Partito unico dei sardi: un feticcio deresponsabilizzante e reazionario

Un feticcio si aggira per la Sardegna, quello del partito “dei sardi”. Nella crisi generale della politica, che non è certo iniziata oggi e che ha avuto nella patetica manfrina elettorale, post elettorale e presidenziale italiana solo la sua certificazione, sembra che dalle nostre parti stiano emergendo nuove pulsioni trasformiste, di quelle buone per far finta di cambiare tutto mentre nulla cambia.

Ci hanno già provato i residui del centrosinistra di stampo italiano a coniare la nuova formula magica, il “sovranismo”. Pura neo-lingua, naturalmente. E per ora – sembra – lasciata da parte. Grattacapi magari meno fascinosi ma ben più concreti hanno tenuto occupata in questi mesi la nomenklatura partitica, specialmente quella del PD. Ma vista l’aria che tira non è escluso che il vessillo neo-autonomista del sovranismo verrà rispolverato, magari inventando una sorta di centrosinistra italiano in salsa più sarda, ma ovviamente animato dai medesimi soggetti e vincolato allo stesso grumo di interessi specifici.

Del resto, al solito, gli esponenti nostrani del PD non brillano per fantasia e spirito di iniziativa. Mentre si incaponiscono nella propria autodissoluzione, rischiano di essere sorpassati a destra (loro massimo timore) dalla nuova santa alleanza che va formandosi, un po’ sulle rovine dei vecchi schieramenti in disarmo, un po’ come reazione al pericolo rappresentato (agli occhi degli apparati di partito e dei loro complici) da Grillo e dai suoi seguaci nostrani. È lì che si fa strada la trovata del partito unico dei sardi, a volte in salsa dichiaratamente indipendentista, a volte in termini più ambigui, anche se la strizzatina d’occhio all’ambito indipendentista c’è sempre.

I limiti del sovranismo come riverniciatura retorica della nostra dipendenza sono stati esposti a più riprese e in più sedi e per ora non serve tornarci su. Quelli del “partito unico dei sardi” vanno invece precisati, onde sgomberare il campo da equivoci e incomprensioni, se non da veri e propri inganni (e autoinganni).

Intanto bisogna intendersi su cosa sia un partito politico. Lungi dall’essere il nemico contro cui combattere per far trionfare la democrazia, dentro il nostro sistema socio-economico e politico i partiti sono una funzione basilare della convivenza tra i cittadini. Le formazioni sociali intermedie servono a organizzare gli interessi e gli obiettivi dentro l’alveo di una dialettica sensata, che abbia come posta in gioco non interessi individuali o specifici, ma interessi condivisi da intere categorie sociali e al contempo collegati con la sfera degli interessi generali dell’intera collettività storica di cui si fa parte. Senza la mediazione dei partiti (qualsiasi forma essi prendano) la rappresentanza politica, la formazione delle decisioni, la stessa coesione sociale sarebbero a rischio, in balia o di pulsioni autoritarie o del disordine e della violenza. Certamente si può discutere e provare a modificare l’attuale assetto socio-economico e politico. È lo scopo di tutte le visioni rivoluzionarie. Ma anche in questo caso è necessario dare una forma collettiva a tali orientamenti e declinarli in termini pratici dentro una organizzazione in qualche modo formalizzata.

I partiti rappresentano sempre degli interessi, dei bisogni, degli obiettivi. Possono essere condivisi da una fetta più o meno ampia della popolazione, possono essere basati su una mitologia più o meno tecnicizzata ovvero su pulsioni spontanee e storicamente vive, possono essere legati a una parte sociale specifica o condivisi da una pluralità di soggetti non omogenea, ma sempre e inevitabilmente i partiti promuovono degli interessi e degli obiettivi.

