Il ministro Franceschini (MIBACT) ha ufficialmente dato vita alla Fondazione che dovrebbe gestire il cospicuo patrimonio storico-archeologico di Cabras, Monte Prama e Tharros inclusi. Le polemiche che ne sono scaturite colgono solo aspetti superficiali e contingenti di un problema più ampio.
L’attenzione dei commentatori, in questi pochi giorni, si è concentrata molto sui nomi e sulle modalità di selezione.
Sui nomi, è evidente il criterio meramente spartitorio tra gruppi di potere, con contentini distribuiti un po’ a tutto l’arco della politica autonomista/coloniale sarda, compreso il centrosinistra (o una delle sue fazioni). Così si spiega la nomina, del tutto incomprensibile altrimenti, di Paolo Fresu. Che potrebbe anche rappresentare un vezzo del ministro in persona, d’altra parte: mettiamoci un sardo famoso (in Italia), possibilmente organico al PD. Poco cambia.
La vittoria tuttavia arride soprattutto al clan dei Riformatori (quest’incredibile entità ai confini della realtà, che di suo meriterebbe studi approfonditi) e alla fazione che fa capo al presidente Solinas. Del resto, sono loro che hanno investito molto in questo ambito e oggi hanno il controllo degli snodi relazionali e politici utili a conseguire i loro obiettivi. Gli altri (leggi, centrosinistra e soci, ma anche M5S) devono accontentarsi dei rimasugli, secondo la consolidata regola consociativa che presiede alla distribuzione di incarichi e prebende in tutti gli ambiti pubblici e para-pubblici dell’isola.
Un articolo di Vito Biolchini stigmatizza la mancanza di competenze dei nominati al CdA della novella Fondazione. Ma, mi chiedo, da quando la competenza è un criterio di selezione, in Sardegna? E non solo in ambito culturale. Basti pensare allo scempio della sanità pubblica. E poi, a dirla tutta, la penultima volta che Biolchini ha fatto appello alle competenze, ossia in occasione delle elezioni regionali del 2014, sostenendo la candidatura di Francesco Pigliaru e della sua squadra di professori, non è che ne sia venuto fuori nulla di buono. A oggi, è stata una delle più funeste esperienze di governo dell’isola, in epoca di autonomia.
Si parla della faccenda anche sul manifesto, con un pezzo che a sua volta enfatizza l’incongruenza delle nomine nel CdA e le ricollega a una deriva “identitaria” di cui sarebbero rappresentanti ancora e sempre i Riformatori e lo stesso presidente Solinas, in consonanza col gruppo di pressione NurNet, a sua volta vicino ai Riformatori e da anni impegnato nel tentativo di inserirsi nella gestione del patrimonio storico-archeologico in un’ottica turistico-commerciale.
Di identitario, in tutto questo, in realtà c’è poco. Se non una certa retorica che serve a dissimulare interessi molto meno idealistici. In ogni caso occorre precisare che non ha nulla a che fare con le forze che auspicano un processo di autodeterminazione democratica della Sardegna.
Addossare anche questi esiti all’indipendentismo sardo mi pare, oltre che scorretto, anche un bel servizio a favore della conservazione degli attuali rapporti di forza colonial-clientelari che dominano la scena. È necessario fare tutti i distinguo del caso, senza lesinare in pignoleria.
A di là di questo, tuttavia, mi pare che ancora una volta si sia perso di vista il vero fulcro problematico della questione. Che rimane quello a cui avevo dedicato un post qui su SardegnaMondo un mese e mezzo fa.
In quella circostanza, tra le altre cose, scrivevo:
Dove sta dunque il nodo evidenziato da questa presa di posizione governativa sui Giganti di Monte Prama? Sta nella discrepanza fatale tra le necessità collettive, sociali, politiche, democratiche della Sardegna e l’insuperabile condizione dipendente e subalterna dell’isola all’interno dello stato italiano.
L’ambito storico-culturale mostra questa relazione sbilanciata e penalizzante in tutta la sua portata, non perché sia più rilevante di altri, ma perché ha dei connotati simbolici potenti.
Chi deve raccontare, valorizzare, gestire il patrimonio storico-archeologico dell’isola? E in nome di quali esigenze e di quali finalità pubbliche?
