Il contesto internazionale e le dinamiche sociali in corso vengono raccontate dai media, tutti i media, in modo prevalentemente parziale e distorto. Il dibattito pubblico ne è pesantemente condizionato. Perdiamo di vista le questioni di fondo e la cruda realtà minaccia di travolgerci senza che siamo preparati a quello che ci aspetta.
Se facciamo caso alle modalità con cui si svolge la diffusione delle informazioni e il conseguente dibattito – specialmente sui social, ma non solo – è facile constatare come prevalgano orientamenti e cornici interpretative imposti in modo egemonico e interiorizzati meccanicamente dai più, senza alcun distacco critico.
Non è colpa delle singole persone. Da anni siamo in balia di un meccanismo perverso in cui si combinano il sistematico depotenziamento delle agenzie formative di base (scuola in primis) e la forza condizionante dei nuovi media.
La manipolazione dell’informazione e delle dinamiche politiche, anche nelle democrazie apparentemente più consolidate, c’è sempre stata. In un paese fragile e mal assemblato come l’Italia è una caratteristica pressoché strutturale. Per molto tempo, dalla seconda guerra mondiale in poi, è stata la politica estera USA a condizionare il sistema politico italiano.
Gli stessi social media sono sembrati per un po’ di tempo l’ennesimo strumento di manipolazione di massa nelle mani di una parte dell’élite sociale ed economica statunitense, salvo poi diventare, con sorpresa di molti, un asset gestito con disinvoltura dalla Cina e dalla Federazione russa.
Inevitabilmente, quel che veniva accettato e persino giustificato o comunque passato sotto silenzio riguardo l’egemonia USA sulle democrazie europee fa scandalo oggi se fatto dalle controparti geo-politiche. Il che è comprensibile, ma non deve nemmeno farci cadere dal pero.
La disinformazione diffusa e la disabitudine alla democrazia realmente agita (che non significa andare a votare ogni tot anni né avere accesso alle discussioni sui social media) presentano il conto oggi, in una fase storica in cui, mentre litighiamo sui diversivi propinatici da chi gestisce l’agenda setting, succedono cose che sfuggono alla nostra percezione.
Da tempo sospetto che la vera posta in gioco sia realizzare o impedire l’ulteriore consolidamento dei regimi politici democratici in un senso più profondo e magari più diffuso, declinato secondo modalità diverse a seconda dei contesti culturali e storici. In larga misura un simile trapasso epocale consisterebbe nel superamento dell’ordine capitalista, consumista e colonialista che ha caratterizzato l’epoca contemporanea a livello globale.
In altre parole, le varie élite dominanti in Europa, negli USA, in Russia, in Cina e altrove nel mondo hanno come scopo primario la gestione oligarchica e padronale della transizione storica in corso.
Se superamento del tardo-capitalismo sarà, avverrà in termini conservatori, sotto stretto controllo dei gruppi sociali dominanti e a discapito di qualsiasi pulsione o istanza democratica e popolare. Nessuna forma di socialismo, o di eco-socialismo, o persino di social-democrazia in stile europeo post seconda guerra mondiale, nonché altre possibili declinazioni ancora più avanzate, saranno consentite.
La saldatura possibile tra le istanze sociali e quelle ambientaliste, con lo sfondo allarmante dei mutamenti climatici e della devastazione dell’ecosistema, è vissuta come una minaccia esiziale dai gruppi dominanti, a dispetto delle loro divisioni interne e dei loro contrastanti interessi strategici. Anche nella civile e democratica Europa.
Non per l’oggettivo pericolo che corre la civiltà umana, alle prese con una crisi multipla e generalizzata, ma perché essi non tollerano che la si affronti mettendo in discussione la loro supremazia e i loro interessi consolidati.
Motivo per cui alla Russia di Putin non piace che sui suoi confini si sviluppino democrazie mature e dinamiche socio-culturali progressive (come rischiava di essere l’Ucraina) e ai vertici degli stati europei nonché a quelli dell’UE non passa nemmeno per l’anticamera del cervello, a dispetto di certa retorica auto-consolatoria, di intervenire nelle situazione con forme di rilancio democratico e di consolidamento dei diritti, della solidarietà internazionale, dell’autodeterminazione dei popoli e della pace.
In ogni caso, e questo va puntualizzato e tenuto ben presente, la tendenza al momento vincente è l’egemonia culturale del fascismo globale, nelle sue varie facce e incarnazioni. La parte concorrente, ossia quella elitaria, conservatrice e liberista, contenderà il campo ai fascismi solo se non avvertirà una minaccia, diciamo così, da sinistra e in ogni caso lo farà con modalità autoritarie forti, se non violente.
La stessa retorica del riarmo europeo non ha nulla a che fare con pretese minacce esterne. La Russia, una volta imposta la sua egemonia sui suoi confini e sulla sua sfera di interesse imperiale, non andrà certo oltre. D’altra parte, già oggi è un passo avanti nella guerra informale e informatica contro l’Occidente. Su questo terreno, sta vincendo a mani basse.
