Il lavoro culturale vittima dimenticata dell’emergenza coronavirus

La percezione comune del lavoro culturale è che si tratti di una sorta di hobby a cui sono dedite persone un po’ originali.

La produzione di contenuti, di senso, di bellezza, la condivisione di saperi, non sono percepiti come un vero lavoro.

Si ha un’idea piuttosto romantica della faccenda, anche condita di una certa invidia, a volte, verso chi pratica un’attività creativa nel variegato ambito della produzione culturale.

Che per lo più si tratti di fare una vita precaria, quasi sempre grama dal punto di vista economico e costellata di fatiche supplementari, delusioni, rinunce non fa parte della percezione diffusa.

E in ogni caso non esiste talento senza fatica, prestazione in pubblico senza preparazione e lavoro, risultato artistico, scenico o letterario senza sudore.

Nemmeno la più ordinaria delle presentazioni di un libro è l’evento banale che può sembrare.

Infatti in molti paesi le presentazioni dei libri sono spesso eventi a pagamento, ossia sono considerate una performance ulteriore e specifica, rispetto al lavoro di scrittura, di pubblicazione e di vendita. Ed è giusto così.

Chi pratica un mestiere culturale sa bene che molta parte del valore prodotto non si traduce pari pari in riscontro economico per chi produce cultura.

Faccio l’esempio di chi scrive libri. Il pubblico non sa, di solito, quale sia la percentuale di guadagno su un libro che arriva nelle tasche dell’autore/trice (quando arriva). Ebbene, per quanto possa sembrare sorprendente per qualcuno, tale percentuale va dal 6 al 10% del prezzo di copertina per copia venduta. Se si ha una idea di quanti libri si vendano annualmente (non si pubblichino, si vendano), il calcolo è presto fatto.

La maggior parte di coloro che scrivono per mestiere (cioè non come attività occasionale e accessoria) non camperebbe mai di tale mestiere, se non ci fossero altre occupazioni complementari (corsi, progetti scolastici, conferenze, ecc.) e/o un’altra fonte di entrate in famiglia (per chi ce l’ha, la famiglia e l’entrata). E non venderebbe che poche copie se non coltivasse costantemente il rapporto col pubblico (le presentazioni, oltre ad essere preziosi momenti di incontro, sono le circostanze in cui si vendono davvero i libri).

A questo meccanismo infernale non possono sottrarsi nemmeno coloro che, per qualsiasi circostanza, abbiano raggiunto un certo grado di popolarità, possibilmente al di là dell’ambito locale. Di Stephen King o J.K. Rowling ne esistono pochi al mondo.

Il discorso vale, mutatis mutandis, anche per altri ambiti culturali. Illustrazione e fumetto, recitazione, musica, arte, ecc. sono ambiti animati e tenuti vivi da un numero di professionisti o aspiranti tali che spesso restano nella penombra, rispetto alla percezione del grande pubblico.

I soldi che girano in tutti questi settori – per restare su un terreno prosaico – non sono molti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare. Per lo più ci si arrabatta. Anche quando non mancano talento, studio, pratica, disponibilità verso il pubblico.

Oggi proprio il rapporto diretto col pubblico è precluso. In vario modo. È precluso nella sua condizione più concreta e diretta, perché non si possono più fare eventi pubblici. È precluso nella sua versione mediata, perché sono chiusi librerie, biblioteche, cinema, teatri, musei, centri espositivi. Il consumo culturale è ridotto alle possibilità offerte dalle piattaforme di acquisto online, ossia non un gran che (anche sul piano etico e politico, ma è un discorso collaterale che in questa sede devo trascurare).

È un guaio grosso, anche perché non abbiamo idea di quando si risolverà.

In Sardegna siamo abituati ad avere a disposizione un notevole assortimento di eventi culturali grandi o piccoli, una produzione costante di contenuti e di senso, di condivisione e di arricchimento estetico e spirituale ad ampio spettro. Non solo nei centri principali, ma a un livello che definirei sostanzialmente capillare, comunque diffuso.

Benché si dica poco e non si abbia idea della sua reale rilevanza, questa è una condizione privilegiata con pochi termini di paragone, fuori dall’isola.