Il problema è che tutta questa operazione ministeriale è un vero e proprio commissariamento dell’amministrazione regionale e locale e della politica sarda in generale da parte del Governo italiano su un settore strategico e simbolicamente decisivo.
Le tanto discusse nomine servono a tacitare la possibile contestazione di tale misura centralista, al contempo paternalistica e dispotica. Sarebbe importante invece sottrarsi alla trappola e aprire uno spazio conflittuale sul piano più rilevante e politicamente significativo della riappropriazione pubblica e collettiva del nostro patrimonio storico-archeologico.
Non in termini utilitaristici e privatistici, ma nel senso di pretendere crescenti responsabilità nella capacità di decisione sulla ricerca e lo studio, nella pianificazione relativa al reperimento e all’impiego dei fondi necessari, nella conservazione dei beni e dei siti, nella gestione e nella valorizzazione (che non è solo quella commerciale, sia chiaro), nella divulgazione culturale seria e rigorosa.
Non tutto questo riguarda la sfera delle competenze giuridicamente precisate, né il discorso deve essere inteso nel senso della sostituzione del centralismo statale con un centralismo regionale non necessariamente migliore. L’orizzonte è più ampio e attiene al tema dei beni comuni e della democrazia, molto più che a questioni identitarie o ideologiche. Si tratta di mutare il paradigma secondo cui concepiamo noi stessi, collettivamente, in relazione alla storia e al territorio, e a rovesciare il rapporto di forza che ci vuole perennemente condannati a non poter parlare in prima persona, al silenzio dei subalterni.
Se non inquadriamo questa vicenda, come altre partite strategiche, dentro tale cornice, saremo ancora una volta prigionieri di una gabbia fatta di diversivi, scontri tra bande, ripicche personali, ambizioni di bassissima lega, dipendenza. Una gabbia da cui non si esce facilmente, specie se si rinuncia a vederne le sbarre e a riconoscerne l’esiguità dello spazio.
Lo sforzo di lucidità, su questo problema storico, va preteso soprattutto e in primo luogo dagli/lle osservatori/trici e dagli/lle intellettuali, da chi ha competenze settoriali e politiche, da chi dovrebbe concorrere a costruire un diverso senso comune e una appartenenza collettiva meno scissa e passiva, meno subalterna, appunto, anziché cavalcarla per piccoli vantaggi personali o corporativi.
Emancipare lo stesso discorso su questi temi, decolonizzarlo, è un passo fondamentale per poterli affrontare in modo più libero e più efficace, in nome di una prospettiva finalmente liberante e realmente democratica, a cui troppo spesso si dichiara di aspirare ma che poi nella pratica si fa di tutto per scongiurare.
Caro Omar concordo.
Proprio l’altro giorno sul mio profilo facebook ho riportato il mio giudizio, che qui trascrivo:
la Fondazione è il capolavoro del ministro Franceschini che è riuscito a scippare tutto alla comunità locale (il Comune non ha, evidentemente, un ruolo significativo, se non quello di rappresentanza), la Regione ha fatto harakiri con due nomine non di alto livello (nessun giudizio sulle persone ma sul ruolo e competenza) di cui una messa lì per creare problemi all’attuale sindaco. Il Ministro governerà il tutto grazie alla presenza dell’unica persona con competenze ed esperienze specifiche (la rappresentante del Segretariato regionale). Anche il comitato scientifico vedrà il Comune con ruolo di rappresentanza. Il Comune è escluso dagli organi di controllo. Il Direttore sarà scelto dal Ministro (previo concorso internazionale – che abbiamo già visto come andrà a finire). E tutti i piani e progetti sono sottoposti all’approvazione del Ministero (in realtà del Ministro) che potrà bocciarli e sostituirli con i propri.
Prima decisione del Ministro mandare in giro le statue con disprezzo per la loro fragilità. Tutti contenti (qualche mese fa ci fu una rivolta per un viaggio necessario per il restauro – 100 km in andata e 100 km in ritorno, che era previsto) oggi felici per viaggi a migliaia di km (che sarebbero anche proibiti dalla normativa, ma si sa un ministro se ne può fregare).
