Quarantatre anni fa, tra il 18 e il 19 giugno 1969, le cronache sarde furono attratte da un episodio che scalzava dall’immaginario collettivo la delusione per il secondo posto del Cagliari nel campionato di calcio appena concluso.
Erano anni movimentati e interessanti. Il fallimento dell’autonomia regionale era già evidente, così come quello del Piano di Rinascita del 1962. L’industrializzazione non aveva mantenuto le promesse fatte, gli occupati nel settore erano calati, anziché aumentare, molti sardi continuavano a dover emigrare, le campagne soffrivano un evidente abbandono a se stesse, i nodi strutturali erano ancora tutti da sciogliere e i fenomeni criminali, antropologicamente etichettati come “banditismo”, imperversavano.
I circenses gentilmente procurati dai munifici petrolieri Moratti e Rovelli, allora padroni dell’Isola, non sembravano bastare a placare gli animi. Il Cagliari di Gigi Riva era una bella arma di distrazione di massa, ma era anche un elemento di risveglio identitario, di identificazione virtuosa, non succube, che rischiava di diventare controproducente. In più molti sardi ormai avevano acquisito un livello di scolarizzazione mai sperimentato prima e le università si erano dischiuse anche a chi non proveniva dalla ristretta elite legata alla classe dominante. Non era così facile evitare che i sardi cominciassero a pensare e a pensarsi da sé.
Di quegli anni sono le riflessini di Mialinu Pira, di Giovanni Lilliu, di Antoni Simon Mossa. Il cortocircuito tra tradizione e modernità faceva sprizzare scintille di consapevolezza, magari difficili da imprigionare in una pacifica fiamma di identificazione diffusa, in un pensiero addomesticato e pronto all’uso politico. Ma le premesse c’erano. I fermenti sociali e le istanze liberatorie esplose nel mondo in quegli ultimi anni emergevano anche in Sardegna.
Era un problema, perché troppi elementi congiuravano a generare una situazione incontrollabile, in cui aspettative deluse, nuove capacità critiche e questioni identitarie difficili da sopire minacciavano di fondersi in una prospettiva politica.
Era solo un’ipotesi, in realtà, nulla più. Mancavano forze intellettuali e sociali in grado di fare massa critica e di assumere la guida di un cambiamento epocale. Eppure il sistema di dominio che teneva sotto controllo l’Isola doveva sentirsi minacciato.
Allora non si andava tanto per il sottile. Se necessario, si procedeva senza tanti scrupoli a colpi di stato (come in Grecia) o a strategie terroristiche (come in Italia: destabilizzare per stabilizzare). Dentro questa atmosfera si muoveva come un pesce nell’acqua un esponente della politica sarda che aveva già avviato una brillante carriera a Roma: Francesco Cossiga. Ex “giovane turco” (la generazione di democristiani che aveva fatto le scarpe ai notabili del partito, dopo la prima fase della ricostruzione post-bellica), ormai era arrivato al governo e sappiamo che ci sarebbe rimasto a lungo. Da sottosegretario alla Difesa – narrano le cronache – perorò la necessità di un’azione decisa dello stato nelle Zone Interne della Sardegna, per ribadire chi comandava.
Cossiga è l’emblema del politico sardo votato al potere e alla carriera personale in Italia, la cui visione della Sardegna è quella dell’utile strumento di consenso, da spendere nelle alte sfere italiane. Una visione del tutto retorica e strumentale della sardità.
Essendo allora Orgosolo l’emblema del disordine, della devianza banditesca e anche di certe aspirazioni politiche vagamente comuniste (ma il “vagamente” in quegli anni non esisteva), si pensò bene di dare una lezione a tutte le Zone Interne e all’intera Sardegna imponendo sul territorio del comune del Supramonte una servitù militare, una delle tante. Nella zona di Pratobello si sarebbe istituito un poligono di addestramento, una base militare, con chiari scopi deterrenti, oltre che punitivi.
La zona di Pratobello era destinata a pascolo ed era una parte di agro comunale immune dalla proprietà privata e lasciata indivisa: una risorsa insostituibile per molte famiglie del posto che non avevano di che pagare affitti altrove. Un luogo simbolo, anche, il cui uso comunitario affondava le sue radici nei secoli, in tempi lontani, prima delle chiudende, prima dei Savoia e persino degli Spagnoli.
La scelta di espropriare la comunità di quel pezzo di territorio per destinarla a uso militare aveva tutti i tratti dello sfregio, al di là della sua ipotetica efficacia concreta. Questo tratto offensivo non poteva sfuggire a una popolazione per la quale certe regole consuetudinarie non erano ancora venute meno. L’offesa è peggio del danno in sé e va riscattata. Non si può soggiacere a un’offesa senza reagire, pena la perdita della dignità. In questo caso, della dignità collettiva.
