Insularità: equivoco storico, falso problema e diversivo politico

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In un articolo sul blog Arrexini² Andria Pili torna sulla questione “insularità in costituzione”, analizzandone le premesse e la consistenza storica.

Un intervento chiarificatore di molti degli equivoci che aleggiano intorno a questa battaglia politica elitaria, portata avanti da un comitato molto attivo e alquanto influente, nonché sostenuta dall’intero arco politico istituzionale, dai mass media e da una congerie piuttosto trasversale di interessi costituiti.

Ho già affrontato la questione io stesso, su SardegnaMondo (qui e qui), e non posso che confermare le riserve già espresse.

In questo caso vorrei affrontare una delle argomentazioni di Andria Pili e provare a problematizzarla ulteriormente.

Applicando l’approccio “istituzionalista” alle vicende socio-economiche dell’isola, Andria Pili destituisce di fondamento l’assioma dell’insularità come condizione di oggettiva, permanente e insuperabile debolezza economica, dentro i processi produttivi e di scambio contemporanei.

Su questo punto sono pienamente d’accordo. Non c’è dato, indice, valutazione obiettiva che possa suffragare la pretesa di ricondurre i problemi strutturali della Sardegna odierna al semplice fatto geografico di essere un’isola.

Per altro un’isola sì relativamente più lontana delle altre dal continente, ma pur sempre dentro un contesto storico-geografico molto concentrato, rispetto alle dimensioni planetarie, come quello mediterraneo.

Ed anche relativamente alle dimensioni, la Sardegna non può essere annoverata tra le piccole isole. Non nel bacino mediterraneo, ma nemmeno su scala mondiale.

Esistono realtà insulari decisamente più piccole e molte di queste sono stati sovrani. La loro condizione socio-economica e politica è eterogenea. Non esiste una regola, non esiste alcuna costante.

Sembra dunque di poter sostenere che la condizione insulare, di per sé, non sia decisiva, o quanto meno non sia la sola di cui tenere conto.

Tanto più se consideriamo, come fa Andria Pili nel suo pezzo, la natura della produzione, delle comunicazioni e degli scambi del mondo odierno.

Discorso che si fa più problematico per le epoche precedenti quella contemporanea.

Preciso subito che purtroppo non disponiamo ancora di una mole di studi e ricerche tale da darci un quadro generale sufficientemente articolato e approfondito della storia economica dell’isola.

Anche in questo senso andrebbe fatto uno sforzo sistematico, possibilmente interdisciplinare, per colmare le lacune che rendono ancora così aleatorio ogni tentativo di ricostruzione storiografica profonda ed esaustiva delle vicende sarde.

Del resto, per quanto difficile, oggi siamo in grado di conoscere molto di più e molto meglio il nostro passato, anche nei suoi aspetti materiali, grazie alle acquisizioni di metodo e di tecniche che rendono disponibili, misurabili, conoscibili riscontri in passato inaccessibili, in campo archeologico, demografico, paleontologico, paleobotanico, climatico, ecc.

Le fonti documentali, per quanto non sempre numerose, a seconda dell’epoca, comunque non mancano. Bisogna continuare a cercarle, anche fuori dall’isola.

Questo inciso è necessario – ed è necessario farlo spesso – perché è ancora forte la pretesa di una certa inconoscibilità come elemento costitutivo della storia sarda, in quanto appunto storia di una terra isolata, arretrata, estranea al corso principale degli eventi umani, silente, inerte nel tempo.

Una pretesa che è semplicemente una cornice ideologica, non il frutto consolidato e validato di un lavoro di studio e di ricerca.

Dando perciò per scontato che ci sia ancora molto da studiare, da chiarire e da ricostruire sui processi socio-economici sardi di tutte le epoche, vorrei provare a sottoporre a un’osservazione critica la presunta rilevanza della condizione insulare per le epoche precedenti quella contemporanea.

In altri termini, la domanda è: la rilevanza delle scelte politiche, dei rapporti di potere e dei modelli produttivi e distributivi era minore o maggiore in passato? e in che relazione era col fatto che la Sardegna fosse un’isola?

Nell’articolo di Andria Pili si assume che prima dell’epoca contemporanea il peso della condizione insulare potesse essere maggiore e addirittura decisivo.

La distanza dalle altre terre mediterranee, la difficoltà dei traffici (specie a causa della pirateria barbaresca e delle vicende belliche), la limitata produttività agricola, la debolezza del mercato interno sarebbero stati fattori determinanti di una condizione economica debole e subalterna.

È una tesi da dimostrare. E del resto alcuni tratti ascrivibili alla Sardegna medioevale e moderna non erano suoi tipici, ma la accomunavano, sia pure con le sue peculiarità, a molte altre regioni europee.