Posso anche aggiungere, non l’avevo messo nel post per disattenzione, che ha fatto fuori anche la Soprintendenza a favore del Segretariato, mossa ormai consueta di Franceschini sempre più portato a centralizzare a roma la tutela per contrattare meglio con i poteri locali.
Però anche per il discorso ‘indipendentismo centra o no’ credo che qualche precisazione vada fatta. Penso anch’io che ci sia una parte del mondo indipendentista che è lontano da quelle posizioni e che cerca di fare un discorso critico, ma ci sono componenti che giocano molto su questi aspetti per lucrare tra indipendentismo e dipendentismo. Ti trascrivo il mio intervento su questo:
PSDAZ: l’art. 1 dello statuto del Partito stabilisce bene che l’obiettivo è l’indipendenza della Sardegna. Questo lo colloca a buon diritto nel fronte indipendentista. Poi che la sua politica lo sia o meno è un altro discorso. Resta un partito indipendentista, finchè un qualche congresso non modifichi lo statuto.
Muroni e Autodeterminatzione. Muroni è stato il leader e front man della coalizione Autodeterminatzione, che metteva insieme istanze indipendentiste e ‘autonomiste radicali’ (mi si passi il termine). Poi, la coalizione si è ‘liquefatta’ se Muroni ha scelto altre strade. Nell’ultimo anno, anno e mezzo, si è avvicinato al governo regionale (sponda sardista); il suo conivolgimento nel megaprogetto Archeologika nasce sia dalle sue indubbie qualità giornalistiche, ma anche dalla contiguità col governo regionale e, per me nazionale.
Riformatori. Sono un partito autonomista che, però, utilizza molto ispirazioni e linguaggi indipendentiste per solleticare il diffuso (genuino e sentito) sentimento indipendentista popolare; amplificato dalle attività della loro fondazione culturale (Nurnet) e dalla sua costola (La Sardegna verso l’Unesco) che propalano a livello culturale/politico le peggiori pseudo mitologie suprematiste (da Atlantide in giù).
Poi, c’è un altro mondo indipendentista che cerca di creare un discorso diverso, ma trova difficoltà a far sentire la sua voce e talvolta indulge sentimentalmente a non voler affrontare del tutto il problema di questo mondo politico opportunista.
Credo checi sia molta strada da fare, in tutti i sensi. Mi colpisce (o per meglio dire non mi colpisce) il silenzio, salvo eccezioni, dei colleghi, anzi pronti a congratularsi e tenersi buono il potere che sta elargendo, col contagocce un po’ di finanziamenti e in tempi di vacche magrissime è difficile che uno si dia coraggio, se non lo ha nel suo dna.
Definire l’esperienza di governo di Pigliaru una delle più funeste dell’epoca della Sardegna autonomista mi sembra un esercizio di semplificazione qualunquista, legittimo da parte Sua ma, a mio modo di vedere, molto miope, specialmente se paragonato al governo Pili e, massimamente, a quello tuttora in carica.
Tempo e spazio (non mio) non consentono a me di argomentare; Lei, piuttosto, potrebbe, posto che ne avesse ben donde.
Sparare nel mucchio è facile, ma non è detto che sia produttivo
Dato che ho parlato e scritto molto della giunta Pigliaru e delle sue pessime politiche, rimando a quelle sedi, per avere critiche più circostanziate e argomentate. In questo caso, si trattava di un breve accenno. Il cui senso, però, confermo e rilancio. Anche rispetto all’attuale disastrosa giunta Solinas quella guidata da Francesco Pigliaru è ancora in vantaggio, nella classifica delle peggiori giunte regionali sarde. Chiaro, Solinas e soci sono ancora in tempo per superarla. Spererei di no, comunque.
NOTA REDAZIONALE
Valentina Porcheddu, autrice del pezzo sul manifesto chiamato in causa nel post qui sopra, ha lasciato un commento in risposta al mio scritto, ma sotto il post sbagliato, ossia quello dedicato alla questione Giganti e relativa Fondazione il 20 maggio scorso.
Lo si può leggere qui, insieme alle mie controrepliche: https://sardegnamondo.eu/2021/05/20/i-giganti-della-discordia-colonialismo-culturale-passivita-politica-e-democrazia/#comment-984