Il passaggio cruciale della nostra epoca, la sua radice, è il periodo rivoluzionario.
La sconfitta della parte più aggiornata e dinamica della società sarda di fine Settecento comportò la determinazione dello stile politico dei due secoli successivi.
Sappiamo che nel 1799, in marzo, la corte sabauda dovette riparare a Cagliari, in fuga dalle armate francesi.
(L’Arte della fuga non è solo una monumentale opera musicale di J.S. Bach ma anche uno dei possibili titoli di un’eventuale “storia vera” dei Savoia.)
In quella circostanza fu chiarissimo come la fazione conservatrice e opportunista della classe dirigente sarda, che aveva contribuito alla sconfitta di Angioy e alla repressione degli angioyani, avesse fatto la sua scelta di campo.
Votarsi alla fedeltà al padrone esterno e mantenere i propri privilegi all’interno.
Una situazione tipicamente coloniale.
Ho già argomentato come questa sia rimasta sostanzialmente la cifra dei rapporti tra il livello politico-istituzionale sardo e l’apparato di potere di volta in volta vigente.
Non è cambiato molto, se non in peggio, con la Fusione Perfetta e con l’unificazione italiana.
Ovviamente sotto il fascismo le cose non sono certo migliorate, ma persino con l’autonomia, in epoca repubblicana, è stato confermato il rapporto di forza sbilanciato con lo stato centrale.
Spesso si stigmatizza il fatto che i sardi non abbiano mai reagito alla loro perdurante condizione deficitaria e su questo assunto si costruiscono teorizzazioni razziali di comodo.
Ma questo modo di procedere è una fallacia argomentativa che fa più di un torto sia ai sardi sia alla storia.
In realtà i sardi si sono *sempre* ribellati. Di continuo.
Il problema è che si è quasi sempre trattato di ribellioni o manifestazioni di dissenso senza una prospettiva politica definita e/o senza una leadership chiara.
Le classi dirigenti sarde hanno sempre preferito essere cooptate nell’omologa classe dirigente prima sabauda prima e poi italiana, piuttosto che assumere la guida dell’isola in un percorso di riscatto storico.
Persino il sardismo si è tradotto alla fine nell’ennesimo tradimento.
Nonostante tutto questo, la spinta a cambiare in meglio le cose non si è ancora esaurita.
Non mancano affatto forze ed energie diffuse che tentano, in questa o quella partita, di far valere interessi collettivi, di rigettare modelli socio-economici o singole scelte di indole chiaramente subalterna, se non propriamente coloniale.
E tuttavia la sola interfaccia tra la Sardegna e il mondo restano per lo più le varie istituzioni riconosciute, ufficiali.
Sia in sede strettamente politica, sia in sede economica, sia in sede culturale.
Questa è una debolezza democratica oggettiva. Ed è uno dei motivi per cui insisto nel dire che la Sardegna ha bisogno di vedere realizzata e pienamente dispiegata una vera democrazia.
Ciò che viene rappresentato nelle sedi dotate di personalità giuridica pubblica e dai soggetti che hanno voce in capitolo istituzionale è la Sardegna dell’oligarchia parassitaria e “compradora” che domina la scena dalla sconfitta della Rivoluzione in poi.
Una variegata classe dominante divisa in fazioni (i famosi sardi “pocos, locos y mal unidos” dovrebbero essere questi, non altri), ma coesa quando si tratta di perseguire i propri interessi particolari a discapito di quelli più generali.
Il che poi si traduce nella strenua, a volte grottesca, ma non meno dannosa, difesa dello status quo.
Vale anche in ambito culturale, specie al livello istituzionale.
Lo stuolo di intellettuali organici al regime sabaudo e alle fazioni dominanti nello stato italiano non si è affatto esaurito nel XIX secolo, bensì si è riprodotto nei decenni e ancora occupa gli spazi di potere, di decisione, di intermediazione con l’esterno.
Esattamente come il livello politico.
Per dimostrare questi assunti, oltre alle ricostruzioni storiche, a volte bastano esempi pratici occasionali, ma pregnanti.
In occasioni particolari, capita di poter mettere facilmente in parallelo, in maniera simbolicamente – oltre che fattivamente – significativa, manifestazioni concrete delle due anime della Sardegna.
Quella popolare, battagliera, alla ricerca di un riscatto collettivo, e quella anti-popolare e anti-democratica, accomodante, opportunista e parassitaria.
In questo caso, l’occasione è la visita a Cagliari del Presidente del Consiglio.
Proviamo, per esempio, a giustapporre la protesta ambientalista, ostile alle servitù energetiche (ambito in cui la natura coloniale dei rapporti tra Italia e Sardegna emerge in modo direi icastico), con il servilismo e la piaggeria dell’istituzione universitaria.
L’effetto è notevole, mi pare.
Da un lato il popolo che protesta, con delle ragioni e una visione che non trovano riscontro nelle proprie istituzioni.
Dall’altra le istituzioni locali, comprese quelle culturali, che si preoccupano solo di compiacere il padrone d’oltremare di turno, a cui debbono la propria legittimazione e il proprio status.