Se prendiamo gli elementi di cui disponiamo (notizie sui commerci sardi in epoca medievale e moderna, dati – spesso ipotetici o induttivi – su popolazione, forme di produzione, cultura materiale, ecc.), a mio avviso potremmo teorizzare un impatto molto forte delle forme politiche, dell’organizzazione sociale, degli interessi dei ceti dominanti sulla condizione economica sarda.

In definitiva, lo stesso approccio istituzionale può spiegare meglio di altri quadri interpretativi alcune caratteristiche di lungo periodo dell’economia sarda, al di là del puro dato geografico e dei fattori restrittivi di tipo climatico, geologico, orografico.

Per esempio sarebbe da valutare la funzionalità dell’organizzazione produttiva e sociale di epoca giudicale, sia rispetto ai modelli di produzione, accumulo e scambio imposti nel basso medioevo soprattutto da Pisa, sia rispetto al modello feudale imposto dalla conquista aragonese.

Modello feudale a sua volta in rapporto dialettico con la vocazione commerciale catalana, anch’essa presente sull’isola, in concorrenza con quella genovese.

Il feudalesimo nella sua declinazione iberica, importato così tardivamente nell’isola, ebbe o no un peso significativo sul piano della produzione, su quello del mercato interno ed esterno, su quello della regolamentazione giuridica in ambito economico?

Sappiamo che la Sardegna, al momento del passaggio della corona sarda ai Savoia, soffriva di numerosi e profondi problemi strutturali e infrastrutturali. Ma quanto essi dipendevano da situazioni di fatto sostanzialmente insuperabili (e in primis la condizione insulare) e quanto invece dalle dinamiche politiche e sociali dei secoli precedenti?

La sproporzione tra risorse della Sardegna, popolazione e condizione economica generale dell’isola fu presente nelle analisi degli osservatori interessati (pochi, a dir la verità) almeno dalla conclusione della Guerra di successione spagnola in poi.

Sia nel libello La Sardaigne Paranynphe de la Paix (1714), sia nelle analisi degli intellettuali di propensioni fisiocratiche della seconda metà del XVIII secolo (Cetti, Gemelli, Cossu, lo stesso Angioy), sia nella percezione degli osservatori stranieri ottocenteschi, la questione dell’insularità non era un fattore decisivo se non, a volte, in termini positivi.

Come sottolinea anche Andria Pili, per questa congerie di osservatori aveva senz’altro un ruolo più rilevante il clima, o il problema della malaria nelle zone costiere, o altre caratteristiche, spesso dipendenti dall’attività o dall’inattività umana.

Per alcuni era invece un fattore rilevante in senso negativo, in termini a volte impliciti a volte espliciti, la responsabilità dei governi.

Come ad esempio scrisse in una sua relazione, in modo molto lucido, il console francese nell’isola, nel 1816 (Braudel, 1979).

Il ritardo della Sardegna nel maturare un’economia dinamica di tipo capitalista moderno, a sua volta animata da una borghesia attiva e contrapposta alle strutture del potere di Antico Regime, non era dovuto tanto a fattori restrittivi di natura geografica, quanto, in modo molto più evidente, alla combinazione di modelli politici e produttivi sclerotici, chiusi, che privilegiavano l’estrazione parassitaria e la rendita.

La formazione di una borghesia locale aggiornata e propensa agli investimenti e anche ai necessari aggiornamenti politici e giuridici, come sappiamo, venne frustrata e infine bloccata dalla reazione contro la richiesta di riforme di fine Settecento, sfociata nella vicenda rivoluzionaria.

Da lì il destino dell’isola appare scritto. La sua condizione di possesso oltremarino da sottomettere e conformare ai disegni di forze e interessi esterni divenne definitiva, anche con l’avallo della classe dominante locale.

Condizione che andò peggiorando con l’unificazione italiana e la definitiva periferizzazione della Sardegna.

Per quanto la condizione insulare sia rilevante e per certi versi decisiva nella formazione della sua stratificazione storica peculiare, tale condizione non è stata sempre e solo un problema, o una fonte di radicale isolamento, di separatezza assoluta dalle correnti della civiltà mediterranea ed europea.

Né ha costituito sempre, di per sé, un limite. Anzi, a ben guardare, considerato che le vie di comunicazione terrestri sono state per molti secoli le meno agevoli e sicure, l’avere a disposizione il mare come principale collegamento col resto del mondo in molti casi è stato – o sarebbe potuto essere – un vantaggio.

In questo quadro interpretativo risulta dunque molto maggiore la responsabilità dei gruppi dirigenti delle varie epoche e anche il peso di vicende politiche generali, spesso di dimensione internazionale, rispetto alla mera condizione insulare.

Il che, se vogliamo, è un’ulteriore conferma, non certo una smentita, delle conclusioni a cui giunge Andria Pili riguardo l’epoca contemporanea.

Non esiste alcuna seria argomentazione storica e/o economica che giustifichi la richiesta di inserire l’insularità nella costituzione italiana e la pretesa che questa misura possa essere la panacea di ogni nostro male.