Anche quando un partito si presenta come ecumenico in realtà porta avanti idee, interessi e obiettivi parziali, ossia non universali. Questo perché le società umane non sono monolitiche e non sono omogenee. Ogni collettività umana, anche quando sia piccola, è eterogenea per sua propria natura. La dialettica e spesso il conflitto aperto caratterizzano la convivenza umana. Quel che fa sì che non ci autodistruggiamo (o almeno, non ci siamo ancora autodistrutti, pur avendoci provato) è che di solito prevale la composizione dei conflitti e la ricerca di una condizione di equilibrio. Del resto è un fatto squisitamente evolutivo, niente di cui ci si possa meravigliare. La composizione dei conflitti si basa sulla consapevolezza profonda della nostra socialità, del fatto di essere animali gregari. L’individuo non ha alcuna rilevanza in termini biologici e nemmeno in termini storici, a dispetto di quel che propugna l’ideologia totalitaria dominante. Così ciò che alla fin fine è necessario preservare è la collettività in quanto tale e – in ultima istanza – la nostra specie. Nelle società complesse ciò significa che la mediazione sociale e la composizione dei conflitti devono essere affidate a strumenti più sofisticati di quelli a disposizione di un branco di lupi o di un clan di scimpanzé o di una tribù umana di cacciatori-raccoglitori.

Rimane il dato che le collettività umane non sono di per sé, al proprio interno, uniformi e indistinte. C’è sempre il gioco degli interessi, dei desideri, delle pulsioni affettive e ideali a movimentarle. Negarlo è una mistificazione. Ma è precisamente questo ciò che storicamente, nel corso dell’Età contemporanea, hanno sempre fatto i centri di potere conservatori o addirittura reazionari.

Il nazionalismo moderno nasce sulla base dell’idea che esista un’entità storica assoluta, la Nazione appunto, una collettività fondata sul vincolo del sangue e sulla condivisione di lingua, usi, religione e di solito anche territorio (a volte il territorio è da riconquistare o da difendere, ma c’è sempre anche il riferimento geografico). È una visione che, sebbene nata in ambito rivoluzionario, con i giacobini francesi e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, è stata poi assunta e assolutizzata dal pensiero romatico e dallo storicismo, diventando patrimonio della destra politica europea. In questa visione si presuppone una armonia intrinseca nella Nazione, collettività che di per sé nasce ordinata e stabile in un tempo lontano e mitico. Nel seno della Nazione ognuno ha il posto che merita e – in mancanza di elementi di disturbo – le cose vanno meravigliosamente. Se le cose non vanno meravigliosamente è perché qualcuno o qualcosa crea una perturbazione. Di solito si tratta di elementi estranei, di volta in volta facilmente individuabili nella Nazione vicina, o in un elemento interno non assimilabile (le minoranze linguistiche o religiose, per esempio; a lungo gli ebrei, in Europa, o gli armeni in Turchia all’inizio del Novecento, o gli immigrati nell’Italia recente). Comunque c’è qualcosa che interviene a compromettere la naturale armonia intrinseca della Nazione.

Questa visione nasconde la dialettica interna delle società umane e soprattutto i rapporti di produzione e di forza che innervano le nostre collettività contemporanee. Rifiutare la dialettica interna a una società non serve ad eliminarla, serve solo a contrastare le pulsioni di emancipazione e di riscatto delle fasce svantaggiate della popolazione o le idee di rinnovamento politico e/o di riassetto economico. In nome della pretesa armonia si sacrificano i diritti delle minoranze e l’universalità stessa dei diritti umani e civili, o si riduce l’uguaglianza, quando pure è formalmente assicurata, a una mera dichiarazione astratta, valida solo fintantoche ognuno rimane al suo posto, ossia non pretende di esprimere liberamente la propria personalità o di cercare di migliorare la qualità della vita di intere categorie sociali. Il nazionalismo, insomma, è un’ottimo instrumentum regni a vantaggio della fascia privilegiata della popolazione.

Questa lunga premessa serve a chiarire come sia del tutto fuorviante e persino pericoloso promuovere in Sardegna la formazione di un partito dei sardi. Cosa dovrebbe rappresentare, tale formazione sociale? Quali interessi dovrebbe perseguire? In nome di che cosa? L’idea di fondo è che la Sardegna debba difendersi o addirittura farsi valere nel suo rapporto conflittuale (inevitabilmente conflittuale) con lo stato italiano. Ci si dovrebbe dunque riconoscere tutti, in quanto sardi, in una formazione politica volta a rappresetarci collettivamente nel confronto con un’entità esterna ostile.

