Il mondo culturale sardo è ricco e articolato, produce molto, ma molto di ciò che produce non buca il filtro fitto della comunicazione di massa né attrae gli studi e la ricerca. Specie la cultura popolare è regolarmente minacciata di essere ridotta a mero folklore anodino. Invece là fuori c’è tutto un mondo di creatività, di talento e di idee da conoscere e valorizzare.
In questo caso vorrei parlare di libri.
Ne escono sempre molti, in Sardegna. In Sardegna e/o di autori e autrici dell’isola. Forse ne escono troppi. Almeno rispetto alla platea che ne fruisce, sempre troppo poco consistente (ma in Sardegna un po’ più consistente che in molte parti d’Italia).
D’altronde autrici e autori dell’isola continuano a produrre e non mancano mai esordi interessanti. Ne segnalo almeno due, di quest’anno: Danilo Lampis, Essere giovani non è una scusa, Castelvecchi (che non ho ancora letto, ma lo farò) e Giovanni Gusai, Come in cielo, così in mare, SEM (che ho letto e consiglio senz’altro di leggere). Si tratta di una nuova generazione che si affaccia al mondo della narrativa e più in generale della narrazione della e sulla Sardegna, portandoci dentro uno sguardo diverso, attuale, calato in una realtà che non coincide affatto con gli stereotipi e le categorie sclerotiche a cui siamo abituati.
Due esordi usciti con editori non sardi. Anche su questo andrebbe forse fatta una riflessione, dato che le case editrici in Sardegna non mancano. Scontano probabilmente la difficoltà a dotarsi di strutture professionali adeguate (che costano molto) e quella a imporsi su un mercato come quello italiano, basato su un ristretto bacino di lettori e lettrici nonché dominato da un oligopolio robusto (che nel settore decisivo della distribuzione somiglia molto a un monopolio).
Sono tutte questioni su cui varrebbe la pena soffermarsi.
Le prendo un po’ di traverso, evocandole senza pretendere di esaurirle, parlando di un altro esordio letterario, fresco fresco, quello di Michele Atzori, aka Dr Drer. Il libro si intitola Giornata avara ed è un’auto-pubblicazione (ne vedete la parte superiore della copertina, in cima al post).
Michele Atzori è noto come frontman dei CRC Posse e come autore di testi canori. La sua è una carriera ormai lunga, con una certa evoluzione nei risultati formali ed estetici fino alle produzioni degli ultimi dieci anni, decisamente apprezzabili sotto molti aspetti (ammetto di essere un fan, mi limito a dire questo).
Che potesse avere un certo talento narrativo era intuibile, conoscendone la capacità di scrittura, sia pure in un contesto mediatico diverso. Il genere dei CRC Posse, per chi non li conoscesse, è di difficile definizione, perché mescola e strizza l’occhio a varie tipologie espressive, dallo hip hop al reggae, dal dub alla canzone d’autore, con frequenti escursioni nel campo della tradizione canora e poetica sarda.
Ci vuole un certo talento a coniugare stili musicali diversi e al contempo farne una limpida presa di posizione poetica su temi complessi, duri, molto contemporanei, oppure su vicende del passato più o meno recente poco note ma emblematiche.
Naturalmente, niente garantisce che da queste forme espressive si possa passare con naturalezza e impunemente alla narrativa. Evidentemente consapevole di questo, Su Dotori (com’è anche conosciuto Michele Atzori) non ha corso il rischio di fare il passo più lungo della gamba. Ha messo sulla pagina le sue memorie personali, il racconto delle sue avventure, dei suoi incontri, delle sue esperienze lavorative, artistiche, politiche. E lo ha fatto non in una narrazione cronologicamente ordinata e lineare, tipo romanzo auto-biografico, bensì in una serie di storie, aneddoti, flashback e reminiscenze assemblati sulla base di alcuni fili conduttori o di parole d’ordine.
Una serie di racconti, insomma, il cui senso senso riconduce quasi sempre a tematiche più generali, a un quadro d’insieme che mette in consonanza fatti ordinari (o anche straordinari) della vita con questioni politiche di ampia portata, con la storia sarda contemporanea, con le dinamiche delle controculture.
Lo stile impiegato da Michele Atzori è un tributo al racconto orale, quello che avviene nei ritrovi conviviali, negli incontri tra amici, al tavolino del tzilleri. Ma con tutta la finezza stilistica e tutta la sensibilità estetica che servono a trasformare il racconto orale, la parlata spontanea, in narrazione letteraria.
Non è un risultato facile. Potrei citare alcuni nomi della letteratura contemporanea che possono essere presi come punti di riferimento o come esempio di questa modalità stilistica. Che ne so, il Salinger del Ricevitore nella segale, o un Chuck Palaniuk, o un Tibor Fisher (così, a memoria, senza nemmeno fare troppa mente locale; sicuramente, pensandoci, vi verranno in mente altri esempi). Possono sembrare termini di paragone molto impegnativi. Tuttavia, non me li rimangio.
Perché va detto chiaramente che Michele Atzori, pur senza il supporto di una struttura editoriale propriamente detta, è riuscito nell’impresa di scrivere un libro vero, compiuto, divertente, ricco di spunti e dai vari livelli di lettura. E linguisticamente affascinante.
