Il feticcio dell’insularità in costituzione, usato come diversivo vantaggioso per la politica coloniale sarda, sta cominciando a rivelare la sua natura ingannevole.
Per tenere in piedi questa fiction tanto a lungo sarebbero stati necessari interpreti all’altezza. Invece sono sempre e ancora loro, gli immarcescibili Riformatori di Michele Cossa and friends, a recitare la parte dei protagonisti.
Gente che fa politica ai massimi livelli da molti anni, che sta dentro le istituzioni, i consigli di amministrazione, che ha piazzato i suoi un po’ in tutti i posti che contano, eppure si spaccia ancora e continuamente per anti-casta, fuori dai giochi, benemeriti paladini di nobili cause che nessun altro vuole promuovere.
In tutto ciò, i Riformatori si sono sempre giovati della complicità dei mass media, che hanno seguitato a prenderli sul serio, a dar loro tutto lo spazio che chiedevano, che hanno continuativamente promosso, più o meno esplicitamente, le loro fantasiose iniziative. Qualcosa che somiglia di più alla propaganda, che all’informazione.
Non ricordo di aver mai letto o almeno intravisto un articolo non dico apertamente critico, ma almeno dubbioso, sul conto di questa strana entità politica. E lasciamo stare vere e proprie inchieste. Almeno fino ad ora. Magari qualcosa cambierà.
Ad ogni buon conto, tornando al tema “insularità in costituzione”, per rispondere all’ennesima puntata di questa stanca e ripetitiva telenovela, mi limito a riportare quel che scrive Andria Pili su FB.
“Le specificità della Sardegna, è la convinzione che muove la nuova azione di sensibilizzazione, non possono più essere causa di mancato sviluppo ma devono essere il punto di partenza per una rinascita dell’intera isola”. In questo passaggio, tutta l’ideologia della classe politica sarda, unita trasversalmente nel riconoscimento costituzionale della “condizione di insularità”. La Sardegna è sottosviluppata* a causa della propria natura (in questo caso, la geografia); non è in grado di svilupparsi per propria iniziativa, a causa di questa tara (“grave e permanente svantaggio naturale”); per far sì che la Sardegna si sviluppi economicamente, malgrado la sua natura, è necessario un intervento perpetuo dello Stato. Le cause politiche ed economiche del sottosviluppo economico sardo sono rimosse, in quanto – se prese in considerazione – dovrebbero proprio puntare il riflettore anche sul rapporto tra lo Stato centrale, la classe politica “regionale” (cioè loro, gli eterni ignari e poveri eroi del popolo sardo, privi di responsabilità contro il destino cinico e baro che va contro il loro operato) e il capitale.
*L’uso dell’espressione “mancato sviluppo” invece di “sottosviluppo” è molto interessante, se lo inquadriamo entro questa ideologia. Mi viene in mente l’economista marxista Paul Baran, che distingueva tra “non sviluppo” e “sottosviluppo”: i Paesi occidentali (o sarebbe meglio dire le aree centrali del capitalismo mondiale) non sono mai stati sottosviluppati, bensì “non sviluppati”; il sottosviluppo, invece, non è un “punto di partenza”, una condizione originaria, ma il prodotto dello sviluppo capitalistico, il risultato della storia delle relazioni tra i Paesi del Centro e quelli ridotti a una posizione periferica entro questo sistema. L’idea dei consiglieri regionali sardi, esclude proprio un ragionamento sulla subalternità sarda, sul posizionamento della Sardegna entro una rete di relazioni economiche e della funzione che il sottosviluppo svolge per i profitti di qualcuno, per il mantenimento di rapporti di potere tanto interni quanto esterni: è la solita solfa vittimista e patetica del “grido di dolore” di una Sardegna Calimero (“la regione più penalizzata”), che ricerca l’attenzione di uno Stato (“sordo”, “ci ignora”) che l’avrebbe abbandonata.