È facile constatare che in fondo si tratterebbe di una riproposizione, in salsa solo più scopertamente nazionalista, del Partito Sardo d’Azione. Ciò dovrebbe spingerci a ricordare quale sia stata la parabola storica di questa formazione politica. Fin dall’inizio l’ambiguità ideologica causò scissioni e conflitti, a cominciare dall’adesione al fascismo di una parte della sua dirigenza e dei militanti (1922-3). Ancora di recente abbiamo assistito all’alleanza tra il PSdAz e la destra italiana, nel governo della Regione sarda, con tanto di consegna della bandiera a un personaggio come Silvio Berlusconi. A poco vale richiamare l’eredità morale e politica di Emilio Lussu, quando egli stesso abbandonò la sua creatura fin dal 1948, disgustato per la debolezza espressa nella fase di redazione dello Statuto autonomista.

Il feticcio identitario e la “specialità regionale”, temi fondativi del sardismo politico, non sono mai bastati a farne un’ideologia costruttiva ed efficace sul piano pragmatico. Anzi, di fatto sono stati elementi determinanti della nostra debolezza culturale e politica. Portare tale modello alle sue estreme e più esplicite conseguenze letterali (ossia propriamente nazionaliste) non farebbe che sancire un’adesione assoluta allo status quo, agli assetti di potere già in vigore o comunque ad assetti diversi ma non meno rigidi e nient’affatto emancipativi, in nome dell’appartenenza a una presunta e astratta “sardità”.

Quello di cui ha bisogno lo scenario politico sardo non è la cristallizzazione di una forza politica nazionalista, bensì una vasta e diffusa presa di coscienza della nostra condizione storica, dei veri rapporti di forza in gioco, dei guasti prodotti dalla nostra dipendenza e dalla ideologia di sudditanza e autorazzismo che la sorregge. Ma questo non significa affatto negare la dialettica interna alla nostra società. Deve essere anzi molto chiaro che dalla condizione di dipendenza e subalternità il blocco storico che ci domina da duecento anni trae la propria legittimazione e la propria forza. L’emancipazione dei sardi come collettività storica non potrà avvenire spostando il centro del discorso su un piano di ostilità verso un soggetto esterno (lo stato italiano, l’Europa, le banche o che so io), sventolato come spauracchio, bensì dovrà avvenire attraverso un conflitto (democratico e nonviolento, se possibile) tra la classe dominante sarda e il resto della nostra collettività. Non ci libereremo della dipendenza dall’Italia senza mettere in discussione gli assetti di potere e i rapporti di produzione vigenti. Che sono fondamentalmente una degenerazione del modello capitalista in termini parassitari e clientelari, molto simile agli esiti della decolonizzazione in Africa (vedi, ad esempio, quel che diceva Thomas Sankara).

Perché tale processo di liberazione non sia cruento e non produca più danni di quelli a cui vuole ovviare, sono da salvaguardare la nostra pluralità culturale e la nostra dialettica sociale e politica. I partiti devono riorganizzarsi e riformularsi dentro uno scenario che non contempli più i centri di potere italiani (o comunque stranieri) come i propri referenti principali o i propri mandanti. Il centro focale degli interessi e degli obiettivi deve essere la Sardegna. Lo spazio in cui far valere gli interessi e giocarsi il consenso deve essere la Sardegna. Il referente concreto degli obiettivi e della proposte deve essere la Sardegna. Questo sia che si propugni una visione conservatrice, o di stretta osservanza capitalista, o liberale, o socialista, o quant’altro. Non serve dunque un grande partito dei sardi: l’idea del partito dei sardi denuncia chiaramente una visione di noi stessi come appendice di un sistema più vasto e altro da noi, con cui instaurare un rapporto dialettico o conflittuale. Servirebbe invece che il panorama politico sardo si articolasse in termini di forze organizzate che siano espressione del nostro territorio, delle nostre categorie sociali, dei nostri interessi.  Ciò muterebbe molto rapidamente la percezione che la maggior parte dei sardi ha di sé, perché li costringerebbe a vedersi come una collettività storica a sé stante. Da lì nascerebbe il vero e proficuo confronto dialettico con l’Italia e una nuova apertura verso il mondo.

I profeti del partito unico dei sardi sono soltanto dei conservatori che tutto hanno a cuore tranne la nostra emancipazione storica collettiva. In qualche caso potrebbero addirittura essere degli elementi di disturbo o di indebolimento del percorso politico verso la nostra autodeterminazione. È necessario tenerlo presente.