I mass media principali hanno la loro responsabilità, naturalmente.
A porre le domande scomode (ossia, a svolgere il ruolo di cane da guardia della democrazia e non di cane da difesa del potere costituito) devono essere sempre degli outsider.
Questo, in soldoni, è il modello che costantemente si reitera sul palcoscenico pubblico sardo, da molto molto tempo.
Sono situazioni il cui senso simbolico e politico va oltre i fatti in sé, il loro contenuto, le circostanze concrete del loro svolgimento.
Finché la i sardi non avranno marginalizzato e tolto ogni potere all’oligarchia coloniale che ancora domina la scena, sarà difficile, se non impossibile, spuntarla su qualsiasi questione strategica aperta.
Che siano le questioni ambientali, o quelle energetiche, o i trasporti, o le infrastrutture, o la scuola, o la questione linguistica, o il problema delle campagne e del comparto agroalimentare, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente.
È bene che se ne rendano conto tutte le persone che si sentono democratiche, progressiste o anche solo intellettualmente oneste.
E direi anche le realtà produttive e sociali che non campano di favori della politica e di elargizioni clientelari.
Quando un potente politico italiano avrà timore a venire in visita padronale in Sardegna e nessuna istituzione sarà disposta ad accoglierlo supinamente, con manifestazioni di subalternità e fedeltà, allora quello sarà il segnale che ci siamo instradati verso una condizione storica di cui non dovremo vergognarci.
Leggevo che lei è nativo di Nuoro, ma vive oramai da molto tempo a Trento, però, aggiungo, si fa portavoce delle istanze indipendentistiche isolane. Assomiglia a un mio collega, dipendente pubblico, che è indipendentista tutti i giorni, ma almeno vive in Sardegna, tranne quando va a ritirare lo stipendio.
Il problema della Sardegna non è ciò che lei pensa, ma è l’esatto contrario: è invece l’agenda sardista con tutti i suoi sprechi, legati anche all’identitarismo, il vero problema. In Sardegna ci vivo da cinquant’anni ormai, e parlo con cognizione di causa. Destra e sinistra sono da decenni la stessa cosa, perchè poi governa il sardismo, che è la versione nostrana del leghismo. Ah no, è vero, voi siete di sinistra, anzi non siete sardisti, siete indipendentisti, anticolonialisti (risate d’obbligo).
Pensare che il nostro problema sia la “colonizzazione” italiana significa vivere sulla luna. Siamo una regione a statuto speciale e dove possiamo operare con ampi margini di autonomia facciamo letteralmente pena. Basta vedere in che condizioni è la sanità sarda, e paragonarla con quella trentina, che lei conosce bene, perchè tutto le divenga più chiaro. Ah, è vero, i trentini sono i colonizzatori, noi siamo i colonizzati. Noi siamo sempre vittime.
In compenso in Sardegna siamo bravissimi a scaricare le responsabilità sugli altri, perchè i sardisti-indipendentisti sono campioni dello scaricabarile.
Ma al di là di tutto, leggendo ciò che scrive, mi rendo conto che lei è ancora fermo al Novecento, alle piccole patrie, al sangue e al suolo, quando qui ci stanno portando via la democrazia e lo stanno facendo i grandi potentati economico-finanziari che controllano le organizzazione transnazionali, UE, BCE, FMI, Banca mondiale, ecc.., ecc.. ma voi ancora ve la prendete con chi ha solo un potere residuale e prende ordini da oltre confine. Ma noi sardi se ci autogovernassimo…(anche qui risate d’obbligo).
In poche righe ho cercato di riportarla alla realtà, scuotendola dalle sue illusioni, che sono da tempo in Sardegna armi di distrazione di massa. Fino a quando non faremo i conti con ciò che siamo, senza cercare nessun alibi, non faremo un passo in avanti. Saludi e trigu.
Andrea, normalmente questo commento andrebbe dritto nel cestino, perché è evidentemente un’accozzaglia di stupidaggini che non merita risposta.
Non hai letto nulla di ciò che scrivo, è evidente; tant’è che mi attribuisci posizioni e opinioni piuttosto distanti dalle mie. E pazienza
Lo pubblico perché è un buon esempio di fallacie argomentative (qui ce n’è un campionario notevole) sommate ad arroganza e brandelli di tesi destrorse senza capo né coda per giunta affastellate a caso.
Vivi in Sardegna, ma non ne sai nulla. Se è per quello, non sai nulla nemmeno del Trentino, benché lo metta in mezzo giusto per arricchire la polemica, oltre a non avere la benché minima idea di cosa io pensi in proposito.
Purtroppo non sei un caso isolato. È proprio su personalità come la tua (posto che non sia un semplice troll) che prospera la nostra subalternità.
Non posso farci molto.
Ah, non è il caso che tu replichi. Dato il tono impiegato e l’ostilità preconcetta e randomica del tuo intervento, credo proprio che non ti concederò una seconda possibilità di sporcarmi il posto.