Tanto più che questa richiesta si basa sull’ostinato rifiuto di considerare l’orizzonte sardo in tutta la sua estensione.

Come se le nostre uniche possibili relazioni debbano essere, ora e sempre, quelle con la penisola italiana, e non invece con le sponde che ci circondano da ogni lato.

Come se il destino dell’isola, un’isola grande e dalle potenzialità largamente inespresse, potesse dipendere esclusivamente dalla generosa tutela di un governo esterno, il cui baricentro di interessi e di interventi sia posto altrove.

E questo, senza nemmeno considerare che, volendo, nell’ordinamento italiano esiste già uno strumento giuridico utile allo scopo sbandierato dai promotori di questa misura: l’art. 13 dello Statuto regionale sardo; esso stesso fonte normativa di livello costituzionale.

Quali che siano le motivazioni e le intenzioni dei promotori dell’inserimento del principio di insularità nella costituzione italiana, anche ammettendo la loro buona fede, non possiamo non vedere quanto esso sia, se va bene, una misura di natura puramente formale, non necessaria e ampiamente fuorviante davanti a un problema di dimensioni storiche e strutturali.

I suoi significati politici e le sue possibili conseguenze pratiche vanno nel verso dell’ulteriore dipendenza e della certificazione della subalternità della Sardegna come condizione strutturale permanente.

Esiti che non sono affatto scritti nelle cose, né fondati su condizioni di fatto immutabili, bensì, in misura molto maggiore, dipendenti dalla volontà degli esseri umani.

1 Comment

  1. Nella mia riflessione ho scritto che il ruolo della geografia è stato tanto grande quanto più andiamo indietro nel tempo; il ruolo delle istituzioni, al contrario, aumenta più ci avviciniamo ai nostri giorni. Questo vale per ogni Paese. Se consideriamo la Sardegna, chiaramente, geografia significa anche insularità e l’influenza negativa svolta dalla distanza, dalla posizione nel Mediterraneo – che la rese vulnerabili alle incursioni “barbaresche” per diversi secoli tanto da incidere in maniera significativa nel rapporto che i sardi hanno con il mare (a differenza di altri isolani, come i còrsi e i siciliani) – dalle dimensioni necessariamente ridotte dell’economia e dai rapporti con l’esterno più difficili (e quasi sempre da parte degli altri verso i sardi che il contrario) con conseguente difficoltà nel recepire le innovazioni prodotte altrove etc.

    La Sicilia, per esempio, è stata tra le regioni più urbanizzate (Palermo fu tra le città più popolate d’Europa) e inserite nel commercio mediterraneo. Molto interessante fare un confronto con la Gran Bretagna, che – si vedano i dati di Maddison su questo – nel Medioevo è stata tra le aree d’Europa più sottosviluppate; pur essendo un’isola, si distingueva dalla Sardegna appunto per non subire periodiche incursioni e per la propria conformazione interna che – grazie ai suoi fiumi – le permetteva un sistema di trasporti capace di ovviare alla carenza dei trasporti su terra. Il mercato sardo è stato a lungo ristretto, dunque, anche al suo interno e – dato il timore delle incursioni etc. – sappiamo che i villaggi sardi tendevano a stare lontani dal mare e dai corsi d’acqua.

    Guardando all’epoca moderna si comprende di più l’intreccio tra geografia e istituzioni. Segnalo un famoso articolo di Acemoglu-Robinson-Johnson (“The rise of Europe: atlantic trade, institutional change and economic growth”, 2005) in cui viene fatto un confronto tra Spagna-Portogallo, Nord Italia, Inghilterra-Olanda: i due Paesi iberici avevano accesso all’Oceano Atlantico ma delle istituzioni estrattive; il Nord Italia aveva delle istituzioni inclusive (città) ma non avevano sbocco sull’Atlantico ed erano troppo piccole per poter avere le risorse fiscali necessarie per proteggere i propri commerci; Inghilterra e Olanda avevano sia accesso all’Oceano Atlantico che delle istituzioni inclusive che hanno permesso la creazione di una borghesia capace non solo di arricchirsi ma anche di contare sempre di più politicamente, al contrario dei paesi iberici in cui le ricchezze finivano per ripagare i creditori (credo tedeschi e italiani) che finanziavano le loro guerre. Dunque, in questo quadro, la Sardegna era doppiamente sfigata, essendo nell’orbita spagnola, con un sistema feudale e in mezzo al Mediterraneo Occidentale. Poi, ovviamente, la morale della storia è che seguendo questo intreccio possiamo spiegare come mai dei Paesi hanno avuto la rivoluzione industriale, alcune regioni hanno potuto recepirla e altri, come noi, no. Penso che geografia e istituzioni – se parliamo di storia economica e di comprendere le ragioni delle differenze di sviluppo – debbano essere lette insieme e tenendo conto di quanto aumenti/cresca la loro proporzione nel tempo, nel segnare il differente percorso economico dei vari Paesi.

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