In proposito, è notevole che se si cerca “cultura in Sardegna” o “cultura sarda” su un motore di ricerca, la stragrande maggioranza dei contenuti e delle immagini proposte riguardino l’ambito demo-antropologico (folklore e costumi tradizionali) o l’archeologia. Una frazione importante ma minima di tutta l’enorme produzione culturale sarda (dalla musica in tutte le sue forme, alla letteratura, all’arte, allo spettacolo, al cinema, ecc.).

Manca – come si dice – una narrazione efficace della produzione culturale in Sardegna nel suo complesso. E di conseguenza è debole la sua percezione nel senso comune, nell’immaginario collettivo.

Non si tratta sempre e solo di sottovalutazione del lavoro culturale. Questa c’è, ma riguarda soprattutto la politica, che se va bene ha un’attenzione meramente clientelare verso la cultura e di norma la considera una variabile dipendente e una voce di bilancio secondaria e accessoria.

Per il pubblico, invece, si tratta – credo – più che altro di assuefazione (positiva) a una grande disponibilità di occasioni e di risultati, disponibilità che però non è ordinaria o consueta, né scontata.

Che non si possa dare nulla per ordinario o scontato in queste settimane lo vediamo bene. Tanto più vale in questo discorso.

Sono stati annullati o sono a rischio festival, rassegne, concerti, stagioni teatrali, la programmazione culturale dei comuni e delle associazioni. La filiera che collega chi produce arte, letteratura, spettacolo ai fruitori finali si è interrotta. E non sappiamo quando verrà ripristinata.

È un problema per tutta la cittadinanza, o almeno quella parte non piccola della cittadinanza che è culturalmente attiva. È un disastro esistenziale per chi fa un mestiere culturale.

In Sardegna non esiste una politica culturale degna di questo nome. Oltre all’elargizione, non sempre incondizionata, di finanziamenti, non c’è molto altro, a livello istituzionale. Soprattutto, manca nelle compagini che occupano i ruoli decisionali una visione prospettica, un orizzonte progettuale ad ampio respiro.

Se ci fossero stati, sarebbe stato possibile, forse, dotarsi degli strumenti straordinari tramite i quali, in questa fase, sostenere un settore strategico così grande e così vario.

Importante almeno quanto lo sport, che, a livello italiano, occupa molto di più gli spazi dei media e le preoccupazioni dei decisori istituzionali, specie nel suo livello di intrattenimento di massa (molto meno nel suo aspetto sociale diffuso).

In questa sede non posso e non voglio fare un discorso di analisi troppo complesso né mi azzardo a proporre soluzioni. Vorrei però far emergere il problema in tutta la sua portata. Sia nei suoi termini sociali (le tante persone private di fonti di reddito, compreso tutto l’indotto), sia nei suoi termini di perdita culturale generalizzata.

I palliativi esistenti – specialmente la Rete e le forme di interrelazione che essa consente – non possono sostituire l’ampia gamma di attività e produzioni oggi forzatamente azzerata, né garantire un reddito accettabile, sia pur ridotto, a chi di cultura vive.

Ma quello che si perde in quantità e qualità dei contenuti e in pratica culturale è un danno ancora peggiore. È come se si smettesse di allenare un organismo abituato a ricevere stimoli fisici intensi. In questo caso l’organismo sociale, o la sua parte più ricettiva in questo senso, hanno smesso di essere alimentati con ciò che lo rendeva vivo, attivo, fecondo.

Una situazione il cui protrarsi potrebbe risultare estremamente penalizzante. Non una delle perdite minori a cui andiamo incontro in questa crisi sanitaria e socio-economica mondiale.

Dovremo ripensarci, se e quando ritorneremo a vivere in una condizione di normali relazioni umane. E ripensarci in termini collettivi e propositivi. Pretendendo che la cultura – in senso ampio – non sia più data per scontata o considerata un vezzo elitario o una pratica da perdigiorno, tanto meno un’attività subalterna a gruppi di potere o addirittura organica ad apparati di dominio.

Dobbiamo pretendere invece che la cultura, in tutte le sue articolazioni, sia libera e diffusa, una componente fondamentale della vita di tutti i cittadini, che merita considerazione, riconoscimento sociale ed economico, centralità nelle scelte politiche generali.

L’auspicio è di poterne discutere presto di persona e non in una situazione emergenziale.

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