La rivolta dell’oggetto e la decolonizzazione dell’immaginario tramite la musica

Esce un nuovo lavoro musicale, in Sardegna, frutto della collaborazione tra due artisti di primo piano della scena isolana e non solo, Mauro Palmas e Francesco Medda. Si intitola Meigama.

Meigama, quell’ora del pomeriggio, specie estivo, in cui tutto sembra sospeso, con l’aria che tremola e il cielo che splende in modo eccessivo. Un momento di stasi necessaria, ma non di resa definitiva. Paziente attesa del ritorno alla piena attività, occasione di riflessione, di riposo, di ricordi. Un particolare momento della giornata e anche dello spirito. Il titolo dunque è già in sé una sorta di indicazione dell’umore con cui porsi all’ascolto.

Ma non è certamente una prescrizione normativa. Come anche per i pezzi compresi nel disco, il titolo è l’evocazione di qualcosa che va al di là di una percezione precisa, è più un invito ad essere aperti a sensazioni diverse, o al sogno, a seconda del luogo, del tempo e della propria condizione soggettiva.

Se tutto questo suona complicato o troppo teorico, non lo è invece il risultato complessivo del lavoro. Il disco, scaturito dell’inedito ensemble tra un virtuoso delle corde come Mauro Palmas e un eclettico artista dub come Frantziscu Medda, ha molti pregi sul piano squisitamente musicale e allo stesso tempo incarna una sfida culturale e per certi versi politica.

Fa un certo effetto (positivo) constatare che non tutto, in ambito culturale, si allinea alla tendenza conformista (al ribasso) o alle mode facili. Così è per i due autori di questo lavoro.

Le loro strade si incontrano dopo aver attraversato altre stagioni e aver sperimentato altre collaborazioni. Nota quella di Mauro Palmas con Elena Ledda, o la partecipazione a progetti collettivi come Sonos ‘e memoria. Frantziscu Medda da sempre affianca alle proprie produzioni da solista, come Arrogalla, progetti collettivi, dal duo con Claudia Aru nel progetto “Bentesoi”, fino alla recente formazione in trio, con Emanuele Pittoni e Francesco Bachis, nei “Malasorti” (il cui disco S’ardcity è una delle più belle e interessanti realizzazioni di questi anni, va detto).

Apparentemente, i due percorsi hanno poco in comune. Ma il bello dell’arte e soprattutto della musica è che la curiosità, la conoscenza e il talento, incontrandosi, possono sempre produrre qualcosa di nuovo e di stupefacente, al di là dell’ipotetica difficoltà iniziale.

In questo caso, i livelli di difficoltà sono molteplici. Non solo dal punto di vista tecnico-esecutivo, ma anche da quello del repertorio musicale a cui attingere e da quello del risultato estetico finale.

Il rischio di generare una giustapposizione forzosa, esclusivamente sperimentale, tra sonorità eterogenee – magari riuscita sul piano meramente tecnico ma fredda, fine a se stessa – era altissimo. Probabilmente, se non si trattasse di due professionisti di ormai consolidata esperienza, tale rischio forse sarebbe risultato fatale. Al di là dell’intesa artistica, va anche dato atto che è stato fatto un gran lavoro di calibratura e di mixaggio.

Il fatto di attingere al repertorio musicale tradizionale sardo costituiva un ulteriore pericolo: quello della reiterazione stereotipata di moduli e temi abusati. Il pericolo è stato scongiurato tramite un lavoro di rielaborazione e di riformulazione eseguito con rispetto e senso della misura, ma senza timidezze o dogmatismi. Valga per tutti la riproposizione al modo minore di alcuni temi tipici della musica sarda di tradizione orale, come l’accompagnamento del ballu sèriu o passu torrau.

La mescola finale tra i suoni mediterranei dei liuti e delle mandole e i campionamenti elettronici è qualcosa di più della somma dei diversi elementi. Ci restituisce un’opera difficile da definire in termini scolastici, ma ricca e potente, evocativa, a tratti perturbante. Un perturbante che è anche rivelatore e liberatorio.

Avere alle spalle una lunga frequentazione col lavoro in squadra ha certamente aiutato non solo a realizzare l’opera ma anche a darle una forza e un senso compiuti, prima di tutto sul piano estetico, come detto.

Il disco va assaporato. Per chi conosce la Sardegna e i suoi luoghi, l’effetto evocativo sarà immediato. Ma è solo uno dei livelli di ascolto possibili. In realtà i pezzi realizzati da Palmas e Medda possono risultare affascinanti anche, e per certi versi soprattutto, se non si hanno riferimenti concreti troppo precisi, in modo tale che la libera associazione di idee e immagini possa andare per conto proprio.

In questo senso, benché si tratti di un’opera precisamente e dichiaratamente “situata” (basti pensare alla lingua usata, il sardo), ha un respiro del tutto universale, una natura fin da subito e senza indugi meticcia, ibrida, sovralocale. I materiali sonori utilizzati sono di provenienza piuttosto varia e comprendono sia suoni ambientali, sia voci e musiche di varie parti del pianeta, assemblati poi non in termini di compiacimento auto-referenziale, ma in considerazione del risultato estetico finale.

La consapevolezza del proprio punto di vista, del proprio “centro di gravità” (più o meno permanente), può consentire di aprirsi al mondo con la propria voce e la propria creatività e di sentire proprie anche altre voci, altre realtà sonore. È uno scambio alla pari, creativamente non vincolato.

Il senso politico sta proprio nel rivolgersi alla “polis”, alla collettività umana di riferimento, in modo propositivo, coraggioso, indicando una possibilità di comunicazione che coniuga appartenenza al proprio luogo e al contempo al mondo, ma senza negare nessuna delle due condizioni.

È una sorta di “rivolta dell’oggetto”, a partire dal rifiuto dei cliché paralizzanti, dell’auto-declassamento “dialettale”, banalmente esotico. All’opera non si addice del tutto, dunque, nemmeno l’etichetta di world music, che si sarebbe tentati di affibbiarle di primo acchito. Ma le classificazioni tassonomiche troppo rigide possiamo lasciarle da parte, a vantaggio del semplice piacere dell’ascolto.

Che, nel caso di Meigama, è altamente consigliato. Sia nella sua veste discografica, sia nella sua rappresentazione dal vivo, che si arricchisce della duttilità e della capacità di improvvisazione dei due musicisti e consente una forma di ascolto ancora più carnale e coinvolgente. Non mancheranno le occasioni, o almeno questo è l’auspicio (visti i tempi, la prudenza è d’obbligo).

Resta il plauso doveroso ai due autori e a tutto lo staff che ha lavorato a vario livello per la riuscita dell’opera, compreso il sostegno fornito da enti culturali e realtà associative diverse, a ulteriore smentita dello stereotipo sull’incapacità tutta sarda di cooperazione. A àteros annos!

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