Per questo è altamente ottuso, anche nelle forze dichiaratamente alternative al “sistema” (espressione che rischia di non significare più nulla), seguitare ad aderire agli schemi interpretativi egemonicamente imposti, limitandosi a fare il tifo per una o l’altra delle “squadre” in campo, nella finzione di una contesa che invece, nei suoi tratti concreti e decisivi, si gioca su tutt’altro piano.
Le classi dirigenti europee si stanno preparando a contrastare possibili dissensi di massa e movimenti popolari non gestibili tramite diversivi e manipolazioni culturali. D’altra parte, hanno una pesantissima responsabilità nel successo del fascismo montante.
Sui margini dell’Occidente e del Vecchio continente i rischi che questa tendenza implica sono ancora più grandi, dato che queste aree del “primo mondo” (come si definiva un tempo) sono state e sono ancora in qualche modo sottoposte a un pesantissimo colonialismo interno.
Se si osservano da vicino le zone marginali e impoverite degli USA e dell’Europa, è facile intravvedere dinamiche e fenomeni socio-culturali che si somigliano molto. Tanto per fare un esempio letterario, leggendo da poco il bel romanzo di Barbara Kingsolver Demon Copperhead, mi hanno colpito molto le pagine in cui si descrive la relazione asimmetrica tra centro e margini, tra la parte civile, moderna e urbana degli USA e le aree decentrate, poco urbanizzate e decadenti del paese. Interi passaggi potrebbero essere riferiti alla Sardegna, con pochissimi adattamenti.
Ma lo stesso discorso vale per altri margini europei e italiani. L’Italia è di per sé un margine, un paese arretrato, vecchio, in declino da decenni. Ma ha anche una sua rilevanza strategica e un’economia non ancora devastata. È un luogo ideale per esperimenti politici. Da tempo. Spesso sono i margini di questo margine a subire le peggiori conseguenze. La Sardegna è appunto uno di questi.
Cosa ne sarà di noi in questi tempi di corsa agli armamenti e di militarismo imperante è difficile dirlo, ma è alta la probabilità di conseguenze spiacevoli. Ospitiamo già delle pesantissime servitù militari, niente lascia pensare che verranno presto dismesse solo perché così vorrebbe una parte cospicua dell’opinione pubblica sarda.
Più in generale, nell’isola sarà ancora più difficile promuovere con successo un processo di democratizzazione e di emancipazione collettiva, a livello produttivo, sociale, culturale e politico. In questo senso, parteggiare per una delle destre in campo a livello internazionale, o farsene addirittura portavoce, come fa molta sinistra sarda, sulla scia di quella italiana, è un errore oggettivo e, in Sardegna, doppiamente grave.
Bisogna sottrarsi all’agenda stabilita dalle élite dominanti a tutte le latitudini e recuperare un orizzonte realmente alternativo, in termini teorici ma anche pragmatici.
Non basta nemmeno dichiararsi “né per Trump-Putin, né per von der Leyen”, finendo in realtà per appiattirsi comunque su una delle due parti presuntamente contrapposte. Prima era la NATO lo spauracchio usato per mettere fine a qualsiasi discussione. Oggi che questo spauracchio, improvvisamente, proprio a opera del suo maggiore azionista, viene relegato a un ruolo secondario, ci si arrampica sugli specchi per giustificare la propria simpatia per Putin e per lo stesso Trump (colui che “vuole la pace”, quindi benemerito).
Le posizioni militariste e favorevoli all’industria delle armi promosse dai vertici europei e da diversi stati si devono e si possono contrastare da sinistra. Senza accettare le stupidaggini a-storiche e puramente propagandistiche che continuano a presentare l’Ucraina – fatta coincidere col suo presidente, o con la sua caricatura di comodo – come il “cattivo” della vicenda. E senza cedere alle ossessioni geo-politiche, che sono la morte di qualsiasi riflessione democratica.
Le forzature e le menzogne (la Russia spende per armi e forze armate di più di tutti i paesi dell’UE messi assieme? meglio verificare) si contrastano con uno sforzo di verità, ma anche e soprattutto con elaborazioni forti, coraggiose, esposte nella sfera pubblica con argomenti convincenti, qualità narrativa adeguata e il giusto rispetto per l’intelligenza delle persone.
Al momento non c’è nulla di tutto ciò. Fatti salvi, in ambito italiano, sporadici e isolati interventi di critica e smascheramento. Sono necessari e spesso lucidi, ma non bastano a fare massa critica né a mobilitare forze culturali e sociali consistenti.
Su questo terreno, per una serie di ragioni anche contingenti (ma la cui radice è profonda), oso dire che la Sardegna è messa meglio dell’Italia. A patto che il fermento sociale e politico in corso non venga sacrificato sull’altare dei settarismi, dei personalismi e della mera tattica elettoralistica. È una magra consolazione, da sottoporre comunque alla prova dei fatti.
In definitiva, al momento straordinario va risposto in modo non ordinario. A tutti i livelli. Tenendo conto delle interconnessioni e della necessaria dose di solidarietà e di rispetto tra i popoli e le culture, fattore indispensabile a contrastare l’onda nera incombente.