Oggi, 5 dicembre, sulla Nuova, si può leggere una corposa intervista di Giacomo Mameli a Luciano Marrocu, storico e scrittore, a proposito di Giovanni Maria Angioy.
L’occasione è l’uscita insieme al giornale, domani 6 dicembre, di una mia biografia inedita di Angioy.
Curiosa la scelta di intervistare in proposito non l’autore del libro in uscita, ma qualcun altro.
Curiosa, ma legittima. Avranno avuto le loro buone ragioni.
Nella circostanza mi colpisce altro, però, ed è su questo che vorrei soffermarmi.
Il titolo del pezzo è: “Con Angioy nasce l’autonomismo sardo”. Asserzione poi ripresa al principio dell’intervista.
Mi colpisce perché è un’affermazione molto avventurosa, direi oltre il confine della correttezza storica e giuridica.
Per giunta, l’affermazione resta lì, nella sua apoditticità, senza ulteriore sviluppo, senza argomentazioni a sostegno.
Peccato, perché probabilmente dietro una dichiarazione così impegnativa c’è un ragionamento, una linea interpretativa. Sarebbe stato interessante conoscerli.
In mancanza, bisogna fare i conti con il suo contenuto puro e semplice.
Perché dico che è un’affermazione scorretta? Be’, intanto bisognerebbe intendersi su cosa significhino autonomismo e autonomia.
Benché etimologicamente “autonomia” voglia dire “il potere di darsi le leggi da sé”, in realtà, giuridicamente e storicamente, si tratta di un istituto che riguarda forme particolari di competenza normativa e amministrativa riconosciute a un territorio specifico all’interno di un ordinamento giuridico statale.
Non inquadra l’esercizio di poteri sovrani, dunque, ma di poteri derivati, sia pure di particolare larghezza.
Nella storiografia sarda si è spesso utilizzata la cornice interpretativa autonomista per leggere vicende politiche di periodi diversi, anche lontani.
Dall’epoca contemporanea si è spesso risaliti fino al periodo del Regno di Sardegna spagnolo, o all’epoca giudicale e persino all’Età antica (pensiamo a un personaggio come Ampsicora).
Si tratta sempre e comunque di anacronismi. Non proprio innocui.
Di autonomia e autonomismo, in Sardegna, si può legittimamente parlare solo dal 1848 in poi.
Nel 1848 entrò in vigore la Perfetta Fusione, omologando l’isola ai possedimenti sabaudi di terraferma, e fu promulgato lo Statuto albertino.
Finiva definitivamente la lunga storia del Regno di Sardegna (per quanto il suo nome resterà in vigore fino al 1861) e l’isola entrava in un’orbita giuridico-politica più ampia, teoricamente alla pari con gli altri territori sabaudi.
Teoricamente, appunto. Ed era già una diminuzione, dato che il rango dell’isola – di diritto e formalmente, se non di fatto – fin lì era stato superiore a quello del Piemonte, della Savoia, di Nizza e della Liguria.
Ma, a parte questi aspetti formali, la fregatura, presto rivelatasi come tale anche agli occhi dei promotori della Fusione, fu di natura sostanziale.
Gli attesi vantaggi di classe, per la minoranza ambiziosa e affaristica che vi aveva contato, non arrivarono affatto.
Nello stesso momento iniziò il Risorgimento italiano e nel giro di pochi anni la Sardegna si ritrovò incastrata, ormai senza più alcuna prerogativa sua propria, dentro un contesto politico ancora più ampio, di cui era una propaggine oltremarina marginale, lontana, senza peso.
A questi anni si può ascrivere il primo pensiero autonomista sardo.
I vari Siotto Pintor, Tuveri, Asproni, Fenu, con sfumature assai diverse tra loro, allestirono l’armamentario concettuale e politico a sostegno della richiesta di un regime giuridico-amministrativo particolare per l’isola.
