo per i dati reali e per le risultanze storiche. Basta invece spulciare un po’ di statistiche che ci riguardano e metterle a confronto con le statistiche delle altre regioni italiane (regioni in senso giuridico-amministrativo) per rendersi conto che sia in termini diacronici (lungo il corso del tempo) sia sincronici (dati attuali) ciò che se ne evince ci pone per tanti versi su posizioni non corrispondenti alla classica dicotomia italiana Nord-Sud. Per alcuni fenomeni siamo più simili alle regioni meridionali, per altri siamo più prossimi a quelle settentrionali o centrali. In alcuni casi la Sardegna costituisce un caso a sé stante.
Questo non sorprende. Non sorprende che, facendo parte dello stesso ordinamento politico da decenni, vi siano fenomeni simili tra Sardegna e altre regioni italiane, almeno in qualche ambito. Non sorprenderebbe nemmeno se, confrontando i dati relativi a qualche altra regione europea (in senso geografico-storico: la Corsica, il Galles, le Baleari, o che so io) venissero fuori caratteristiche analoghe a quelle che ci accomunano – per dire – alla Sicilia o all’Abruzzo. Certamente non sorprende che nell’insieme la Sardegna faccia storia a sé. Solo che questo dato generale viene di solito ignorato o rimosso. Ammetterlo suonerebbe troppo pericolosamente politico.
Il reciproco della nostra classificazione regionale è l’attribuzione di nazionale a tutto ciò che riguarda l’Italia. Spesso, anche quando non riguarda noi. Da un altro lato, non è raro che qualche sardo faccia riferimento a fatti isolani richiamandosi alla situazione della “penisola”. In questo caso la parola penisola è usata in senso traslato, per indicare l’Italia. Essendo la Sardegna una regione (in senso amministrativo) dello stato italiano, ecco che tutt’a un tratto ci troviamo proiettati in una dimensione geografica falsa, come fossimo anche noi attaccati allo stivale italico.
Così, ci piace considerare le nostre specialità come specialità italiane. La nidificazione dei fenicotteri rosa a Molentargius diventa un fatto italiano. La foresta primaria di Monte Novo S. Giovanni, a Orgosolo, è un patrimonio naturalistico dell’Italia. I nuraghi sono una cultura primitiva italiana (e non la più significativa civiltà del Mediterrano occidentale tra Età del bronzo ed Età del ferro).
Il che comporta degli slittamenti, a livello di percezione di sé, alquanto paradossali. Slittamenti che, resi sistematici dall’egemonia culturale di stampo risorgimental-nazionalista dominante in Italia, finiscono per produrre patologie culturali e sociali, e anche materiali, economiche, e infine politiche.
La Sardegna non è una regione italiana (se non in quanto al suo territorio corrisponde un ente giuridico dello stato italiano) e l’Italia non è la nostra nazione. L’Italia è lo stato dentro il quale siamo giuridicamente collocati e del quale abbiamo la cittadinanza.
Nazione e stato non sono sinonimi e non coincidono affatto. I sardi, così propensi a definirsi popolo e a considerare l’orgoglio come un proprio tratto antropologico originario, dovrebbero imparare ad essere un po’ meno orgogliosi e un po’ più precisi nell’auto-definire sé stessi, la propria terra e le proprie cose.
Invece siamo così poco abituati a rivendicare una nostra soggettività collettiva, che ci troviamo in imbarazzo a usare semplicemente le giuste definizioni per le nostre cose.
Ma le parole sono importanti e le parole con cui ci identifichiamo lo sono doppiamente. Usarle male è il sintomo più chiaro di una identificazione problematica, se non deviata. Dal che non possono che derivare brutte conseguenze.