Da lì naque la risposta popolare all’arrivo dei militari. Una sollevazione di tutto il paese, donne in testa, per impedire che l’esercito prendesse possesso del territorio. Una manifestazione di massa, una sfida coraggiosa, di vera balentia, che mise l’esercito italiano e i vertici politici che ne guidavano le operazioni in una situazione scomoda e rischiosa. Situazione da cui i militari e i politici dovettero uscire tornando sui propri passi e lasciando campo libero agli orgolesi.
Questo furono i “moti di Pratobello”. Una vittoria di popolo contro un sopruso del potere dominante. Un evento estremamente significativo che non lasciava presagire nulla di buono, a chi aveva interesse a mantenere la situazione stabile e sotto controllo.
La rimozione ha dunque agito profondamente, su questo episodio. Difficilmente esso viene rievocato o narrato. Non se ne spiegano le premesse, il contesto, le possibili conseguenze. Tutt’al più qualche nostalgico lo annovera tra i fatti consolatori, dentro una narrazione di noi stessi altrimenti sempre perdente, un esempio di costante resistenziale, che poi ovviamente, come tale, lascia il tempo che trova, non sposta affatto l’inerzia della storia.
Invece si tratta di un evento che andrebbe raccontato, analizzato e reso comprensibile. Così come ne andrebbero raccontate e spiegate le scarsissime conseguenze, la mancanza di esiti politici più generali e più duraturi.
Uno dei problemi sta nel vuoto di memoria collettiva e di visione politica generale in cui cadde quel fatto. La mancanza di una identificazione salda, di un senso di appartenenza a una collettività storica compiuta, decretò la derubricazione dei moti di Pratobello al rango di manifestazione folkloristica, anziché innalzarlo a quello di precedente storico con significati politici.
In questo esito penalizzante ha un grandissimo peso l’assenza in Sardegna di una classe intellettuale all’altezza, realmente indipendente e padrona del proprio giudizio, così come l’inesistenza di una opinione pubblica strutturata. L’opinione pubblica allora – ma anche oggi è in larga parte così – era priva di elementi di giudizio fondamentali e facilmente manipolata dai mass media: basti pensare che l’Unione Sarda e La Nuova Sardegna erano in mano a Moratti e Rovelli, come tutto il resto, e la televisione era solo la televisione di stato italiana.
Lo scudetto del Cagliari, pur con tutte le sue connotazioni di riscatto identitario (ma da eterni sconfitti, appunto), fu utile a far sfogare la frustrazione repressa dei sardi, e la cappa conformista imposta dalla DC e dal PCI tennero a bada l’ambito politico isolano, impedendogli di immaginare percorsi di riscatto e di emancipazione storica troppo problematici. Il rifinanziamento del Piano di Rinascita (1974), con la realizzazione del petrolchimico di Ottana, furono una trovata politicamente più efficace della militarizzazione delle Zone Interne. Trovata fallimentare nei suoi esiti socio-economici, come sappiamo. Ma quello non era un problema. Non lo era perché il livello socio-economico dell’operazione non esisteva: si trattava dichiaratamente di un’operzione politica di disarticolazione del tessuto produttivo tradizionale, delle strutture culturali e relazionali consolidate. Oggi ne paghiamo le conseguenze.
A maggior ragione, dunque, è doveroso oggi rievocare i moti di Pratobello e sollecitare su di essi l’attenzione delle persone, dei cittadini, dei sardi. È un elemento della nostra narrazione collettiva che va salvaguardato e incastrato per bene al suo posto. Dal fallimento della stagione autonomista e dalla necessità della nostra emancipazione politica non è detto infatti che scaturisca spontaneamente un miglioramente della nostra condizione storica. La premessa perché la crisi diventi una opportunità e non sia solo un pericolo si trova nella consapevolezza di noi stessi, nel nostro saperci ubicare nel tempo e nello spazio, affinché nessuna narrazione debilitante e artefatta possa convincerci più di essere destinati alla sconfitta e alla subalternità.
Il ricordo di Pratobello deve essere uno stimolo a riappropriarci della nostra storia e a leggere la nostra vicenda collettiva con uno sguardo più nostro, più limpido, senza paura o reticenze. A immaginarci un futuro non utopico, in cui a decidere per noi saremo noi stessi, in cui le nostre sofferenze e i nostri problemi chiameranno in causa solo noi e non un padrone lontano e malvagio, su cui scaricare le colpe delle nostre manchevolezze. È dunque un richiamo alla responsabilità e alla dignità, molto scomodo e inattuale in un momento di crisi politica ed etica devastante come quello presente. Ma proprio per questo tanto più fondamentale.