Più tardi, a cavallo tra i due secoli XIX e XX, ci sarà una nuova ventata di rivendicazioni, questa volta più radicali, benché teoricamente poco strutturate e senza alcuna vera leadership.
E ancora nel primo dopoguerra, come si sa, emergerà il sardismo, come prima vera politicizzazione della questione sarda (vedi Pala, 2016), con una formulazione più compiuta dell’autonomismo (benché la base del PSdAz fosse decisamente orientata all’indipendenza).
Infine, storia nota, nel 1948, insieme alla nuova costituzione repubblicana, sarà approvato lo Statuto di autonomia regionale, che ancora oggi regola l’amministrazione e le competenze della Regione sarda.
Questo è il percorso e sono i termini dell’autonomismo e dell’autonomia, in Sardegna.
Cosa abbia a che fare con tutto ciò Giovanni Maria Angioy è un mistero.
Il Regno di Sardegna nel quale agiva Angioy era uno stato di Ancien Régime. Come tutti quelli suoi coevi in Europa.
Ciò che rivendicavano i rivoluzionari sardi non ha nulla a che fare con l’istituto dell’autonomia e con l’autonomismo.
L’ala più radicale, cui Angioy faceva capo e di cui era in qualche modo la figura più rappresentativa, aspirava a un mutamento di regime, all’ottenimento di una costituzione (come tutti i rivoluzionari, da questo periodo fino a buona parte dell’Ottocento), all’abolizione del feudalesimo e, come istanza più estrema, alla proclamazione della repubblica (con annesso commiato dai Savoia).
La richiesta di una costituzione da parte dell’ala più innovatrice dei rivoluzionari sardi, espressa molto didascalicamente nel proclama politico L’Achille della sarda liberazione (più o meno del 1795, coevo dell’inno Su patriota sardu a sos feudatàrios), viene di solito derubricata a dimostrazione della limitatezza degli orizzonti politici della rivoluzione sarda.
Come se si trattasse di una richiesta minima, di retroguardia, rispetto alle punte politiche più avanzate di quel periodo, in Europa.
Ma questo è un errore grossolano (se in buona fede) oppure è una mistificazione.
Gli stati europei allora erano stati assoluti, centralisti, autoritari. Formatisi in contrapposizione ai regimi pattizi tipici del Medioevo, nel corso dell’Età moderna i vari regni si erano andati consolidando intorno alla figura di un sovrano depositario di poteri quasi illimitati.
Emblema tipico di questo fenomeno storico è Luigi XIV di Francia, il Re Sole, colui che poteva dichiarare senza esagerare troppo: lo Stato sono io!
Un processo di tipo politico e giuridico che era servito a marginalizzare le pastoie e le frammentazioni ereditate dal passato, specie di natura feudale, ma che ormai nel XVIII secolo era diventato obsoleto.
Il mondo, nel corso del Settecento, era radicalmente mutato. Le forme giuridiche e politiche assolutiste si scontravano con le idee dei Lumi, col pensiero scientifico, con le conquiste della tecnica, con le esigenze di un’economia già sostanzialmente globalizzata.
Era un mondo pieno di contraddizioni, ma in cui le aspettative di progresso politico e sociale erano fortissime.
Trasformare lo stato assoluto, in balia del potere (e dei capricci) di questo o quel sovrano e della sua corte, in uno stato di diritto, con una legge fondamentale scritta, certa, e una precisazione dei poteri, dei diritti e dei doveri di tutti, era un’esigenza molto diffusa.
In Europa c’era già stata una costituzione in Corsica nel 1755 e poi, poco prima della rivoluzione sarda, una in Polonia nel 1791 e naturalmente quelle francesi (1791, 1793).
In America c’era stata la ribellione delle tredici colonie britanniche e la nascita degli Stati Uniti.
Riformulare i principi cardine dell’ordinamento statale era ormai una sorta di necessità, o comunque di forte richiesta delle componenti sociali e politiche più dinamiche.