Senza porsi tropo il problema di che lingua usare, Su Dotori mescola abilmente italiano, gergo urbano (di Cagliari), sardo e altre lingue ancora. Senza vezzi da ostentatore di plurilinguismo, ma mettendo tutto al servizio del racconto.
Pur essendo una serie di racconti auto-biografici, non è mai l’autore a stare sul proscenio, in primo piano. È sempre la storia, a prevalere. Tratto tipico dei grandi narratori e delle grandi narratrici, non sempre adeguatamente coltivato dalla narcisistica ed elitaria letteratura italiana (o in italiano) contemporanea. Forse, con qualche responsabilità dell’ambito editoriale.
Da un lato, può essere un peccato che questo libro non sia stato pubblicato da alcun editore. Sappiamo che questo fatto lo espone ad alcune limitazioni (per esempio, difficilmente lo troverete in biblioteca). Però è anche vero che Michele Atzori, con questa scelta, si è garantito il totale controllo sulla sua opera, non solo in termini di forma e contenuto, ma soprattutto in termini di distribuzione e di ricavi.
Chiunque abbia pubblicato libri sa quanto è grama la vita di scrittori e scrittrici, da quante variabili estranee al loro controllo dipende il successo o l’insuccesso delle loro opere, quanto poco ne ricavino sul piano economico (se ti va bene, ma molto bene, il 10% sul prezzo di copertina, quasi sempre meno; che per altro vedrai, forse, dopo molti mesi; il forse è molto grande, in troppi casi). Autori e autrici sono il proletariato del mondo editoriale, non i padroni né i primi destinatari del valore economico prodotto dal loro lavoro.
Certo, pubblicare con editori veri (vade retro pseudo-editoria a pagamento!) ha i suoi vantaggi, da molti punti di vista. Almeno sulla carta. Un po’ meno nella realtà. Ma qualche vantaggio c’è sempre. Almeno in termini di riconoscibilità e di certificazione professionale del proprio lavoro. Spesso, non sempre, anche di cura e di qualità. Tuttavia non mi sento di condannare la scelta fatta da Michele, soprattutto in considerazione che il suo è un esperimento, anche piuttosto avventuroso. In futuro, chissà.
Il libro è molto divertente e offre davvero parecchi spunti di riflessione. Non voglio nemmeno sfiorare il rischio di spoiler, quindi lascio a chi leggerà il gusto di scoprire cosa c’è dentro. Dico solo che merita di essere letto (e pazienza se vi imbattete in qualche refuso o in qualche sgrammaticatura, vera o apparente che sia: non ne mancano mai nemmeno nei libri delle grandi case editrici).
Così come merita molta più attenzione e molta più considerazione tutta la controcultura e la cultura popolare in Sardegna. Cultura popolare che comprende sia le manifestazioni legate alla tradizione, sia quelle che declinano in forma locale movimenti e forme espressive internazionali. A volte i due piani di intersecano e si intrecciano, persino.
Se consideriamo che l’entità culturale che risucchia più risorse, annualmente, in Sardegna, è il Teatro Lirico di Cagliari e se pensiamo ai vari festival letterari e alle altre manifestazioni finanziate e patrocinate dagli enti erogatori di fondi (amministrazioni pubbliche, Fondazione Sardegna), è facile constatare che una bella fetta di produzione culturale isolana resta piuttosto esclusa da tutto ciò. È un po’ nel destino inevitabile di tutte le culture popolari e tanto più delle controculture. Ma forse in Sardegna c’è anche un’incrostazione ulteriore a renderle opache, poco percepibili, misconosciute, sottostimate.
È come se tutto questo mondo variegato di creatività, talenti, estetiche risultasse minaccioso per un ordine socio-culturale e dunque politico basato in larga misura sulla subalternità, sulla condizione provinciale e tributaria dell’isola, anche in campo culturale, a partire dall’ambito linguistico.
I racconti di Michele Atzori e i temi che portano, esplicitamente o implicitamente, alla luce sono un bel granello si sabbia nell’ingranaggio rodato della normalizzazione del gusto e dei consumi culturali delle persone sarde.
Tanto più duro da far saltare via o da ignorare, quanto più è solidamente efficace sul piano espressivo, riuscito sul piano narrativo.
Non c’è alcuna concessione al didascalismo, nelle pagine di Giornata avara, nemmeno dove l’autore si sofferma a spiegare premesse, circostanze e contesto dei fatti narrati. Circostanze e contesto che spesso sfuggono ai più, dato che non godono di buona stampa né attraggono l’attenzione del mondo intellettuale mainstream.
Tanto più preziosa quest’opera, dunque; e tanto più meritevole di essere conosciuta, letta, commentata.
A àteros annos, Su Doto’!
Duncas tocat andare in “ambulatoriu”, dae su Dottore Atzori po ddu podere comporare?
Tocat de preguntare a issu, a Su Dotori. Creo chi in custas dies at a fàere presentatziones a giru. Sas noas las agatas in sos giassos social suos.
Condivido la presentazione di Omar Onnis! Lo consiglio, da amica e fan di Dr Drer e CRC POSSE, visti sia in Sardegna che all’estero, ma anche da persona che grazie a questo libro ha ricordato o scoperto storie passate. In più, già dal primo racconto che dà il titolo al libro, ci si fanno delle belle risate.