L’insularità in costituzione, come scritto e argomentato varie volte anche su SardegnaMondo (qui, qui e anche qui, tra le altre), è sì una trovata a suo modo geniale, almeno nel senso dell’efficacia comunicativa, ma è allo stesso tempo, nel merito, un espediente cialtronesco e pericoloso. Per altro, non ha la minima possibilità di arrivare in porto, come ora sta emergendo.
Naturalmente, che non se ne faccia niente è un’ottima notizia. Solo che è una notizia che doveva restare nascosta ancora per un pezzo. Invece la cruda verità sta venendo a galla. Sarà molto difficile reggere la parte ancora a lungo, per i nostri esimi “insularisti”. Bisogna inventarsi qualcosa.
Dato che non hanno certo il problema della coerenza e delle remore etiche, arrivati al punto morto in cui si trovano, niente di meglio che lanciare la palla ancora più lontano, fuori dal campo, e modificare le regole del gioco a cui dichiaravano di giocare.
Lo stesso Michele Cossa arriva a parlare, in tono minaccioso, di “Sardexit”, se il governo non accoglierà le richieste di patrocinio di questa causa (persa).
Bello, il neologismo. Non originalissimo, ma a suo modo efficace. Sardexit. Una parola vuota, senza alcun significato, senza referente concreto.
In cosa consiste, infatti, questa minaccia? Davvero il governo italiano crederà che, se la Regione Sardegna non otterrà l’inserimento dell’insularità in costituzione, l’isola si separerà formalmente dallo Stato italiano? Ve l’immaginate Mario Draghi che, nell’apprendere di questa presa di posizione di Michele Cossa, precipita nel panico, convoca i suoi collaboratori, riunisce il Consiglio dei Ministri, interviene in Parlamento. O il presidente Mattarella che, terrorizzato, invoca l’intervento tempestivo dei presidenti di Camera e Senato e invia un messaggio motivato al Parlamento? Per non parlare dei servizi di intelligence, delle forze armate e delle forze dell’ordine: tutti in stato di massima allerta.
Di cosa diavolo stiamo parlando? Davvero i Riformatori e i loro sodali di tutte le forze politiche coloniali rappresentate nel Consiglio regionale (proprio tutte, M5S compreso) pensano di avere una dose sufficiente di credibilità, in questa partita? E com’è possibile che le direzioni degli organi di informazione sardi ritengano di poter ancora intortare l’opinione pubblica con queste scempiaggini?
Sono quesiti che dobbiamo porci, perché attengono al problema generale della democrazia in Sardegna, ai suoi meccanismi, alla sua reale consistenza.
La questione dell’autodeterminazione democratica non è un’arma di distrazione di massa. È invece la questione decisiva del presente e del futuro dell’isola. Ad essa sono legati gli esiti di tutte le partite strategiche – vere, non fittizie – che ne articolano l’economia, i rapporti sociali, la possibilità di aspirare a un livello di vita dignitoso e libero per tutte le persone che vivono o vivranno in Sardegna.
Usare strumentalmente, in modo così superficiale, la prospettiva dell’indipendenza è un gravissimo torto all’intelligenza di tutte le persone sarde (di nascita o di elezione), alla storia, alle istanze di emancipazione presenti nello scenario dell’isola (ma non nel Palazzo). È una buffonata offensiva che da sola dovrebbe costituire motivo di licenziamento in tronco da qualsiasi ruolo pubblico di chiunque se ne faccia portatore/trice.
L’unica sardexit auspicabile è il distacco definitivo della Sardegna dalla politica gretta, servile e subalterna rappresentata da tali imbarazzanti figuri. Prima o poi ci sarà il redde rationem, anche elettorale, quali che siano i sotterfugi, i trucchi sleali e le trovate diversive che metteranno in campo. Con la conseguenza auspicabile dell’esclusione permanente dalla scena pubblica di tutta questa marmaglia di mediocri arrivisti, maneggioni ignoranti, podatari rapaci che ha ammorbato fin qui la politica sarda contemporanea. Mi piacerebbe proprio esserci, quel giorno.