In Sardegna le idee circolavano da tempo. La classe dirigente, in molte sue componenti, era molto diversa da quella del periodo immediatamente precedente.
Giovanni Maria Angioy era completamente immerso dentro questa atmosfera così conflittuale e così pregna di attese, di concetti nuovi, di voglia di cambiare le cose.
L’attrito tra aspettative e realtà era fortissimo.
La Rivoluzione sarda nasce, si sviluppa e ha la sua parabola dentro questo momento storico, e i suoi protagonisti, fino agli ultimi epigoni angioiani finiti al patibolo, in carcere o in esilio nel 1812, erano perfettamente in consonanza con esso.
Niente di tutto ciò – questo è il punto – è anche solo vagamente accostabile all’autonomismo e all’istituto dell’autonomia.
I Sardi dell’epoca di Angioy non sospettavano di essere sardi “ma anche qualcos’altro”. Non avevano il problema di doversi definire rispetto a un contesto ulteriore, estraneo.
Non avevano nemmeno l’esigenza di dover rivendicare l’indipendenza da uno stato di cui non volevano far più parte, dato che lo stato… erano loro.
Lo stato era il Regno di Sardegna. Caso mai si trattava di sbarazzarsi del potere centralista, ottuso e reazionario dei Savoia (i “principi del Piemonte”, come li definisce sprezzantemente Angioy nel suo Memoriale) e dei loro funzionari, insieme all’odioso e anacronistico regime feudale.
Si trattava di restituire all’isola un respiro politico e una possibilità di prosperità economica che ad Angioy e alle migliaia di altri sardi coinvolti in quei frangenti sembravano certamente dovuti e perfettamente raggiungibili.
Non si capisce perché ridurre tutto questo a cornici interpretative anacronistiche, e in un senso molto evidente anche sminuenti, come autonomismo e autonomia.
Tanto più è sorprendente tale approssimazione da parte di persone avvertite, competenti.
La vicenda rivoluzionaria sarda, come anche l’intera storia dell’isola, non ha mai goduto di pieni diritti di cittadinanza nella storiografia e nella divulgazione storica italiana.
Fondamentalmente perché è estremamente difficile incastrarcela, se non in modo forzato e al prezzo di approssimazioni, aggiustamenti e a volte di veri pasticci.
Questo dipende sia dalla matrice ideologica dell’organizzazione del sapere italiano e degli studi storici in particolare, sia dalla timidezza e da un certo conformismo della storiografia sarda medesima.
Chiamare le cose col proprio nome, ricondurre i fatti alla loro consistenza storica, così come avvennero e dentro il contesto in cui avvennero, con le loro cause e le loro connessioni, può risultare scomodo, in una condizione di subalternità culturale come quella sarda attuale.
In una situazione di denegazione storica come la nostra, in cui addirittura un organo periferico dello stato può proibire a un’amministrazione comunale di riformulare la propria odonomastica, essere fedeli alla verità storica può suonare addirittura minaccioso.
Tuttavia, e a maggior ragione, è comunque un dovere degli studiosi, e degli storici in primo luogo, mantenere fede alla correttezza metodologica e alla responsabilità pubblica richieste dal loro ruolo.
Ma l’ho fatta anche troppo lunga e mi fermo qui, con le puntualizzazioni.
Non mi resta che augurare buona lettura a chi affronterà questo nuovo racconto della vita, del pensiero e dei luoghi di Giovanni Maria Angioy.
Un ulteriore strumento a disposizione, oltre al suo Memoriale e agli altri testi già disponibili su quel periodo (in primis la mai superata opera di Girolamo Sotgiu Storia della Sardegna sabauda).
Spero si riveli alla portata di un pubblico ampio e diversificato.
Lungi dal pretendere di soddisfare definitivamente la sete di conoscenza storica, così forte e diffusa tra i sardi, confido che sia una fonte di ulteriore curiosità e anche, perché no, un piccolo stimolo etico e politico.