Seguendo da vicino le cronache politiche sarde, ma anche quelle solo apparentemente più neutre relative alla cultura e ai costumi, rimane sempre una sensazione di incompletezza e di insoddisfazione.
Non è tanto la scarsa capacità dei cronisti o il taglio spesso dozzinale dei pezzi – sia televisivi, sia cartacei – a saltare agli occhi. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Se è vero che complessivamente il giornalismo sardo è a un livello piuttosto scadente, è anche vero che esistono tanti bravi professionisti (o aspiranti tali) che cercano di lavorare bene e scrupolosamente. Caso mai il nodo del problema sono le direzioni e le proprietà editoriali. Sono loro e i loro orientamenti, le loro pratiche, a dover essere messe in discussione. Lì si annidano conflitti di interesse mostruosi, disegni politici precisi, volontà di manipolazione evidenti.
Ma c’è un aspetto più profondo di cui tener conto. Sono i presupposti su cui si fonda la nostra narrazione collettiva, quelli che da quasi tutti i sardi vengono dati per scontati, presupposti che favoriscono i falsi miti, le costruzioni retoriche tossiche, la metabolizzazione di costrutti debilitanti su cui poi si innesta facilmente la narrazione giornalistica.
In Sardegna esiste una sorta di concetto deterministico della storia, secondo il quale noi e le nostre vicende siamo così e non c’è alcuna possibilità che le cose vadano diversamente. In fondo è una delle argomentazioni più forti contro la prospettiva della nostra autodeterminazione politica: sì, una bella idea, una utopia virtuosa forse, ma impossibile da realizzare, perché siamo sardi. I sardi come problema in sé. Qualcuno ha avuto anche modo di formalizzarla questa cosa: il vero problema della Sardegna sono i sardi. Sia Ugo Cappellacci sia Renato Soru hanno espresso (in sedi e contesti diversi, ma in termini abbastanza simili) questa loro convinzione. E stiamo parlando degli ultimi due “governatori” della Sardegna.
Questo elemento discorsivo così diffuso, questo luogo comune, si fonda precisamente su una nostra pretesa tara congenita che ci impedirebbe, proprio in quanto sardi, di poter aspirare a qualcosa di meglio della nostra subalternità. Non sono condizioni storiche, scelte politiche, processi di breve o di lunga durata, ma solo la nostra essenza antropologica patogena a determinare il nostro destino.
Chissà se lo sapevano i nostri antenati rivoluzionari, specie quelli finiti al patibolo o morti in esilio, che si stavano sacrificando per una pia illusione.
Attenzione: anche qui qualcuno potrebbe obiettare che proprio il fallimento della Rivoluzione sarda sia una dimostrazione concreta dell’assunto di partenza. Ma è evidentissimo che in questo caso si scambierebbe l’effetto per la causa. Il fallimento storico della Rivoluzione e della entrata diretta e spontanea della Sardegna nella Modernità è una delle cause delle nostre magagne strutturali e del nostro conseguente complesso di inferiorità, non viceversa.
Non esiste alcuna essenza antropologica tutta sarda. Tanto meno esiste una essenza antropologica tutta sarda che ci voterebbe per natura al fallimento e alla sudditanza. Se in molti ne sono convinti, è perché abbiamo interiorizzato i costrutti che l’egemonia culturale dominante da duecento anni in qua ha sedimentato e assemblato nel nostro mito identitario. Quel mito volto proprio a stabilizzare una condizione storica, di suo transeunte, ammantandola di una pretesa assolutezza senza alternative (come spiegato più volte e in dettaglio, da queste parti ed anche altrove).
Nelle vicende umane attraverso il tempo non ci sono meccanismi rigidamente deterministici. Esistono campi probabilistici dove hanno luogo i processi storici, la continua catena di cause ed effetti intrecciati che costituisce trama e ordito delle nostre esistenze collettive. Certamente il campo di probabilità non è illimitato. Esistono fattori restrittivi di tipo geografico, ambientale, fisico ed anche culturale, economico, politico. Ma pensare che ci sia una sorta di predeterminazione degli esiti storici è una tesi totalmente arbitraria, fondata su un paralogismo, un ragionamento mal fondato: dato che gli esiti sono questi, significa che non potevano essercene altri. Su questa tesi sgangherata (smentita prima di tutto dalla fisica) si costruisce poi l’edificio ideologico che fa comodo alle classi dominanti.
Facile, per chi controlla i mezzi di comunicazione e i centri di potere, servirsi di tali narrazioni tossiche per perpetuare lo status quo o mutarlo a proprio vantaggio all’occorrenza. Per questo è necessario aumentare la massa critica degli individui consapevoli, far crescere le dinamiche anti-cicliche sia in economia, sia in politica, sia in ambito culturale. Non possiamo sapere che cosa ci riserva il futuro, ma dobbiamo essere coscienti che in quel che avverrà noi abbiamo la nostra parte di responsabilità. Tirarsene fuori dichiarando che tanto non c’è nulla da fare, significa sostanzialmente essere corresponsabili delle stesse condizioni storiche precarie che a parole si condannano.
Non basta protestare in piazza o chiedere l’attenzione del potere. Non basta prendersela con “i politici”, i partiti o “la casta”. Queste sono valvole di sfogo fornite dallo stesso sistema di potere dominante contro cui si pensa di usarle. Quel che serve è l’impegno quotidiano, una prassi diversa e alternativa di ciascuno, ma non in termini individuali, bensì in termini relazionali, super-soggettivi, dunque politici in senso stretto. Non vale solo per la Sardegna, certo. Ma per la Sardegna vale a maggior ragione, data la nostra situazione storica e le gravi minacce che si addensano su di noi.
Continuare a considerare come unica forma di politica reale, “vera”, il giochetto da bari di cui si occupano i mass media principali e gli osservatori apparentemente più navigati, significa essere già caduti nella trappola. Noi la trappola dobbiamo romperla. Dobbiamo riportare la politica nella realtà, dentro la nostra condizione storica, a contatto con i problemi e le dinamiche che ci riguardano, estraendola dalla sfera di narrazioni insensate e centrate altrove in cui l’hanno ingabbiata. Chi vuole continuare quella partita, che la continui pure, se gli va a genio o spera di guadagnarci. Ma non pretenda che siamo tutti suoi complici. O sue vittime passive.