Regolarmente, in occasione del trittico di festività tra 25 aprile e Primo maggio, si generano in Sardegna cortocircuiti politici significativi. L’inserimento tra la celebrazione italiana (il 25 aprile) e quella internazionale (il Primo maggio) di una festività tutta sarda (il 28 aprile, Die de sa Sardigna) fa emergere tutte le contraddizioni e i controsensi della nostra precaria identificazione collettiva.
Circa il 25 aprile (ricordo della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo), anche in Sardegna si ripropongono ottusamente le polemiche veicolate dai mass media italiani circa la natura della celebrazione e il suo senso storico e civile.
A contrasto di questa lettura, interamente schiacciata su cornici concettuali aliene, emerge ultimamente sempre più di frequente il rifiuto della celebrazione stessa in quanto estranea alla nostra vicenda storica, col rischio di buttare via, insieme all’acqua sporca dell’auto-colonizzazione culturale, anche il bambino del significato emancipativo universale della ricorrenza, nonché il dato dei tanti sardi che parteciparono alla Resistenza contro il fascismo e il nazismo. Un bel nodo da sciogliere, indubbiamente.
La vicinanza del 28 aprile e della “Giornata del popolo sardo” acuisce il problema. Specie in circostanze come quelle di quest’anno, in cui per disinnescare il possibile conflitto tra fascisti e antifascisti in occasione del 25 aprile si è concesso ai nostalgici del Ventennio e della Repubblica di Salò di svolgere la loro commemorazione (di per sé alquanto ingiuriosa, bisogna anche dirlo) proprio il 28, nella giornata che dovrebbe essere dedicata alle rievocazioni della Rivoluzione sarda e dei suoi significati politici.
Tale scelta è di per sé un gravissimo insulto alla nostra memoria e al senso profondo della nostra festività nazionale. Viene spontaneo domandarsi se ci sia sotto più ignoranza o più calcolo.
Dato per ammesso che si possa legittimamente permettere una rievocazione nostalgica del fascismo (cosa di per sé alquanto discutibile), non si capisce perché la si debba collocare proprio nella giornata in cui i sardi sono chiamati – una volta tanto – a riappropriarsi della loro memoria collettiva e di uno dei momenti più rilevanti della loro parabola storica (anche per le conseguenze che ha sul nostro presente).
Di questo bisognerebbe chiedere conto pubblicamente e con molta maggior forza di quella espressa nel criticare dichiarazioni improvvide ma coerenti (dal punto di vista italiano) e sensate (sul piano storico e politico) di un personaggio del tutto marginale come l’ex segretario della CISL Raffaele Bonanni, a proposito dell’inutilità dell’autonomia speciale sarda. Occasione questa in cui il mito tecnicizzato dell’orgoglio sardo mostra tutta la sua natura strumentale, puntualmente funzionale a spostare il focus dell’attenzione generale dalle questioni profonde e rivelatrici a questioni del tutto inconsistenti.
Ad aggiungere insensatezza all’errore fatto, tuttavia, è la reazione di chi intende contrastare la celebrazione fascista. Proprio qui si rivela la profonda scissione e la natura subalterna della nostra identificazione diffusa.
Gli antifascisti e i benpensanti sardi di sinistra non hanno nulla da ridire sul fatto che si profani sa Die de sa Sardigna (da molti di loro vista come una ricorrenza folkloristica e senza alcuna rilevanza storica e/o politica), ma si limitano a contrapporre ai nostalgici del Duce un antifascismo di facciata, che si manifesta solo per reazione e solo esteriormente, magari intonando scompostamente un Bella ciao, pensando così di salvare la propria coscienza e di dare una risposta forte alla provocazione fascista.
Non c’è alcun esercizio critico, alcuna riflessione, alcuna offerta di contenuti significativi in tale reazione. Si applicano in modo meccanico comportamenti e cliché retorici mutuati da altri contesti e da altre vicende collettive, sentendosene parte (almeno per un giorno), come se questo bastasse a trasportarci finalmente dentro l’alveo rassicurante della “grande Storia”, quella che si studia a scuola, che si legge sui libri e di cui parla la TV, da cui – in quanto sardi – saremmo esclusi.
L’ignoranza di sé produce vuoto esistenziale, deprivazione di senso. Tale deficit deve essere superato in qualche modo. I fascisti sardi lo fanno scimmiottando i propri riferimenti culturali italiani, gli antifascisti sardi idem.
Il rifiuto del fascismo e di tutto ciò che esso rappresenta non deve farci dimenticare quanto sia debole e poco fondata una coscienza antifascista che prescinda dalla nostra storia o addirittura la rifiuti.
Chiunque in Sardegna si reputi democratico, progressista, magari esplicitamente di sinistra e dunque, inevitabilmente, antifascista, deve riflettere molto accuratamente sulla necessità di connettere le proprie propensioni politiche al proprio contesto reale, storico, di riferimento.
O è così, o anche le pulsioni più emancipative a cui si crede di aderire rimarranno mero esercizio estetico e in fondo costituiranno uno strumento di normalizzazone e di perpetuazione dello status quo persino più efficace delle pagliacciate inguardabili e disgustose messe in scena dai pochi, patetici fascistelli al pecorino nostrani.